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LA STRATEGIA PERDENTE DELL’EUREXIT. Di Claudio Giovannico

Che l’UE non rappresenti il sogno europeo, così come lo si era immaginato, questa è cosa nota ed evidente. Un’unione commerciale che per ragioni economiche si è rivelata in sostanza essere la grande opportunità storica per la Germania di fare quello che nei secoli passati non le era riuscito con la forza militare, ossia diventare il soggetto geopolitico egemone nel Vecchio Continente.

Di fatto questa Europa è segnata da profondi squilibri tra diverse aree territoriali ed economiche presenti al suo interno che la rendono assimilabile a un modello di “impero mercantilista”, composto da una parte centrale egemone che agisce a discapito di quelle aree marginali, di conseguenza divenute colonia interna dei Paesi dominanti. Uno spazio economico cui corrisponde un’area valutaria comune, tuttavia asimmetrica nel rapporto delle bilance commerciali dei singoli Paesi membri, divisa in un “centro”, economicamente omogeneo, e in una “periferia” subalterna al centro e in disavanzo commerciale rispetto ad esso per via delle relative massicce esportazioni, non più compensabili per mezzo di quella che una volta veniva definita “svalutazione competitiva” a causa del vincolo della moneta unica. Inoltre, lo squilibrio iniziale è stato nel recente passato aggravato dai prestiti di capitale provenienti dalla zona centrale, che hanno indebitato ancora di più le aree esterne a causa delle condizioni, legate al rilascio del prestito, consistenti nelle cosiddette politiche di austerità e di flessibilità del lavoro, secondo una visione per cui la competitività sarebbe accresciuta in seguito alla riduzione dei salari nominali e reali. Tuttavia, abbiamo potuto toccare con mano quanto questa convinzione sia risultata errata e come nei fatti abbia condotto, al contrario, non a una correzione degli squilibri, ma a una loro accentuazione e al porsi delle condizioni per una deflazione economica dell’intera area economica europea.

Come già detto nelle prime righe, tutto questo è cosa oramai nota a tutti o perlomeno ai più e che persino i canali ufficiali di informazione non si permettono più di smentire.

Alla luce della breve ricostruzione sopra descritta, la possibilità di uscire dall’euro e dall’UE sembrerebbe, dunque, rappresentare la soluzione più sensata, quasi ovvia. Eppure, nonostante tutti i problemi e le contraddizioni presenti all’interno dell’ordinamento europeo, si fa fatica a sostenere le ragioni di chi ne auspica il crollo.

Innanzitutto va considerato che uscire dall’area della moneta unica non sarebbe di certo indolore per le economie nazionali, nessuna esclusa. Preoccupano in primis gli effetti che l’eurexit avrebbe sui salari e sulla distribuzione del reddito. Vi è, infatti, il rischio concreto di una doppia deflazione salariale, dovuta in prima battuta alla attuale condizione deflattiva interna all’eurozona, che con ogni probabilità potrebbe essere successivamente aggravata dalla svalutazione legata all’abbandono della moneta unica. La moneta così deprezzata agevolerebbe sì in un primo momento le esportazioni e limiterebbe le importazioni, aggiustando temporaneamente il saldo della bilancia commerciale, tuttavia tenderebbero a ridursi in tal modo i cosiddetti salari reali, ossia il potere di acquisto dei salari monetari, che comporterebbe un aumento del livello dei prezzi interni (inflazione), compresi i prezzi delle esportazioni, riducendo, pertanto, l’iniziale vantaggio competitivo. Inoltre, la riduzione dei salari reali condurrebbe con ogni probabilità a determinare una riduzione della domanda interna dei beni di consumo. E il riacquisto della sovranità monetaria e la possibilità di attuare politiche di cambio non basterebbero a stabilizzare la situazione di squilibrio che si verrebbe a creare e a colmare per tempo l’attuale gap infrastrutturale e degli apparati produttivi. Senza contare gli effetti finanziari di un’eventuale dissociazione dall’euro, con buona parte del debito pubblico italiano che andrebbe pagato in euro, il quale avrebbe un valore considerevolmente superiore alla nuova lira svalutata, comportando effetti catastrofici sull’economia reale attraverso il fallimento delle banche, blocco del credito e conseguente crollo dell’intero tessuto produttivo nazionale. Non si tratterebbe, dunque, di considerare la svalutazione nei termini classici di un mero mutamento del tasso di cambio, ma questa andrebbe valutata alla luce dei flussi della finanza. La posizione di inferiorità rispetto al dollaro ci renderebbe nuovamente esposti alle ingerenze angolsassoni, soprattutto alla luce del distacco della gran Bretagna dall’Europa e la sua rinnovata intesa con i fratellastri d’oltreoceano. In un’ottica geopolitica è evidente che l’Europa frammentata sarebbe esposta agli attacchi e alla forza delle grandi potenze, russa cinese e angloamericana. Pertanto, l’euro in tal senso rappresenta, nonostante tutto, un fondamentale strumento di difesa dai rischi della globalizzazione e dei mercati finanziari.

Ad oggi non esiste un modello previsionale economico in grado di affermare con certezza scientifica che l’uscita dall’euro possa portare a vantaggi assicurati. La fase di transizione di un’eventuale eurexit sarebbe oltretutto lunga e lenta, non potendo pertanto assicurare di evitare in questo frangente la classica corsa agli sportelli bancari o la fuga degli investitori desiderosi trasferire i propri capitali all’estero al fine di sottrarsi agli effetti negativi della svalutazione; finendo per spingere verso un’ulteriore e grave crisi sui mercati finanziari.

Considerato l’attuale stato delle cose, è unicamente possibile affermare con convinzione che un’eurexit avverrebbe a condizioni di profonda incertezza e che, d’altro canto, lasciare in piedi l’euro così com’è non potrà che condurre a una sua graduale caduta per “vizio interno”. Difatti, nemmeno i Paesi forti come la Germania sarebbero esenti da possibili conseguenze negative relative agli squilibri dei meccanismi dell’ordine economico europeo, dacché, mentre la periferia si deindustrializza per l’invasione delle merci straniere, il centro si fa partecipe della sua progressiva instabilità finanziaria per quell’indebitamento crescente di cui è creditore. Pertanto, vedrebbe così man mano restringersi la propria area privilegiata d’esportazione, dovendo cercare nuovi sbocchi commerciali altrove, ove però si presenterebbe lo svantaggio del rischio di cambio, alla luce altresì di un euro sopravvalutato.

La conservazione di un’Europa quale attore regionale sullo scacchiere geopolitico resta, dunque, ancora fondamentale se non si vuole “uscire dalla storia in punta di piedi”. Ovviamente perché ciò avvenga è altrettanto importante che l’Europa dismetta i soli panni di potenza commerciale e decida di acquisire una volta per tutte un’identità di attore politico forte e unitario sullo scenario globale. È necessaria in tal senso una svolta nella politica economica europea che consenta la ripresa della domanda aggregata e quindi rimetta in moto lo sviluppo e la crescita occupazionale, che operi una condivisione dei debiti, che comprenda un’attività di controllo degli scambi di merci e di capitali, praticabile esclusivamente con una parallela riforma della Bce, quale istituzione pubblica, garante dell’economia europea nel ruolo di prestatore di ultima istanza.

Vi è la consapevolezza dell’improbabilità e della difficoltà nel pervenire a una simile soluzione, stante l’ostruzione della Germania e dei suoi Paesi-satellite, a cui l’assetto attuale conviene. Ciò nonostante l’ipotesi di un cambio di segno delle politiche europee resta l’eventualità più auspicabile per il benessere dei cittadini. Pertanto, se le forze cosiddette “popolusite”, interne ai singoli Paesi, avessero il coraggio di intraprendere un percorso con l’obbiettivo di una riforma sostanziale dell’ordinamento economico e giuridico europeo, tale risultato sarebbe di certo più facilmente raggiungibile. In tal senso, sono convinto che proprio lo spettro del crollo dell’euro abbia finora comportato, nelle recenti competizioni elettorali relative ai Paesi membri dell’Unione, la sconfitta dei movimenti sovranisti o populisti, qual dir si voglia. La maggioranza della popolazione per quanto stanca dell’establishment politico europeo, delle sue politiche e dei relativi effetti recessivi, messa di fronte alla concreta possibilità di un’ulteriore crisi monetaria ed economica, a causa di un’eurexit, ha optato infine per il mantenimento dello status quo, intimorita dall’incertezza, concreta ed effettiva, delle conseguenza legate all’abbandono dell’euro e al crollo del relativo sistema. Non a caso, il malcontento diffuso, giunto probabilmente al proprio apice, si manifesta nelle alte percentuali conseguite dai movimenti sovranisti durante le competizioni elettorali, salvo tuttavia non essere sufficienti a decretarne la vittoria. Questo è stato fino ad ora il trend elettorale; basti guardare al referendum greco di alcuni anni fa o ai più recenti risultati delle elezioni politiche in Austria e Olanda. Con ogni probabilità lo stesso avverrà in Francia, dove comunque la Le Pen sembra aver intuito i rischi di un’eventuale uscita dall’euro e il suo impatto negativo in campagna elettorale [1]; mentre il caso inglese della Brexit non può essere preso in considerazione visto che “una cosa è uscire dall’euro, ben diverso è non esserci mai entrati”.

Ne segue che la soluzione non può che essere cercata all’interno della stessa zona euro attraverso un cambio delle politiche economiche e un recupero di fiducia e collaborazione tra i diversi Paesi.

[1] http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2017-04-29/le-pen-fa-passo-indietro-l-uscita-dall-euro-puo-attendere-123439.shtml?uuid=AEv3utDB

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