L’ho detto altre volte, ma repetita iuvant. Cultura non è né informazione né istruzione, né educazione. La cultura esige metodo e disciplina, ma si fonda essenzialmente su una scelta etica: la forza, la capacità, il coraggio di rimettersi di continuo in discussione. Senza onestà intellettuale, ch’è uno degli aspetti dell’onestà tout court, non c’è cultura che tenga. Per questo, chi fa cultura non può sottrarsi a un continuo esame di coscienza.
Il 4 giugno scorso, in questa stessa sede (Minima Cardiniana, 176), ho dichiarato che il problema del terrorismo jihadista risiede essenzialmente nell’appoggio promozionale, nella tutela e nel sostegno logistico e finanziario che ai gruppi jihadisti proviene dal mondo salafita-wahhabita facente capo ad ambienti – anche non lontani da rispettivi governi – del regno arabo saudita e dell’emirato del Qatar, e che si esprimono fra l’altro attraverso organizzazioni propagandistico-missionarie quali la Da’wa Islamyya e la Qatar Charity (da qualche fonte definita anche Islam Charity). E ciò, nonostante la nota reciproca avversione dei governi saudita e qatariota, riconducibile a vecchie e nuove rivalità anche tribali, a conflitti d’affari e d’interessi e così via.
Proprio il giorno dopo, è arrivata la doccia fredda. Arabia saudita ed Emirati arabi hanno preso drasticamente le distanze dal Qatar assumendo contro di esso anche misure di tipo sanzionario e accusandolo di sostenere il terrorismo. Tutto ciò, poco dopo la visita del presidente Trump che era sembrata un’investitura accordata al re dell’Arabia saudita nella campagna di lotta al terrorismo islamista, una forza che secondo l’inquilino della casa Bianca andrebbe stroncata soprattutto da parte dell’islam (qualcuno ha fatto a suo tempo facetamente notare che affidar al re dell’Arabia saudita – capo di uno stato ch’è il massimo importatore al mondo di armi e nessuno sa dove le metta – equivale un po’ ad offrire al Conte Dracula la presidenza dell’Associazione Internazionale dei Donatori di Sangue. Ma tant’è. E’ anche noto che il presidente Trump uscì in tale occasione anche con l’affermazione, peregrina ma ohimè non inconsueta in certi ambienti, secondo la quale il centro internazionale di supporto al jihadismo (anche sunnita?) sarebbe la repubblica islamica (sciita) d’Iran: il che onestamente non sembra risulti a nessun servizio d’intelligence internazionale. Ora però il Qatar è addirittura accusato d’intelligenza con Teheran: ed è d’altronde ovvio che il governo iraniano dal canto suo individui la faglia almeno in apparenza prodottasi nel fronte dei suoi nemici e si affretti a cercar d’insinuarvisi offrendo al Qatar il suo aiuto: ch’è un modo sicuro per comprometterlo dinanzi ai suoi ex amici o alleati.
Non posso che accusare il colpo: dopo le dichiarazioni dei paesi della penisola arabica del 5, il mio “pezzo” del giorno prima esce se no screditato almeno compromesso. Il mio blog è divenuto un colabrodo di commenti che vanno dallo “Allora come lo spiega?” allo “E adesso come la mettiamo?”, fino ai più espliciti “Lo dicevo io che Lei non capisce un accidente” e addirittura “Quindi finora ci hai presi per il culo…”.
Chiedo scusa: tutti possiamo sbagliare. Ma, alla luce di quanto finora è accaduto e degli alquanto fumosi strascichi della faccenda Qatar anche sul piano della diplomazia internazionale e dei dispacci d’agenzia d’intelligence, chiedo un po’ di prudenza e di pazienza. Sospendiamo il giudizio in attesa di capirci di più. Quel che sapevamo prima del colpo di fulmine delle notizia arrivate il 5 scorso mi dava ragione: terrorismo sunnita sostenuto da ambienti salafito-wahhabiti, mondo saudita e qatariota coinvolto sia pur al di là della reciproche antipatie espresse dai governi di Riad e di Doha. Aspettiamo di saperne di più e valutiamo frattanto le molteplici ragioni d’attrito: politiche, economiche, culturali ma anche tribali e di prestigio. E attenzione: si tratta di mondi economicamente potentissimi ma anche socioculturalmente complessi; la loro piccolezza non deve ingannare. Procuratevi il n. 29 di “Moyen-Orient” di gennaio-marzo 2016 dedicato all’Arabia saudita (potete richiedere l’arretrato scrivendo a Back-Office Press, 12350 Privezac, France) e il n. 81 di “Diplomatie”, luglio-agosto 2016, che tratta del rapporto fra sunniti e sciiti (boutique en ligne: www.geostrategique.com; sito internet www.diplomatie-presse.com ).
Dal canto mio, con tante scuse per l’errore (forse ) commesso, ma forse no, e con il Vostro permesso, ribadisco ad ogni buon conto il mio punto di vista: siamo in presenza di una manovra politico-diplomatica d’intensità e di violenza finora mai viste l’obiettivo della quale è l’Iran: ne sono protagonisti sia alcuni paesi arabi a governo sunnita (che a loro volta hanno però anche sudditi sciiti: ciò vale per la stessa Arabia saudita), sia Trump che agita di continuo ad uso statunitense interno lo spauracchio dello stato-canaglia iranico per “sbattere il mostro in prima pagina” e sostenere la sua popolarità. Sullo sfondo, è agevole intravedere la Turchia e Israele. Ma sono conti fatti senza l’oste: cioè senza la Russia, interlocutore dell’Iran e sostegno della Siria di Assad; e senza la stessa Cina che a quel che pare negli ultimi giorni ha piazzato alcune basi militari in Pakistan, finora piazzaforte dei fondamentalisti sunniti, mentre ha cominciato a costruire una base a Gibuti non lontano da quella, ben nota, statunitense (articolo in “Guardian”, 7.6.2017, che cita fonti provenienti dallo stesso Pentagono). Il Pakistan, che sembra abbia venduto ordigni nucleari all’Arabia saudita, è a tutt’oggi tuttavia il maggior acquirente di armi made in China; mentre il progetto cinese New Silk Road prevede una spesa totale di 900 miliardi di dollari in infrastrutture che richiedono la tutela di servizi militari efficienti nei paesi instabili (Pakistan e Gibuti sono tali). Il Pakistan, in rotta con gli Stati Uniti, si sta avvicinando alla Cina. Insomma, in fondo aveva ragione il buon Renzo Tramaglino: “La c’è la Provvidenza”.
Franco Cardini
Post scriptum – L’edizione odierna è stata piuttosto densa: ho quindi lasciato da parte il commento a un evento a mio avviso gravissimo, sul quale conto di parlare quando avrò raccolto materiale sufficiente. Alludo al duplice attentato di Teheran, perpetrato in significativa sincronia al mausoleo dell’Imam Khomeini e al Parlamento, con numerosi morti e feriti. Il governo iraniano e le agenzie di stampa di quel paese mantengono al riguardo un prudente riserbo, secondo le abitudini di serietà che li distinguono e che evitano sia il sensazionalismo, sia il vittimismo, sia le analisi complottistiche improvvisate. Esattamente come governo ed agenzie russi, che non hanno mai “cavalcato” propagandisticamente nemmeno un evento doloroso e luttuoso come il letterale sterminio di tutta l’Orchestra dell’Armata Rossa. Di tutt’altra natura il vergognoso e indecoroso silenzio-stampa imposto ai media occidentali dai governi subordinati a quello che, probabilmente, sa fin troppo bene come sono andate le cose, sia in Russia sia in Iran. Siamo alla manovra a tenaglia: da un lato la demenziale denunzia di Trump a Riad che accusa senza ragione e senza prove l’Iran di essere il capofila del terrorismo internazionale; dall’altra l’uso appunto di quel terrorismo contro coloro che sono accusati di esserne i mandanti. Il teorema è perfetto. Ebbene: noi sappiamo; ma, per cominciar a parlare, raccogliamo pazientemente i nostri indizi e lavoriamo affinché si trasformino in prove. Attenzione, però: poiché sappiamo, abbiamo anche capito dove vogliono portarci i criminali con i quali ci troviamo ad essere malauguratamente alleati, nel senso che i nostri governi sono i loro ascari (e mi spiace usare tale termine: gli ascari erano magnifici, leali soldati). Prepariamoci quindi almeno a un passo simbolico: un forte, sicuro, chiaro NOT IN MY NAME!
*Tratto dal blog www.francocardini.net