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POPULISMO, POPULISMI E MODERNITÀ POLITICA. Di Paolo Costa

La parola “populismo” ha ormai invaso il gergo politico e giornalistico, e non meno l’immaginario politico.

Come spesso accade in quest’epoca di falsificazione del linguaggio e del pensiero, le parole si affermano prima ancora dei loro contenuti. Come simulacri, evocano immagini di mali da temere o beni da sperare, ma difficilmente contenuti su cui esercitare il senso comune.

E così si accusa l’avversario politico di “populismo” (senza offesa per il popolo, si intende…); e così ci si dichiara orgogliosamente “populisti” (recto sensu, si intende…); e così si distinguono populismi di destra e populismi di sinistra (buoni o cattivi all’occorrenza, si intende).

La riflessione politologica si è data assai da fare per tentare di tratteggiare i confini evanescenti della nuova formulazione del lemma. I risultati ottenuti sembrano però poco confortanti: il populismo pare effettivamente un fenomeno sfuggente e indefinibile. Proprio questo mostra la serietà della riflessione: in ambito scientifico, si sa, il risultato atteso è sempre un’incognita. Ma purtroppo mostra anche la disinvoltura delle grandi agenzie culturali, che spargono parole d’ordine ed evocano représentations collectives avendo cura di tutto fuorché della realtà.

L’aspetto più interessante emerso dal dibattito sul populismo non è dunque quello definitorio (la sua pars destruens, in realtà). È piuttosto quello storico, che tenta di rintracciare i precedenti più seri e più solidi, soprattutto ottocenteschi e novecenteschi, di un fenomeno che nondimeno va preso seriamente; e che offrono in effetti utili chiavi interpretative.

Prima che al movimento populista russo e ai vari populismi europei e sudamericani che hanno attraversato il Novecento, la mente non può non correre all’ottocentesco People’s Party americano, più prossimo, benché a sua volta lontanissimo, dall’attuale populismo occidentale. É proprio all’America, infatti, che forse occorre ancora guardare per comprendere anche il “nuovo” populismo europeo, in tempi in cui nella vecchia Europa sembra ci si voglia definitivamente sbarazzare dell’ingombrante sagoma dello “Stato”, che tanto ha influenzato la nostra autocomprensione politica.

Legato inizialmente alle istanze della parte più sofferente della popolazione e dalla visione talora socialisteggiante, nel corso del Novecento il populismo americano ha conosciuto anche una variante conservatrice, reazionaria per alcuni versi. Un suo interessante e attuale “manifesto” può essere rinvenuto nell’opera di Cristopher Lasch The true and only heaven. Progress and its critics (1991).

Il suo principale riferimento è essenzialmente antropologico.

Essenzialmente antropologico è anche il riferimento del nuovo populismo, come è proprio di ogni narrazione politica orientata al consenso elettorale. E l’“uomo” con cui il nuovo populismo tenta di identificarsi sembra in fondo essere ancora l’homo americanus. Il suo idealtipo, ovviamente. Non il portatore dell’attuale american way of life, rappresentante per eccellenza di quel progressismo patologico deplorato dallo stesso Lasch. È piuttosto il portatore di quei valori di fedeltà, patriottismo, dedizione al lavoro e alla comunità, rispetto dell’autorità e liberalità d’animo che vengono romanticamente associati alla bandiera a stelle e strisce. Lo si può facilmente ritrovare nelle pellicole hollywoodiane che hanno plasmato l’immaginario di generazioni di americani e di europei; si pensi solo alla filmografia di Frank Capra (cfr., D. Palano, «Homo democraticus». Note per un ripensamento del rapporto tra cittadinanza e democrazia, in Annali di storia moderna e contemporanea del Dipartimento di storia moderna e contemporanea dell’Università cattolica del Sacro Cuore, n. 3/2015).

Nella sua immagine originaria, uno spirito democratico, se si vuole, pervadeva questo tipo umano; ma uno spirito lontanissimo da ogni pulsione radicale. In esso si avvertiva piuttosto l’eco dello spirito americano colto dal genio di Tocqueville ne La democrazia in America (1835-1840). Ma anche il riverbero di celebri immagini della letteratura d’oltreoceano, come quella del Capitano Amasa Delano ad esempio, il cui infaticabile  altruismo è messo alla prova dall’oscuro e stralunato Don Benito (Benito Cereno, 1855), in una significativa contrapposizione di “tipi” antropologici che Herman Melville, in senso forse autobiografico e sulla sfondo della vita borghese, ripropose nel piccolo capolavoro Bartleby lo scrivano (1853-1856). Proprio Melville del resto, come ebbe modo di scrivere in una lettera del 1851 al collega e amico Nathaniel Hawthorne, sosteneva di praticare una “spietata democrazia su tutti i lati”.

Questo tipo di “spirito democratico”, questo tipo di homo, ancora accompagna il populismo, che tenta di rivolgersi agli “eroi del quotidiano”, di un quotidiano fatto di stenti e di fatiche, sotto lo sguardo noncurante di una classe dirigente parassitaria; eroi del quotidiano che attraversano le classi sociali.

In questo il nuovo populismo (anche quello di orientamento maggiormente conservatore) si divarica significativamente dal neoconservatorismo, che tende invece a rifiutare ogni rappresentazione romantica del popolo e in fondo non abbandona mai una certa idea elitista della democrazia. Ne troviamo conferma nel celebre rapporto della Trilaterale (Crozier-Huntington-Watanuki, The crisis of democracy, 1975), nel quale si legge: «Lo spirito democratico è ugualitario, individualista, populista e insofferente alle differenze di classe e condizione sociale […] uno spirito di democrazia troppo diffuso, invadente, può costituire una minaccia intrinseca e insidiare  ogni forma di associazione, allentando i vincoli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità. Ogni organizzazione sociale richiede, in una certa misura, disparità di potere e differenze di funzione».

Ma dietro all’idea romantica di popolo si cela forse il vero ingrediente del populismo, vecchio e nuovo; la sua vera forza. La sua narrazione riesce ad evocare l’immagine del popolo come alcunché di unitario e compatto, un “solo uomo”, non attraversato dal conflitto, pronto ad ergersi contro la parassitaria classe dirigente, depositario di valori interamente positivi.

Se tuttavia si osserva più attentamente, si scorge che in fondo tale unità di popolo, forse, è davvero solo una narrazione. Non solo perché la divisione sociale è un dato difficilmente controvertibile; non solo perché si fatica a liberarsi del dogma del “conflitto”; ma perché in fondo ogni movimento populista ha un proprio “popolo” di riferimento, che blandisce ed esalta come il “vero” popolo.

E qui davvero ogni elemento di novità viene meno. Abbandoniamo per un momento il XXI, il XX e il XIX secolo e lasciamo la parola al principale teorico della democrazia rappresentativa nata dalla rivoluzione borghese.

Joseph-Emmanuel Sieyès nel celebre pamphlet del 1789 Che cos’è il Terzo stato? rispondeva all’interrogativo in questo modo: il Terzo stato è tutto.

Il concetto di Terzo stato sviluppato da Sieyès ricorda da vicino il concetto di valentior pars di Marsilio da Padova, il vero rappresentante del pensiero, per così dire, proto-moderno. La nazione risiederebbe tutta intera nel terzo stato poiché questo, e non il primo o il secondo stato, rappresenterebbe la parte migliore e meritoria del corpo sociale, che gli dà vita e non invece, come gli ordini privilegiati, gliela toglie, quasi come un agente ad essa estraneo, un parassita, che dovrebbe piuttosto esserne definitivamente scisso.

«È sufficiente aver dimostrato – scrive Sieyès –  che la pretesa utilità di un Ordine privilegiato per il servizio pubblico è solo una chimera. Che, anzi, tutto ciò che vi è di ingrato in tali servizi è adempiuto dal Terzo, che senza di esso le cariche superiori sarebbero ricoperte in modo infinitamente migliore, che tali cariche dovrebbero essere il premio e la ricompensa naturali dei talenti e dei servizi resi, e che, se i privilegiati sono riusciti ad usurpare tutti i posti lucrativi ed onorifici, ciò rappresenta nello stesso tempo un’odiosa iniquità per la generalità dei cittadini, ed un tradimento per la cosa pubblica […] Quale accordo si può sperare fra l’energia dell’oppresso e la rabbia degli oppressori? Essi hanno osato pronunciare il nome scissione. Ne hanno fatto minaccia al Re e al popolo. Ah! Dio mio! Come sarebbe felice la Nazione, se questa scissione tanto auspicabile venisse finalmente attuata! Come sarebbe facile fare a meno dei privilegiati! Come sarà difficile condurli ad essere dei cittadini!».

E ancora, evocando il “solo uomo”: «Chi dunque oserebbe sostenere che il Terzo stato non comprende in sé tutto quel che occorre per formare una nazione completa? Esso è un uomo forte e robusto con un braccio ancora in catene».

Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole della modernità?

Forse, allora, occorrerebbe fare un’ulteriore passo indietro: la modernità è in fondo una rivoluzione continua, trascinata dall’irresistibile miraggio dell’indefinito progresso sociale.

Ma le rivoluzioni, si sa, si fanno con la sciabola e non con l’aratro.

«Avremo un bel da fare – scrive poeticamente Charles Péguy ne Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, 1910 –, avremo un bel da fare, andranno sempre più veloci di noi, ne faranno sempre più di noi, maggiormente di noi. Non occorre che un acciarino per bruciare una fattoria. Occorrono degli anni per costruirla. Ci vogliono mesi e mesi, c’è voluto lavoro e ancora lavoro per far crescere una messe. E non ci vuole che un acciarino per dar fuoco a una messe. Ci vogliono anni e anni per far crescere un uomo, c’è voluto pane e ancora pane per nutrirlo, e lavoro e lavori di ogni genere. E basta un colpo per uccidere un uomo. Un colpo di sciabola e la cosa è fatta. Per fare un buon cristiano occorre che l’aratro abbia lavorato venti anni. Per disfare un cristiano occorre che la sciabola lavori un minuto. É nel genere dell’aratro lavorare vent’anni. È nel genere della sciabola lavorare un minuto; e di fare di più: di essere la più forte. Di farla finita. Allora noi altri saremo sempre i meno forti. Andremo sempre meno veloci. Noi siamo il partito di quelli che costruiscono. Loro sono il partito di quelli che demoliscono. Noi siamo il partito dell’aratro. Loro sono il partito della sciabola».

Il populismo blandisce il partito dell’aratro. Ma non può sfuggire infine alla logica della sciabola, che nella modernità è divenuta in fondo la logica stessa del “politico”, di un politico disorbitato ormai da ogni ordine metastorico.

E così infine la modernità condanna il “buon popolo” ad essere politicamente irrappresentabile, perché silenzioso e non rivoluzionario, e dunque politicamente perdente. Perché resterà sempre indietro: «andranno sempre più veloci di noi», scriveva Péguy. Denn die Todten reiten schnell.

Il male che ci affligge è spirituale prima che politico. Il populismo ne è un sintomo e non la cura.

Paolo Costa

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