Michela Mercuri è docente del corso “Jihad e terrorismo” alla SIOI di Roma e insegna Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano. Per otto anni ha tenuto il corso di Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata. Da poche settimane è in libreria la sua ultima fatica editoriale: “Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso” (Ed. Franco Angeli). Mercuri ripercorre le fasi salienti della storia libica, fino ai giorni nostri, per raccontare le vicissitudini e le contraddizioni di una realtà tanto vicina quanto difficile da comprendere. Oggi la Libia è un luogo sospeso tra un passato fragile ed un futuro incerto, tutto da interpretare. Nel Paese nordafricano si è consumato uno dei più grandi pasticci degli ultimi decenni in ambito geopolitico: disarcionare Gheddafi per aprire una fase di caos totale dalla quale hanno tratto beneficio criminali senza scrupoli, come i trafficanti di essere umani ed i terroristi dell’Isis.
A cura di Gennaro Grimolizzi.
Professoressa Mercuri, la Libia di oggi è il frutto avvelenato dei disastri del 2011 quando si volle a tutti i costi abbattere Gheddafi?
«Ritengo di sì. Con un po’ di amaro sarcasmo potremmo dire che nella fretta di intervenire in Libia gli attori internazionali abbiano dimenticato le più elementari regole di un’azione militare che in primo luogo dovrebbe avere una chiara strategia politica, capace di definire gli obiettivi finali della missione. L’azione della coalizione internazionale, iniziata con lo scopo di proteggere la popolazione civile tramite la creazione di una no fly zone, ha decisamente cambiato rotta e, sotto la pressione francese e inglese, si è presto tramutata in un’azione finalizzata a un vero e proprio regime change per abbattere il regime. Si è trattato di un intervento armato senza un chiaro progetto politico, perché non c’è stata nessuna pianificazione dei futuri assetti politici, sociali ed economici per il post Gheddafi. Gli “interventisti della prima ora” prima hanno abbandonato la Libia, dopo la morte del rais, e poi hanno deciso di proseguire in ordine sparso, supportando le varie fazioni in campo, senza alcuna strategia comune. Da questo punto di vista non sarebbe azzardato dire che l’ex Jamahiriya stia pagando le guerre per procura, o quantomeno le strategie divergenti, che gli attori internazionali e regionali hanno giocato e continuano a giocare nel Paese. Detta in altre parole, la crisi libica è anche la cartina al tornasole delle incoerenze delle politiche estere occidentali e di una visione comune in ambito Ue».
L’intervento militare di sei anni fa avvenne con il chiaro intento di alcune “potenze” europee di mettere le mani sulle risorse libiche. L’obiettivo è stato raggiunto?
«L’intervento militare del 2011 è stato voluto dal governo francese dell’allora presidente Nicolas Sarkozy per motivazioni dettate da meri calcoli interni: necessità di allargare la fetta petrolifera d’oltralpe e volontà di porre fine al Trattato di amicizia e cooperazione italo-libico del 2008 con cui il nostro Paese si era garantito la primacy su importanti rapporti commerciali. Questi obiettivi non sono stati raggiunti perché oggi la Libia è un Paese in piena crisi economica. La produzione di petrolio prima dell’inizio delle ostilità ammontava a quasi un milione e 600mila barili al giorno, circa il 2% della produzione mondiale. Oggi il dato è più che dimezzato e la maggior parte dei giacimenti è controllata dalle milizie che fanno il buono e il cattivo tempo. Oggi l’Eni è l’unica società internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in Libia. Altre aziende, tra cui la francese Total, che tanto aveva ambito a un regime change per rivedere i propri contratti petroliferi, hanno via via annunciato la sospensione delle loro attività a causa del peggioramento della situazione di sicurezza interna. Tanto basta per dire come l’interventismo di alcuni “partner europei” sia stato totalmente controproducente».
Un Paese dilaniato dalle faide tra le milizie e tribali è un pericolo per tutta l’Europa?
«Certamente sì. In molte zone del Paese regna l’anarchia. Per esempio, nessuno dei due “governi libici” ha il benché minimo controllo dei gruppi che popolano il sud, luogo di traffici e santuario di organizzazioni terroristiche. Nelle aree interne, prima ancora dell’arrivo delle bandiere nere del califfato, si era stabilito il nuovo comando logistico e organizzativo di al-Qaeda nel Maghreb islamico Nell’entroterra i miliziani delle formazioni jihadiste si nascondono tra altri numerosi gruppi e sfruttando il vuoto di potere portano avanti i loro affari: traffico di armi, di migranti, di merci di contrabbando e di tutto ciò che può fruttare qualche dinaro. Non solo, dai porosi confini libici gli jihadisti si muovono pressoché indisturbati verso i Paesi vicini come la Tunisia, l’Algeria e l’Egitto. Da questo punto di vista è evidente come l’instabilità libica sia una minaccia per la regione nordafricana ma anche per l’Italia e per l’Europa, una minaccia che si traduce in flussi infiniti di migranti ma anche in possibili infiltrazioni jihadiste».
La Libia è il ponte naturale per i gruppi terroristici per raggiungere l’Italia?
«Ricollegandomi a quanto già detto prima, va evidenziato che, seppure i miliziani dello Stato islamico siano stati cacciati a fine 2016 dalla roccaforte libica di Sirte, sono ancora presenti e attivi nel Paese, soprattutto, come già ricordato, nelle aree interne. Qui si stanno riorganizzando e rafforzando, anche per compiere attacchi verso l’Europa. Due degli attentati compiuti da Isis negli ultimi mesi – quello di Berlino del dicembre 2016 e quello al concerto di Manchester del maggio 2017 – sono stati collegati a una rete clandestina di combattenti dell’Isis in Libia. Di recente Isis si è fatto vivo con un video che mostra alcuni gruppi di miliziani nella zona della Cirenaica che minacciavano l’Italia. Vista l’anarchia che regna nel Paese non possiamo dunque escludere che vi possano essere soggetti intenzionati a raggiungere l’Italia e potrebbero farlo sfruttando l’assenza di controlli interni. Per questo un maggiore impegno per stabilizzare il Paese – anche dal punto di vista della legalità – è indispensabile per l’Italia ma anche per l’Europa».
Quali sono i rischi per l’Italia derivanti dalla forte instabilità libica?
«Dalle coste tripoline parte il 90% dei migranti che arrivano in Italia. Seppure negli ultimi mesi il dato sia in netto calo, anche in conseguenza della stretta del ministro Minniti sulle politiche migratorie, non possiamo cantare certo vittoria. Sono stati, infatti, stipulati accordi con le milizie che prima gestivano i traffici, ma i gruppi armati, si sa, cambiano casacca con molta facilità e non sono interlocutori affidabili. Da un punto di vista economico il nostro Paese è il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti e sono italiane molte delle attività estrattive offshore realizzate a largo delle coste tripoline. Tanto basta per chiarire come l’instabilità libica sia un rischio per l’Italia da un punto di vista economico e di sicurezza».
L’Italia è un interlocutore rispettato da Al-Sarraj e dal generale Haftar oppure la Francia di Macron sta rubando la scena al nostro Paese?
«Macron sembra decisamente preferire la realpolitik dell’interesse nazionale allo spirito di solidarietà europea. Basti ricordare che durante il G7 di Taormina ha lodato l’Italia per il grande sforzo sui migranti dicendo: “non abbiamo ascoltato l’Italia sull’ondata che stava arrivando e ora servono regole comuni Ue”. A neppure venti giorni da queste dichiarazioni durante il vertice di Tallin ha operato un deciso cambio di rotta, bocciando la proposta italiana di “regionalizzazione” del soccorso, in altre parole l’apertura dei porti della costa meridionale europea alle navi che recuperano migranti nel Mediterraneo. Poco dopo, ha convocato un vertice a Parigi tra Fayez al – Serraj e Khalifa Haftar senza neppure avvertire Gentiloni. Nonostante ciò, credo di poter affermare che l’Italia può essere ancora protagonista in Libia. Siamo ascoltati da al-Serraj, che abbiamo sostenuto fin dal suo insediamento. Con la nostra ambasciata rappresentiamo l’unico punto di contatto occidentale nella capitale. Siamo “in confidenza” con i misuratini, uno dei più importanti e numerosi gruppi armati del Paese, che stiamo supportando con la missione Ippocrate. Negoziamo da tempo, anche grazie all’Eni, con gli attori locali e abbiamo contatti con Haftar, che Minniti ha recentemente incontrato a Roma. Ce n’è abbastanza per porci come interlocutori privilegiati e ascoltati per sostenere il dialogo tra le fazioni libiche».