Al di là dei dubbi sollevati delle opposizioni interne e dall’Osce sulla regolarità del voto (dei quali comunque nessuno seriamente si occuperà dopo gli immediati rallegramenti di Trump al vincitore) il primo dato certo è che, al contrario di quello perso da Renzi, il referendum per la modifica costituzionale voluta dal premier turco Erdogan ha avuto successo, di misura, ma successo. Renzi avrebbe firmato anche per il 50% + 1. Secondo dato certo è che la percentuale dei consensi è stata assai più elevata (quasi il 59%) fra i turchi emigrati in Europa, soprattutto in Germania, Austria, Belgio e Paesi Bassi (solo in Svizzera ha prevalso il no), molti dei quali con doppia cittadinanza e tutti i requisiti formali del perfettamente integrato a cominciare dal passaporto. Sarebbe interessante sapere quanti di questi voti provengono da elettori con doppia cittadinanza, ma in ogni caso non c’è da meravigliarsi del risultato “europeo”. Gli emigrati, anche di seconda e terza generazione, hanno sempre conservato, e ancor più per una solo apparente contraddizione conservano oggi in un mondo totalmente globalizzato, forti radici col paese d’origine. Se poi questo ha, più o meno in grande, un ruolo mondiale il ricordo e la nostalgia della patria tendono a trasformarsi in nazionalismo, il che comporta sostegno per gli avvenimenti percepiti come rafforzamento della sua posizione internazionale o comunque come manifestazione di forza e di potenza. Tanto meglio se il risultato viene conseguito nonostante l’opposizione degli altri Stati più o meno concorrenti o rivali, e con ancora maggiore soddisfazione se si tratta di quelli di cui si è ospiti o addirittura cittadini. E’ già accaduto, a favore del regime fascista, negli anni ’30 del secolo scorso con gli emigrati “economici” italiani negli Usa e negli altri paesi del continente americano anche se le regole dell’epoca non consentirono a questo nazionalismo di ritorno di tradursi in appoggio elettorale.
Il risultato elettorale, mettendo la quasi totalità dei poteri, incluso un forte controllo sul giudiziario, nelle mani del presidente riporta la Turchia nel solco della tradizione ottomana, mettendola all’incirca sullo stesso piano dell’altra potenza tradizionalmente dominante del mondo musulmano (e per questo tradizionalmente rivale): l’Egitto del generale al Sisi. Con tutto questo le reazioni europee, pur ispirate a più o meno ostentate preoccupazioni, non hanno chiuso definitivamente la porta all’adesione della Turchia all’Unione Europea, con l’unica eccezione dell’Austria, il cui ministro degli esteri, Sebastian Kurz, ha sollecitato l’Ue a chiudere per sempre negoziati definiti “una finzione”: “Occorre essere, per una volta, onesti sulla relazione tra l’Ue e la Turchia: il tempo dei preamboli deve finire. La Turchia non può diventare un membro dell’Ue“.
Più problematico (diciamo così) Angelino Alfano, che “coerentemente con l’appartenenza della Turchia al Consiglio d’Europa” auspica “un raffreddamento delle tensioni interne al Paese e, inoltre, un coinvolgimento delle opposizioni nel percorso di implementazione delle riforme” con buon pace delle opposizioni turche che vorrebbero non implementarle, ma cancellarle. Quanto all’ingresso della Turchia in Ue. fedele alla politica dell’eterno rinvio, se la cava con un “adesso non è sul tavolo”. Ancora peggio la cancelliera Merkel e il suo ministro degli esteri, che si allineano ad Alfano nell’auspicio che “ora il governo turco ricerchi un dialogo rispettoso con tutte le forze politiche e sociali del Paese“, ma bocciano la richiesta austriaca di definitiva chiusura delle trattative per l’adesione della Turchia. Evidentemente per loro il blocco di tre milioni di profughi in Turchia e il dirottamento sull’Italia della marea dell’emigrazione economica valgono molto di più di qualche colpetto alla democrazia in Anatolia. Non per nulla in Germania molti elettori di Erdogan voteranno anche alle elezioni tedesche in programma per l’autunno.
La Francia, impegnata nelle elezioni presidenziali alle porte, si occupa d’altro e il presidente in uscita Holland tenta di dettare la linea futura, ponendo l’attenzione sul prossimo referendum programmato da Erdogan e dichiara che “l’organizzazione di un referendum sulla pena di morte costituirebbe evidentemente una rottura con i valori e gli impegni presi” in vista dell’adesione all’Ue. In altri termini: se non lo farà, resta in corsa.
In definitiva, mentre Erdogan tira dritto, gli europei si adeguano e spostano sempre più in là quella che dovrebbe essere l’insuperabile “linea rossa”. Nemmeno mancano politici e opinionisti che, invece d rallegrarsi che, pur con tutte le sue incertezze, finzioni ed ipocrisie la Commissione Europea non abbia comunque aperto le porte dell’Europa a un paese come la Turchia di Erdogan, che avrebbe schiacciato come un carro armato i nostri tanto proclamati, irrinunciabili “valori”, lamentano la mancata accoglienza, illudendosi che da membro dell’Unione il “sultano” non avrebbe osato tanto.
Francesco Mario Agnoli