Il chavismo è morto con Chavez. Ne è convinto Adriano Benedetti, ex ambasciatore d’Italia in Venezuela dal 2000 al 2002, che in questa intervista al Dubbio esamina la grave crisi venezuelana. Benedetti conosce bene il Sud America, avendo lavorato quasi un decennio (la prima sede fu a Lima, in Perù). «Il nostro Occidente – commenta l’ambasciatore -, in effettivo declino, potrà sempre trovare nei Paesi del sub-continente quel vigore, vitalità e sincerità umana che si stanno lentamente perdendo nelle nostre vecchie democrazie».
Il Venezuela sta affrontando una delle crisi politiche, sociali ed economiche più gravi della sua storia. Si rischia un incendio politico e sociale in tutto il Sud America?
«È vero che nella storia dell’America latina ci sono stati dei trend che hanno coinvolto la maggior parte dei Paesi del sub-continente, ma non credo che la grave situazione del Venezuela sia rappresentativa del contesto generale attuale. Sino a qualche tempo fa, anzi, l’America latina, rispetto alla situazione prevalente in altri continenti, dava l’impressione di una confortante stabilità e sicurezza. Certamente, poi, gli equilibri in alcuni Paesi importanti, come il Brasile e l’Argentina, sono mutati. L’Argentina sembra, tuttavia, avviata verso un consolidamento politico e un miglioramento economico, mentre il Brasile non ha ancora superato la fase più acuta del rimescolamento di carte interne. Caracas in ogni caso sta affrontando l’esito di una parabola che è essenzialmente una parabola venezuelana».
Quanto sta accadendo certifica il fallimento del “chavismo”?
«In una prospettiva storica, il chavismo avrebbe potuto rappresentare la formula di transizione da una democrazia esangue, quale era quella a cui si era ridotto il Venezuela alla fine degli anni ’90, verso assetti di democrazia più inclusiva, capace cioè di dare rappresentanza e ruolo anche ai settori più emarginati della popolazione. Tuttavia, nella volontà pertinace di resistere e di continuare a dominare la società politica e civile venezuelana, il chavismo, depotenziato dopo la morte di Chávez nel 2013, ha commesso il suo errore più grave. Errore che certamente lo destinerà ad un fallimento definitivo».
Corruzione, controllo capillare della società e delle istituzioni e repressione del dissenso non hanno frenato la spinta per un cambio politico. Cosa succederà in Venezuela?
«Le caratteristiche da lei rilevate sono state effettivamente quelle che hanno innervato la politica del chavismo, soprattutto negli ultimi anni. A mio giudizio, la prognosi sul futuro del Paese non è affatto fausta, vista la radicalizzazione politica e sociale in corso in Venezuela. È difficilmente ipotizzabile una disponibilità delle forze al potere a ritrovare con onestà la strada di libere elezioni nel Paese. E quindi l’impasse non si potrà risolvere se non con modalità, in questo momento non ancora agevolmente identificabili, ma che non potranno prescindere da uno scontro aperto, con conseguenze attualmente imprevedibili».
Gli uomini forti al potere, si pensi a Getulio Vargas in Brasile, a Peron in Argentina, a Fujimori in Perù e Chávez in Venezuela, sono finiti nel capitolo dei cattivi della storia della America Latina?
«Ogni personaggio menzionato ha una sua specifica configurazione politica e storica in risposta a problemi nell’insieme diversi. Ho l’impressione che il ricordo di Chávez permarrà nella psicologia latino-americana, anche perché il fallimento del suo esperimento sarà addebitato più che altro ai suoi eredi e non già al ruolo da lui svolto sino al momento della sua morte».
La comunità internazionale, con l’interessamento di Stati Uniti e UE, si attiverà per porre fine alla crisi venezuelana?
«Ho molti dubbi al riguardo, visto il geloso interesse con cui i Paesi latino-americani si prodigano nel preservare la loro individualità e autonomia nei confronti sia dei vecchi colonizzatori che della potenza dominante nel continente negli ultimi cento anni. Nel rapporto dialettico, in particolare con gli Stati Uniti, si sono approfondite l’identità e la dignità internazionali dei Paesi latino americani».
Ha un ricordo particolare della sua esperienza in Venezuela?
«Il Presidente Chávez era certamente dotato di una personalità carismatica e, nel suo modo, non priva di umanità. Ricordo che, in occasione dell’ultima colazione di lavoro comunitaria con gli ambasciatori dei Paesi membri dell’Unione europea, da lui organizzata, mi azzardai, pur sconsigliato dal viceministro degli Affari esteri venezuelano, con cui mi ero previamente intrattenuto, a sollevare la questione delle carceri
venezuelane, certamente miserevole, in cui erano detenuti una cinquantina di cittadini italiani, assieme a qualche centinaio di cittadini di altri Paesi dell’Unione europea. Rilevai in quella occasione come l’adesione del Venezuela alle Convenzioni di Strasburgo, che consente in principio ai detenuti europei di lasciare il Venezuela per passare l’ultimo periodo di pena nelle carceri dei rispettivi Paesi, fosse sospesa dalla mancata emanazione di un decreto presidenziale ad hoc. Ricordo ancora lo sguardo intenso e di profondo apprezzamento umano che mi rivolse allora il Presidente Chávez, che quelle carceri aveva conosciuto bene, per alcuni anni, dopo il golpe fallito del 1992. All’indomani, la Gazzetta ufficiale del Venezuela riportava il testo del decreto applicativo firmato dal Presidente Chávez».