La prima domanda posta dal libro è perché per scrivere quella che in fondo, nonostante qualche dubbio possa essere insinuato dal sottotitolo (“La sostanza della fede”), si presenta come una biografia, si siano mesi al lavoro in due: un medico scrittore e un sacerdote teologo, Le biografie passano in genere (a torto) per i libri più facili da scrivere. L’opinione più diffusa è che si tratti di raccogliere dati sulla vita e le opere dell’interessato, antico, moderno o contemporaneo che sia, e di stenderle in bell’ordine. In pratica un’attività cui si dedica chi non ha più o non ha mai avuto la fantasia necessaria per scrivere un romanzo di successo.
In realtà è vero il contrario, almeno se si tratta di una buona biografia, nella quale i dati, diciamo così, dello stato civile e della vita di ogni giorno (nascita, matrimonio, titoli accademici, carriera, morte ecc.) rappresentano solo la base o la cornice, sulla quale o dentro la quale mettere ciò che realmente importa. Per di più i lettori di biografie, che hanno curiosità ed esigenze completamente diverse dai lettori di “Chi?”, vogliono andare a fondo e conoscere ciò che il biografato, molto o poco che sia, ha lasciato al mondo e, quindi, a loro stessi.
Ciò non toglie che sia abbastanza insolito che si lavori in coppia per la biografia di un singolo personaggio, soprattutto se si tratta di un semplice giornalista come Gilbert Keith Chesterton, che, rifiutando l’appellativo di “scrittore”, tale si è sempre definito. In effetti Chesterton giornalista è stato, il più conosciuto e letto del Regno Unito per oltre trent’anni, dal 1900 alla metà degli anni ’30. Tuttavia la qualifica di giornalista, che certamente gli spetta e della quale, nella sua umiltà, era orgoglioso, lo rappresenta solo in parte, così come quella di romanziere e scrittore, se tanto gli autori quanto, nell’ Invito alla lettura, che fa da prefazione al testo, Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana italiana, lo ritengono “il san Tommaso d’Aquino del XX e pure del XXI secolo”.
L’opera di G.K. Chesterton, autore molto prolifico senza che la quantità vada a danno della qualità (anzi all’opposto), è immensa e spiega perché a scrutarla e raccontarla si siano messi in due, uniti dalla comune fede cattolica e dall’apprezzamento per GKC , ma diversi, oltre che per età, per attività e formazione. A sua volta, il lettore, come sempre accade per i lavori a più mani, non può evitare di chiedersi come si sia realizzata la cooperazione degli autori. La stesura finale del testo affidata ad uno solo, incaricato di esporre quanto è stato da entrambi raccolto e elaborato, oppure una suddivisione in base alle reciproche competenze. In questo caso si potrebbero attribuire a Gulisano la parte I (Un profilo di fondo), la II (L’Antropologia di Chesterton) e la IV (La dottrina sociale). A De Rosa la III (L’Ecclesiologia di Chesterton) e la V (La Cristologia di Chesterton). Ma questo tentativo, che del resto quasi mai approda a risultati concreti a meno che i coautori abbiano lasciato indicazioni al riguardo, è particolarmente inutile quando si tratta di G. K. Chesterton, che, come scrivono, appunto, Gulisano e De Rosa, amava il Medio Evo non per rimpianto sentimentale, ma per “la visione integrale di uomo tipica della cultura medievale” e, grazie a questa visione dell’uomo e del mondo, riuscì a sottrarsi ai lacci di “una cultura frammentata come quella moderna, dove ogni singolo ramo del sapere si innalza sugli altri volendo solo per sé lo statuto di verità”. In Chesterton il giornalista, il romanziere, il teologo, sono un tutt’uno, poliedrico, ma armonico. Una completezza e un’armonia che si riflettono in tutte le sue opere. Il lettore dei suoi lavori più noti al grande pubblico, i Racconti di padre Brown, Il Napoleone di Notting Hill, L’Osteria volante, L’Uomo che fu Giovedì, quando si imbatte nel suo massimo lavoro teologico, Ortodossia, ma anche in quelli di minore mole, come – ad esempio – San Francesco d’Assisi, scopre di muoversi in un territorio quanto meno già intuito, e di esservi condotto per mano da una guida che sa esperta e valida perché già conosciuta in vesti solo in apparenza diverse.
Quello che vale per Chesterton vale anche per i suoi biografi, che, proprio perché lo capiscono e lo ammirano (non per nulla Paolo Gulisano è vice-presidente della Società Chestertoniana italiana) partecipano di questa sua qualità. E’. quindi, possibile che fra loro i compiti siano stati ripartiti in senso contrario a quello sopra immaginato o che sia stato steso a quattro mani l’intero testo di un libro di cui, giunto al termine dello spazio consentitogli, l’aspirante recensore si accorge di non avere detto nulla o quasi (forse recensire una biografia è difficile quasi come scriverla, pencolanti come si è fra il biografo e il biografato). Per rimediare, dicendolo in breve, il libro di Gulisano e De Rosa merita di essere letto, perché, al termine della lettura si è fatta conoscenza – per usare una frase che sarebbe bella e significativa se non fosse stata guastata dalla retorica e dalla politica – con un Chesterton che “vive e si batte con noi”. Senza odio e senza mai perdere il sorriso e il buon umore del vero cristiano, GKC è stato, difatti, un grande combattente e le battaglie da lui combattute sono oggi più attuali che mai, perché dagli anni ’30 ad oggi, anche se per una manciatina di anni ci si può essere illusi del contrario, il Nemico ha compiuto grandi progressi ed è riuscito a portare il campo di battaglia dentro quelle che erano le mura di casa. Oggi è il tempo di “sguainare le spade per dimostrare che le foglie sono verdi d’estate”.
Il libro di Gulisano e De Rosa aiuta. Molto.
Francesco Mario Agnoli