Intervista all’Ambasciatore Domenico Vecchioni, autore di un libro sul Rais
Domenico Vecchioni è stato Ambasciatore italiano a Cuba negli anni passati e si conferma uno scrittore prolifico ed attento. Il suo ultimo libro, “Sangue e terrore a Bagdad” (Greco&Greco Editori) descrive la parabola discendente di Saddam Hussein, dalla giovinezza alle sfide lanciate a più riprese agli Stati Uniti che gli sono valse l’impiccaggione.
A cura di Gennaro Grimolizzi
Ambasciatore, Saddam Hussein è stato per molti anni funzionale all’Occidente. È un errore in cui spesso le potenze di questa parte del mondo incappano nel “corteggiare” alcuni dittatori?
«La situazione in Medio Oriente è sempre stata tremendamente complicata. Un intreccio di motivazioni storiche, politiche, religiose, dinastiche ed economiche difficili da districare e dove spesso si è confrontati a brutali revirements che arricchiscono il puzzle di sempre nuovi scenari. E insomma difficile individuare delle “costanti” nel comportamento dei principali attori della regione. Alleanze non di rado fatte sulla base di interessi contingenti e quindi suscettibili di imprevedibili cambiamenti. Nel caso di Saddam Hussein gli Usa hanno scommesso sul cavallo sbagliato nella loro ansia di arrestare l’espansionismo della rivoluzione khomeinista, avendo probabilmente sottovaluto l’inaffidabilità, l’imprevedibilità e la megalomania del Rais».
La guerra in Iraq di Bush padre prima e quella di Bush jr poi hanno rappresentato per gli Stati Uniti dei gravissimi errori in politica estera?
«Bisognerebbe distinguere. Bush padre ha agito sotto l’egida politica e legale dell’ONU, nel rispetto, quindi, del diritto internazionale, con l’appoggio dell’Occidente e di molti Paesi arabi, convinti che l’aggressione al Kuwait non poteva essere accettata. Conclusa la missione, ricacciato cioè Saddam all’interno dei suoi confini, Washington pensò che era preferibile lasciare il Rais al suo posto per non creare quei pericolosi vuoti di potere e imprevedibili sfasamenti che si sarebbero verificati a seguito della brutale caduta del regime. Ma Saddam non seppe approfittare di questa sua straordinaria fortuna, di conservare cioè il potere dopo una guerra perduta. Invece di dedicarsi alla ricostruzione del Paese, continuò nella sua politica di sfida nei confronti degli Usa e dell’Occidente e nel suo ambiguo comportamento nei confronti degli ispettori Onu e delle armi di distruzione massiva. Bush figlio ritenne, dal canto suo, di poter fare a meno dell’egida dell’ONU e, con l’alleato di sempre, il Regno Unito, mise fine al regime dittatoriale di Saddam, completando in qualche modo il “lavoro” del padre. Il dopoguerra tuttavia si rivelò un disastro politico, confermando che gli Stati Uniti spesso vincono le guerre, ma perdono la pace, si fanno promotori di ideali giusti, ma con metodi sbagliati e finiscono per difendere i diritti dell’uomo solo quando tale difesa coincide con i loro interessi nazionali».
La storia delle armi chimiche in Iraq è stata una delle più grandi fake news con esiti nefasti?
«Le armi di distruzione massiva nell’Iraq invaso dalle truppe di Bush junior non c’erano, è vero. Ma anche qui bisogna aggiungere qualche considerazione. Saddam intanto non era così innocente. Ha sempre cioè cercato, con tutti i mezzi, di dotarsi di armi di distruzione massiva. Tentò prima col nucleare, ma sia gli israeliani, che distrussero il reattore nucleare di Osirak, sia gli americani, che bombardarono il potenziale sito di fabbricazione di ordigni nucleari di Al-Zafarnya, annichilirono in tempo utile le velleità atomiche del Rais. Saddam quindi passò alle armi chimiche e batteriologiche, più facili da costruire e da nascondere. Armi che produsse in grandi quantità e utilizzò, come sappiamo, contro curdi e sciiti. Quando gli americani invasero l’Iraq, le armi chimiche non furono trovate perché gli stock esistenti erano stati distrutti dopo le accurate ispezioni degli esperti dell’ONU. Vorrei tuttavia segnalare una notizia che all’epoca non ebbe la diffusione che avrebbe meritato. Il New York Times in effetti rivelò, non smentito, che tra il 2003 e il 2011 in Iraq erano stati ritrovati cinquemila ordigni chimici, pezzi di artiglieria di 155 mm e razzi da 122 mm, costruiti prima e dopo il 1991, come ha dimostrato, sempre secondo il New York Times, l’analisi del diverso grado di purezza del gas sarin in essi contenuto. Costituivano queste residue armi chimiche una minaccia globale? Probabilmente no. Ma dimostravano comunque che almeno parte del dispositivo chimico di Saddam era ancora sul posto».
Dunque, una grande mistificazione quella anglo-americana?
«Sì, ma influenzata anche dall’atteggiamento volutamente ambiguo e sicuramente paranoico del Rais che ha giocato in un primo momento a dimostrare di possedere le armi di distruzione massiva per scopi di deterrenza e poi, però, quando ha cercato di far credere di averle distrutte, perché fossero cancellate le sanzioni, non sarà preso sul serio a causa della sua provata inaffidabilità. Nessuno aveva più fiducia in lui».
Prima Saddam e Gheddafi, passando per Assad in Siria, ora Kim Jong-un. La ciclicità dei dittatori e pericoli mondiali potrebbe sostenere qualcuno. Possono essere solo gli Stati Uniti a garantire la pace nel mondo o è un delirio di onnipotenza che continua ad esserci a Washington?
«È evidente che non possono e non debbono essere solo gli Stati Uniti a garantire la pace nel mondo. La responsabilità in teoria incomberebbe all’Onu, nata proprio per questo specifico scopo. Ma sappiamo che le Nazioni Unite non sono in grado, per una serie di motivazioni politiche e giuridiche, di assicurare la pace mondiale. Spetta allora alle grandi potenze di intervenire quando si manifestano situazioni suscettibili di compromettere gli equilibri mondiali. Quando cioè non è più questione di salvaguardare questa o quella posizione economica, politica o commerciale, ma sono in gioco le sorti stesse dell’umanità. Prendiamo il caso di Kim Jong-un. La sua è una minaccia seria, perché proveniente da un Paese isolato dal resto del mondo da circa settant’anni, da un capo divinizzato da una sfrontata propaganda ufficiale e da un culto della personalità senza limiti, da un’ideologia dai caratteri irrazionali e surreali. Il mondo dunque ha tutti i motivi di essere preoccupato. Ora se Stati Uniti, Cina e Russia, e i loro alleati, concordassero, con questo senso di responsabilità, una linea comune da seguire, la crisi coreana sarebbe risolta in pochi giorni. Questi tre paesi hanno infatti una responsabilità di fronte al mondo dalla quale non possono derogare: ne va del futuro del pianeta».
La politica estera di Trump appare ondivaga e per molti versi inaffidabile…
«Passa in effetti da robuste dichiarazioni di neo-isolazionismo a forti pulsioni interventiste. Una politica estera dai lineamenti un po’ schizofrenici, Come però schizofrenici sono anche gli atteggiamenti degli alleati nei confronti di Washington. A volte essi rimproverano agli Stati Uniti un eccessivo interventismo, altre volte invece si lamentano della loro assenza in determinati scacchieri internazionali. Insomma, vogliamo che gli USA ci siano o non ci siano? Osservo solo che la storia dell’Europa sarebbe stata nel secondo dopoguerra molto diversa in negativo senza la presenza della NATO e degli americani. In Asia, senza la presenza degli americani in Corea del Sud, Pyongyang, secondo la costante visione politica dei tre Kim, avrebbe tentato di riconquistare il Sud e sarebbe scoppiata una seconda guerra di Corea dalle conseguenze inimmaginabili. Chi allora destabilizza l’area: la presenza americana o l’aggressività nordcoreana?».
Lei è anche un apprezzato studioso. Nelle scuole si dedica poca attenzione alla storia contemporanea?
«Sicuramente. Occorrerebbe dare maggiore attenzione alla Storia per così dire “attuale”, al confine cioè con la cronaca politica. Quale studente di liceo in effetti potrebbe descrivere, sia pure con buona approssimazione, i problematici rapporti tra Israele e la Palestina o la situazione nella banda di Gaza o cosa succede nei “territori occupati” tra coloni israeliani e contestatori palestinesi? Questioni d’attualità che però hanno cause antiche. Chi potrebbe avere una qualche idea di quello che è successo negli ultimi anni in Libia o in Iran? Si dovrebbe insomma mettere lo studente in grado di intendere le notizie che legge sul giornale o sente in televisione o vede sulla rete, quando esse fanno riferimento, ad esempio, al Presidente Trump che riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato d’Israele. Sarebbero sufficienti poche, ma solide, basi di Storia “attuale” per colmare vuoti informativi a volte davvero spaventosi. Insomma, se è certo importante conoscere le fasi della seconda guerra punica, lo è certamente di più sapere cos’è l’Intifada. Credo che spetti principalmente ai docenti compiere ulteriori sforzi per “attualizzare” il più possibile la Storia, collegando passato e presente, ai fini di una migliore comprensione del mondo che ci circonda».