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I “NOSTRI VALORI” ALLA PROVA DEL KIRPAN (DEL CROCIFISSO E DEGLI ERRORI DELLA CASSAZIONE). Di Francesco Mario Agnoli

  La vicenda oggetto della sentenza di Cassazione n. 24084/2017 è quella  di un indiano di religione sikh, residente in Italia,  uscito di casa tenendo  nella cintura un pugnale Kirpan, simbolo della sua religione e dell’obbligo dei fedeli di proteggere  i deboli, ragioni  insufficienti a evitargli la condanna  a duemila euro di ammenda per porto ingiustificato  di coltello. Offeso nel suo sentimento religioso il sikh ha  ricorso in Cassazione, invocando l’art. 19 della Costituzione “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede  religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato  e in pubblico il culto, purché non si tratti di atti contrari al buon costume”.

  La Corte di Cassazione ha confermato il prinipio enunciato dal Tribunale mantovano e cioè che il porto di un coltello dotato di una lama di 18,50 centimetri viola la norma che a tutela della sicurezza pubblica vieta il porto di armi e  oggetti atti ad offendere. Niente da dire. Le leggi finché sono in vigore vanno osservate da tutti: italiani e stranieri, residenti e immigrati. Non vi sarebbe  motivo di polemiche nemmeno in Italia, dove tutto è “politica” (nel senso peggiore del termine) se i giudici della Cassazione non avessero ceduto alla tentazione di buttarla, appunto, in politica con  una lezioncina sui valori. Si legge in motivazione: ”Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’art. 2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. È quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad offendere”.

  In definitiva si afferma che la legge  considera la sicurezza un valore che deve essere accettato da chi viene nel nostro paese. Tuttavia il richiamo ai valori ha  indotto la Cassazione ad una motivazione più ampia  in punto al   rapporto leggi-credenze religiose che perviene unicamente al risultato, forse non voluto, di escludere la religione   cristiana dai “nostri valori” . In  motivazione la Cassazione richiama  alcune decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di limiti alla libertà di religione  e dà rilievo al caso della dipendente della Britsh Airways, Nadia Eweida, cinquantacinquenne cittadina britannica di padre egiziano e madre inglese,  sospesa  dal lavoro e dallo stipendio per avere indossato sul lavoro una collana con una piccola croce, vietata  dal codice  di abbigliamento dell’azienda, e scrive: “Nella causa Eweida e altri contro Regno Unito del 15 gennaio 2013, la Corte ha riconosciuto la legittimità delle limitazioni alle abitudini di indossare visibilmente collane con croci cristiane durante il lavoro e ha suffragato l’opinione ricordando che, nello stesso ambiente lavorativo, dipendenti di religione Sikh avevano accettato la disposizione di non indossare turbanti o Kirpan (in questo modo dimostrando che l’obbligo religioso non è assoluto e può subire legittime restrizioni)”.

   Ora il caso è diverso, perché Eweida nonostante il padre egiziano è cittadina britannica a tutti gli effetti, cultura inclusa, sicché non si trova nelle condizioni di dovere conformare i propri valori a quelli occidentali e di verificare la conformità a questi dei propri comportamenti, ma, soprattutto,  la citazione è sbagliata e prova il contrario. Con la sentenza richiamata la Cedu ha deciso quattro ricorsi, fra i quali, oltre all’Eweida, quello, simile,  di un’infermiera addetta al reparto geriatrico di un ospedale pubblico inglese trasferita per essersi rifiutata di    togliersi un crocifisso  portato  sul camice. In realtà la CEDU ha accolto il ricorso della Eweida e condannato la British Airways parlando anche di discriminazione, perché l’azienda aveva vietato i simboli cristiani, ma consentito il turbante ed altri simboli  sikh (e perfino il velo musulmano). Respinto invece il ricorso dell’infermiera,  perché la motivazione dell’amministrazione ospedaliera era che la collana  appesa al collo durante le medicazioni poteva urtare ferite e piaghe dei pazienti e l’infermiera si era rifiutata di sostituirla  con una spilla recante l’immagine del crocifisso.

  Non resta, con buona pace dei politici  entusiasti della decisione anti-kirpan,  che prendere atto che per la Cassazione,  ma non per la CEDU, i principi cristiani sono estranei, come quelli sikh, ai valori del mondo occidentale.

Francesco Mario Agnoli

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