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I radicali liberi fanno male all'organismo. Di Francesco Mario Agnoli

Marco Cappato, 46 anni.

Nonostante la figuraccia della giustizia britannica ed europea (CEDU) la Procura di Milano, alle prese col  caso Cappato (il radicale che scortò il  dj Fabo a morire in una clinica svizzera in affari con la “buona morte”), non arretra e ci prova ad abbassare ulteriormente l’asticella della difesa della vita.
I due magistrati  titolari dalla pratica, avendo vista respinta dal gip la richiesta di archiviazione motivata con l’assunto che «le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile e/o indegna dal malato stesso”, all’udienza hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio) per violazione degli artt. 2, 3, 13, 25 co. 2 e 3, 32 c. 2 e 117 Cost. (in relazione, quest’ultimo, agli artt. 2, 3, 8 e 14 CEDU).
La richiesta muove da un indimostrato presupposto giuridico-culturale in quanto si assume che la norma sospettata al momento della sua formulazione mirava a  tutelare la vita come un bene super-individuale, cioè nel precipuo interesse della collettività e non come prevalente interesse dell’individuo, della singola persona fisica come invece esigerebbe l’attuale concezione personalista voluta dalla Costituzione. Nemmeno un piccolo dubbio che l’intenzione del legislatore fosse  semplicemente quella, più ovvia e più conforme a principi cristiani ancora presenti nella società dell’epoca, di tutelare la vita umana come un valore assoluto. Oggi, per seguire il linguaggio della Procura, si parlerebbe di un bene giuridico meritevole della più completa tutela costituzionale contro ogni tipo di offensività.
Un bene che anche allora  rimaneva nella disponibilità del suo titolare, ma che il legislatore intendeva mettere al riparo   da indebite interferenze estranee, che, oltre tutto, nella maggior parte dei casi intervenivano ed intervengono  nei momenti di  debolezza della persona, perché, anche quando non si è in presenza di situazioni che comporterebbero l’aggravante di cui al 2° comma dell’art. 480,  secondo l’id quod plerumque accidit la psiche di chi pensa concretamente al suicidio è comunque alterata. La Procura omette infatti di considerare che, a differenza di altre legislazioni dell’epoca,  la legge italiana non puniva e non  punisce  il suicidio e il suicida, ma soltanto il terzo che  istiga o aiuta.
Tuttavia, contraddittoriamente,  è proprio da questa  libertà (se non diritto) di suicidio che la  Procura, pur non menzionandola,  trae motivo a sostegno della tesi di incostituzionalità per  violazione del principio di uguaglianza in quanto -afferma- verrebbe indebitamente discriminato “colui che, essendo malato irreversibile o terminale vuole porre termine alla propria condizione di sofferenza ma non possa farlo mediante una mera rinuncia alle cure, se non a prezzo di indicibili sofferenze”. In questo modo si trascura  che il malato irreversibile o terminale, per di più in condizioni di sofferenza, è proprio il più bisognevole di tutela a garanzia della sua  libertà di autodeterminazione. Sempre, ma in particolare in un momento storico come l’attuale, nel quale sono all’opera potenti forze a favore dell’eutanasia perfino di soggetti non in grado di esprimere la propria volontà e che, in aggiunta (il caso di Charlie Gard insegna), vengono privati, attraverso la creazione di un immaginario conflitto di interessi e la nomina di uno sconosciuto curatore speciale, della protezione dei soggetti cui naturalmente spetterebbe esprimersi in loro vece.
Non per nulla è proprio la Procura di Milano  a riconoscere, sia pure al fine di sottolineare in negativo la pretesa del legislatore di “sostituirsi all’individuo nel compimento delle scelte determinanti della vita”, che sono questi i momenti nei quali l’individuo “si trova nelle maggiori condizioni di debolezza” ed ha, quindi, maggior bisogno di protezione nei confronti di chi, poco importa se in buona o mala fede, mosso da personali interessi o da motivazioni politico-filosofiche, potrebbe,approfittarne.
Viene così trascurato il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza che la vera discriminazione si realizza quando si applica la stessa disciplina a situazioni profondamente diverse  quali  quelle  della persona nel  pieno possesso delle proprie facoltà e, comunque, in condizioni di esistenza e  salute di normalità, e, a dispetto dello sforzo della Procura di  limitare, per equipararle, la differenza alla incapacità fisica di movimenti autonomi, quelle del malato irreversibile e terminale, che inevitabilmente  si trova in una situazione che, pur con tutte le differenze da caso a caso, non può essere definibile, anche a semplice buon senso, altrimenti che di  grave turbamento. La soluzione proposta dalla Procura  con la richiesta di una pronuncia di incostituzionalità della norma “in relazione alla parte in cui incrimina la condotta di partecipazione fisica o materiale al suicidio altrui senza escludere la rilevanza penale della condotta di chi aiuta il malato terminale o irreversibile a porre fine alla propria vita, quando il malato stesso ritenga le sue condizioni di vita fonte di una lesione del suo diritto alla dignità” mira ad espungere dal campo di applicazione dell’art. 580 c.p “le condotte di chi aiuta materialmente un malato terminale o irreversibile a dare attuazione alla sua piena, autonoma e consapevole volontà di porre fine alla propria vita”.
Tuttavia, anche a volersi porre sulla stessa lunghezza d’onda  e trascurando il substrato culturale del provvedimento (l’ideologia, del resto ben presente in motivazione con i richiami al diritto inviolabile alla dignità umana, per la quale il bene  costituzionalmente protetto non è la vita umana senza ulteriori qualifiche e specificazioni, ma la “vita degna di essere vissuta”), inevitabile chiedersi a chi competa l’accertamento che la volontà che si vuole aiutare ad attuarsi sia davvero “piena, autonoma e consapevole”. Certamente non al Marco Cappato di turno. Nemmeno può bastare che il soggetto sia capace d’intendere e volere, perché ad essere in gioco sono, come riconosce la stessa Procura, le “maggiori condizioni di debolezza” di chi si vorrebbe aiutare, che, pur senza elidere queste capacità, sono certamente suscettibili di diminuirle o alterarle. Allora, ancora una volta inevitabile il ricorso a un giudice (si spera più avveduto dell’High Court londinese), che però dovrebbe necessariamente intervenire prima, rilasciando una specie di nihil obstat, e non a cose fatte.

Francesco Mario Agnoli

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