Il miglior commento alle elezioni politiche generali tenutesi nel Regno Unito è venuto da un deputato scozzese, Alistair Carmichael, che ha detto: “Il popolo si è pronunciato. Tuttavia non si è capito bene cosa abbia detto”.
La consultazione politica voluta da Theresa May per poter lavorare tranquillamente alla Brexit nel corso dei prossimi anni, ha portato ad un esito che vede la Gran Bretagna tornare dopo molto tempo ad una dura radicalizzazione delle posizioni politiche. Si può dire che questa tornata elettorale resterà nella storia per aver seppellito definitivamente il blairismo, la sinistra-chic del New Labour, che ha terminato definitivamente il suo corso. Allo stesso tempo è finito il conservatorismo buonista, piacione e ambiguo alla Cameron, la cui politica di compromessi, di colpi al cerchio e alla botte, è stata anch’essa affossata dalle urne.
La vittoria mutilata della May è l’esito di una situazione cui si è giunti proprio per le scelte fatte da Cameron negli scorsi anni. Andato al potere nel 2010 con un governo privo della maggioranza assoluta e quindi sostenuto dai Liberal-democratici, Cameron si era proposto di disinnescare due pericolose mine sulla sua strada: l’indipendentismo scozzese che aveva chiesto e ottenuto il referendum per il 2014, e il populismo anti-Ue di Nick Farage e del suo Ukip.
Cameron fece ricorso a tutti i mezzi per impedire la separazione della Scozia, dalle promesse alle minacce, con l’aiuto di Obama e dell’Unione Europea stessa, capeggiata da una Spagna che temeva che una vittoria dell’indipendentismo scozzese avrebbe incoraggiato quello catalano. Scampato il pericolo, e forte di un enfatizzato nazionalismo britannico, Cameron decise di chiudere anche la partita con l’Ukip, concedendo il referendum per l’uscita dall’Unione Europea, certo che anche in questo caso avrebbe vinto e avrebbe potuto navigare tranquillo nel corso del suo secondo mandato, iniziato nel 2015 sotto i migliori auspici, con la riconquista della maggioranza assoluta in parlamento.
Ma — come ben sappiamo — nel referendum del 2016 il popolo inglese ha sfiduciato i propri poteri forti, e non ha seguito le indicazioni del leader conservatore. Il resto è storia nota: l’avvio inesorabile del processo di uscita dalla Ue, le dimissioni dovute di Cameron, e l’avvento di una leader come la May che ha dimostrato fin dall’inizio di voler rispettare il volere popolare e di guidare il Regno Unito verso il compimento della Brexit.
Per far questo tuttavia occorreva un nuovo Parlamento, e una maggioranza robusta. La May non l’ha avuta. Perché? I fattori sono molteplici, e sono tutti interni. I recenti attentati di Manchester e di Londra hanno avuto un impatto molto relativo. La società multietnica britannica non è stata scossa più di tanto. La questione dello scontro con l’islamismo è secondaria ad altri problemi, alcuni antichissimi. Ci sono questioni sociali e geografiche mai del tutto risolte, e queste elezioni hanno visto un radicalizzarsi delle posizioni.
Dicevamo che il blairismo è finito, e i Labour hanno recuperato voti e seggi — anche se sono ancora lontani dalla maggioranza — grazie ad un leader socialista vecchio stampo come Corbyn. Alcuni dati fanno riflettere: nella Liverpool da sempre “rossa”, il Labour ha ottenuto un terrificante 80 per cento. Anche la May, a sua volta, ha chiuso l’era Cameron, che era stata una sorta di continuazione del blairismo un po’ più conservatrice, evocando in se stessa — nelle parole e nei gesti decisi — Margaret Thatcher. E ancor più thatcheriana lo diventerà con l’ipotesi di maggioranza maturata in queste ore nei palazzi politici londinesi. Alla May infatti mancano nove voti per poter avere la maggioranza parlamentare. Incassato il no dei Liberal-democratici, che sono rimasti la principale forza anti-Brexit in Inghilterra, a mettere a disposizione dieci voti sarà il Dup, il Democratic Unionist Party, il partito degli estremisti lealisti dell’Irlanda del Nord, che hanno aumentato i propri consensi, al pari dello Sinn Fein, l’altra forza politica repubblicana radicale della Provincia. Entrambe sono cresciute a spese di altri partiti moderati. Con l’ingresso dei lealisti dell’Ulster in un governo a Westminster, si va verso un esecutivo decisamente spostato a destra, caratterizzato da un fortissimo nazionalismo britannico, che potrebbe portare a conseguenze problematiche come il possibile riaprirsi della questione nordirlandese, con la comunità repubblicana e cattolica che già sperava, proprio grazie alla Brexit, alla riunificazione con la Repubblica d’Irlanda.
Rimane inoltre sul tappeto anche la delicata questione scozzese: anche al di sopra del Vallo di Adriano queste elezioni hanno visto una radicalizzazione del confronto. Il Partito Conservatore Unionista ha avuto il miglior risultato dal 1983 ad oggi. Segno di una alzata di scudi da parte di chi si oppone con decisione all’indipendenza del Paese. D’altra parte, la perdita di voti da parte dello Scottish National Party può essere stata provocata anche dall’inusuale apertura a sinistra della sua leader Nicola Sturgeon. Lo Snp aveva fatto della sua lontananza dai due maggiori partiti britannici un elemento di forza che aveva portato alla sua impetuosa crescita. Le dichiarazioni da parte della Sturgeon nell’imminenza del voto di una sua disponibilità ad entrare in un governo di coalizione con i Laburisti, in una sorta di “alleanza progressista”, possono avere spaventato gli scozzesi più moderati che sono tornati, dopo molto tempo, a rivolgersi ai Tory. In queste condizioni un secondo referendum per l’indipendenza da attuarsi nel giro di un paio d’anni, come auspicava la Sturgeon, si prospetterebbe molto difficile, e la Scozia non può permettersi una seconda sconfitta.
Mentre l’Europa guarda quindi al Regno Unito con sempre più perplessità, e mentre le cellule del terrorismo cercano di ferire quello che ritengono una delle Nazioni simbolo dell’Occidente e dei “Crociati”, nelle Isole Britanniche ci si confronta e ci si batte per questioni antiche e mai risolte, sociali e nazionali.
Paolo Gulisano
*da il sussidiario.net