L’Iran viveva quasi 10 anni di tranquillità. Nonostante la presenza di rilevanti gruppi ostili al governo degli Ayatollah, Teheran non soffre la minaccia del terrorismo nella stessa maniera dei suoi vicini. Per una serie di elementi, tra i quali la compattezza del tessuto sociale, l’abilità e la competenza di buona parte della classe politica, di quella militare e d’intelligence e delle stesse caratteristiche intrinseche dello sciismo, il Paese è rimasto indenne al fuoco che affligge molti dei suoi vicini. Controllare i confini porosi del Paese è una operazione non facile: a ovest la situazione in Iraq è sotto gli occhi di tutti e i monti Zagros non sono un buon “confine naturale”, il limes afghano e quello pakistano sono spesso oggetto di sconfinamenti e incursioni. Teheran per tutelarsi, oltre che su un buon apparato di controllo, fa anche affidamento sulle comunità sciite presenti nei Paesi confinanti (Iraq, Afghanistan e Arabia Saudita) con cui intrattiene ottimi rapporti e che rappresentano un vero e proprio asset iraniano all’estero (si ritornerà su questo punto). L’unico confine non abitato da sciiti è quello a sud-est. Qui, la minoranza sunnita del Balchistan, trasversale a Pakistan, Afghanista e Iran, ha creato non pochi problemi alla Repubblica islamica nel corso della sua storia. Ad esempio, anche in questo caso, nei video caricati sui social network si sentivano i terroristi parlare con un forte accento balochi, lasciando un primo indizio sulla loro provenienza, seppure meramente geografica. Questi ultimi, regolari cittadini iraniani, erano armati con Ak-47 probabilmente di origine cinese (riconoscibile dal diverso calcio del fucile) e granate F1 russe. Si sa che quelle armi, facilmente reperibili sul mercato nero, possono essere arrivate in territorio iraniano da uno dei due confini (est o ovest) già citati.
Rispetto alle potenzialità, l’attentato non ha registrato un alto numero di vittime e anche i mezzi di comunicazione (siano essi politici o giornali “indipendenti”) hanno fatto passare l’evento più come una dimostrazione politica che una azione terroristica tout court. Infatti, l’attacco si lega, almeno mediaticamente, all’importante incontro di Trump a Riad e alle minacce di quest’ultima a Teheran. Le reazioni da parte degli organi politici iraniani è stata, nelle sue dichiarazioni, durissima: dal parlamento si sono levate voci contro gli Stati Uniti e rappresentanti del governo hanno rifiutato le condoglianze del governo americano etichettandole come “ripugnanti” e hanno a loro volta minacciato forti ritorsioni agli sponsor del terrorismo internazionale. L’attentato è stato rivendicato dal Daesh ma alcuni analisti pensano che ci sia l’impronta di Mojahedin-e Khalq, un gruppo politico di opposizione (prevalentemente armata) attivo in iran. Gli sponsor a cui allude Teheran sono Arabia Saudita, Stati Uniti e, per transitività, Israele.
Sarebbe superfluo dire che in questo momento l’Iran non è in grado di impegnarsi verso questi tre Paesi in alcun tipo di ritorsione economica o militare diretta, ma ha alcune frecce al suo arco: innanzitutto, può aumentare il suo impegno in Iraq cercando di imporre la maggioranza sciita al governo del Paese e occupando i posti chiave nel debole esercito iracheno; successivamente potrebbe aumentare il proprio impegno in Siria (a sud compromesso a causa dei recenti raid aerei degli Stati Uniti d’America) per completare quel “corridoio verso il Libano” che rappresenta un obiettivo strategico fin dalla rivoluzione del ’79; potrebbe sfruttare la crisi tra Qatar e Paesi della penisola araba a suo favore, aspettando prima il risultato del prossimo incontro tra Putin e Tamim bin Hamad al-Thani, emiro del Qatar che ha rifiutato l’incontro alla Casa Bianca, e poi le mosse di Ankara, concorrente secolare dell’Iran su quel fazzoletto di terra; potrebbe, infine, sfruttare quell’asset già citato in precedenza per “giocare” allo stesso gioco a cui stanno giocando i suoi nemici, cosa che, tra l’altro, fa già in Libano e, più propriamente, nello Yemen. L’Iran non è disarmato davanti a questo tentativo di guerra asimmetrica, tutto sta nel vedere quanto le parole dei suoi rappresentanti politici diventino realtà nel prossimo futuro.
Marcello Ciola