Il viaggio
Foligno – il Capitano del V reggimento Alpini scende per aprirmi lo sportello telato del VM90 dell’esercito che mi accoglie per raggiungere Castelluccio. “So che lei è dei nostri” aveva detto al telefono qualche giorno prima, ricordando il mio passato da ufficiale del Genio e cercando di solleticare in me l’orgoglio per convincermi a raggiungere il Pian Grande con sci e pelli di foca. Inutile: gli anni, i chili acquistati e l’attrezzatura fotografica hanno soffocato in me ogni velleità di incamminarmi sui sentieri innevati ed ho aspettato il “cambio” di una delle squadre che da mesi pattuglia le zone terremotate per raggiungere Castelluccio di Norcia. Il viaggio è molto lungo, ai consueti settantacinque chilometri per arrivare a Norcia se ne aggiungono una novantina per coprire quelli che una volta erano i trenta scarsi che separavano la frazione dell’altopiano dal suo comune. Oltre 160 chilometri da coprire con un mezzo più adatto al fuoristrada estremo che alle lunghe trasferte.
Attraversiamo tre volte i confini di regione passando per Lazio e Marche toccando frazioni e comuni che la
cronaca ha reso tristemente famosi dopo le scosse di agosto ed ottobre 2016. Passando nell’abitato di Pretare – poco dopo Arquata del Tronto – veniamo bloccati dai vigili del fuoco che stanno tirando fuori i mobili da una casa che dovranno abbattere. Mobili che troveresti dal rigattiere per qualche decina di euro. Io non capisco, “perché rischiare la vita per un vecchio comò e un letto?”
“Nel 2009 a L’Aquila, in una frazione simile a questa” mi interrompe il Sergente Maggiore “una vecchina chiedeva da giorni di recuperare la sua camera da letto da una casa pericolante. Alla fine capimmo: nel materasso aveva tutti i risparmi di una vita, non si fidava delle banche e li teneva lì!” Superato il blocco dei vigili del fuoco, dopo mezz’ora, eccoci a Forca di Presta, nei pressi di quello che una volta era il punto di partenza per salire al monte Vettore e scoprire l’ecosistema dei Laghi di Pilato. Oggi procediamo fra due muri di neve gelata, alti quanto il mezzo militare, che sono qui da un mese e ci resteranno per molte settimane ancora. Di certo sappiamo che il nevaio che alimenta i laghi, sarà pieno per tutta l’estate. Fatte altre due curve intravvediamo, in fondo al pian Grande, Castelluccio. Castelluccio di Norcia, a 1450 metri d’altitudine, è – o meglio era – il paese per cui sono stati tentati i paragoni più arditi e qualche volta esagerati: il Tibet d’Italia, le Dolomiti dell’Umbria, l’angolo di Paradiso. Sarebbe più semplice prendere atto che, fino ai due terremoti che l’hanno colpito nel 2016, Castelluccio era un paese che viveva di una sua economia agricolo pastorale, con fortissima vocazione turistica e alcune strutture ricettive. Intorno all’abitato medievale (ma alcune tracce, testimoniano il passaggio di truppe imperiali romane) si era sviluppata una rete di piccoli imprenditori agricoli che offrivano, oltre ai prodotti tipici, informazioni turistiche, guide per affrontare al meglio il parco dei Sibillini e i sentieri del Monte Vettore, voli in parapendio, gite a cavallo fra i fiori del Pian Grande.
Parlo al passato perché di tutto questo, ad oggi, non resta praticamente niente. Sono solo un paio le strutture ricettive che hanno resistito bene alle scosse di terremoto, ma anche quelle restano in attesa dei certificati di agibilità per poter riprendere l’attività. In attesa di decisioni complesse – e complicate dalla burocrazia – sul futuro di strade, infrastrutture, piani regolatori, si può solo evitare che curiosi, sciacalli e cacciatori di ricordi assalgano le macerie mettendo a rischio, oltre la propria vita, il lavoro di chi vuole ricominciare. Per questo dall’inizio dell’emergenza l’esercito presidia il paese con un punto fisso di guardia e pattuglie ospitate da un container piazzato fra macerie e cumuli di neve su quella che era la piazza principale del paese. Giro lo sguardo e, ovunque, vedo l’insegna di un ristorante dove ho mangiato o un bar dove ho preso un caffè o una locanda in cui ho dormito. Ma non c’è tempo per fermarsi, domani ne avremo di più, ora bisogna raggiungere una posizione panoramica finché c’è luce.
Il Tramonto e la notte
Dopo una mezz’ora di cammino arriviamo sulla cima del monte Veletta, in tempo per fotografare il tramonto e farci sorprendere da una forte tramontana che spazza il cielo e scopre l’azzurro.
Abituato al ricordo delle foto delle luci del paese accese in contrasto con il Vettore innevato, l’abitato appare ancora più spettrale, l’unica illuminazione pubblica rimasta è quella del cimitero insieme ad un tenue chiarore proveniente dal container dell’Esercito. Ma il vento e la notte che cala veloce, scoprono il cielo stellato, uno dei tanti motivi per cui vale la pena arrampicarsi quassù: il pian Grande è una della zone a più scarso inquinamento luminoso d’Italia ed è quindi il luogo ideale per osservare le stelle e fotografarle.
Tornati in paese una volpe gira per molto tempo intorno al rifugio che ci ospita, sperando in qualche
avanzo della nostra cena. Ma mi hanno tassativamente vietato di darle del cibo, per non disabituarla dal procacciarselo, cosa che, a giudicare dalla ferita sul petto, dovrebbe essere dura anche per lei. E’ forse lo stesso esemplare che per anni ha frequentato il rifugio di Forca di Presta – a 6 km in linea d’aria – impietosendo i turisti che l’avevano quasi trasformata in animale addomesticato. Ci prepariamo per la notte, io, settimo incomodo, e la squadra degli alpini in un container che, in poco più di tre metri per sei, contiene 4 letti una branda e un paio di sedie per chi monta di guardia, oltre a cucina e attrezzature varie.
La natura riconquista velocemente quello che l’uomo ha perso.
All’alba, mentre cammino lungo la strada del Pian Grande, dopo sei ore di sonno, la mia attenzione è richiamata da un clamore di cinguettio e sbattere d’ali, proviene da un albero, da ogni singolo raro albero dell’altopiano. “E’ così da giorni” mi dice il capitano, “da quando si è sciolta la maggior parte della neve della grande bufera di gennaio, tutte le mattine il cinguettio annuncia l’alba”. Lo spettacolo del chiarore proveniente da dietro il Vettore che macchia di giallo l’azzurro dell’altopiano, è mozzafiato. Rivela anche attrezzature agricole lasciate in attesa di essere usate per preparare il terreno alla semina delle lenticchie se e quando sarà possibile. “Qui l’anno dura sei mesi” mi dice Vincenzo, uno dei 100 residenti del paese che arriva accompagnato da un amico a giorno fatto, “… e se in quei mesi stai fermo per una, due settimane, rischi di perdere il raccolto”.
Me lo dice mentre scende dal trattore che porterà verso la provincia di Ascoli, per la messa a punto annuale prima della semina della lenticchia, il principale prodotto dell’economia locale, tipica e protetta dall’Indicazione Geografica e, ciononostante, contraffatta da confezionatori senza scrupoli che usano lenticchie canadesi di importazione “… quelli di giù” continua Vincenzo accennando col mento in direzione di Norcia “pensano di rifare tutto come prima, come se fosse semplice. Ma qui devono buttare giù tutto e rifare bene solo quello che è possibile e se alla fine chi aveva una casa di 4 piani se ne ritrova 2 perché non è possibile andare più in alto, gli assegneranno della cubatura da un’altra parte.”
A mezzogiorno il canto degli uccelli – principalmente passeri, pettirossi ma anche corvi, cornacchie, rapaci – diventa quasi baccano. Sulla strada del ritorno mi fermerò a chiedere a Odoardo, 83 anni, quasi tutti passati fra Pescara del Tronto e Castelluccio. Gli mostro il video girato a mezzogiorno nei pressi del cimitero di Castelluccio “sono cresciuto con le pecore del Piano, ma una cosa così non l’avevo mai sentita”.
I piccoli animali cosmopoliti hanno sfidato e vinto l’inverno più freddo degli ultimi anni. Probabilmente fra le macerie delle case abbandonate hanno trovato riparo e cibo in abbondanza. E non si tratta solo degli uccelli. Nel versante marchigiano vengono segnalate colonie di topi che scorrazzano fra i ruderi, indisturbati, scomparso l’unico vero antagonista – l’uomo – riescono ad adattarsi e ad abitare quello che per tutti è un paesaggio inospitale di distruzione. E questo spettacolo che ci tocca per la quantità di individui e per il concerto, conferma quello che abbiamo osservato la sera prima sul monte Veletta: una varietà di tracce sulla neve. Ci sono i cavalli, i venti cavalli che ogni anno vengono lasciati allo stato brado sul Pian Grande, che si spostano in cerca di un bosco che costituisca un riparo. Ma ancora cinghiali, volpi, gatti selvatici, ungulati, lupi e … orsi.
“Alcuni giorni fa abbiamo notato impronte, che potevano essere di un orso, verso il Pian Perduto” mi comunica asciutto il capitano, il dato, se confermato, segnerebbe un ulteriore punto a favore della riconquista del parco da parte della fauna selvatica. Da queste parti un orso non viene infatti fotografato almeno da 6/7 anni e nel 2013 fu segnalato un episodio di cani da caccia al cinghiale feriti da un possibile attacco di orso bruno. L’ultimo ad essere monitorato grazie al radiocollare, Ulisse, si è spostato nel 2010 verso i boschi delle valli intorno a Rieti. Di certo c’è che il sistema di parchi costituito dai Sibillini, dai Monti della Laga, dal parco Regionale del Sirente Velino e dal parco Nazionale d’Abruzzo costituisce un blocco territoriale praticamente ininterrotto e gli sconfinamenti dei plantigradi, che compiono spostamenti importanti, sono frequenti.
I danni
Quando passo nei paesi del cosiddetto “cratere del terremoto”, c’è una considerazione che mi colpisce tutte le volte: se accanto a case ridotte in macerie ve ne sono altre integre, il problema non può essere il sisma, il castigo divino o la “natura ostile”. Il problema è come si sono costruite le case.
A Castelluccio questo è evidente, case con rialzi improvvisati, magari in cemento armato ma appoggiati su muri in pietra non squadrata e incoerenti. Abitazioni a un solo piano dove si vede la parte in legno integra e quella in blocchi di tufo sbriciolata come una bruschetta, i due versanti del paese, con le relative strade, scivolati verso valle di diversi metri. E a questo si contrappongono soluzioni tampone, proposte e calate dall’alto, da gente che non ha mai vissuto in questa zona e non si è mai misurata con i materiali e la natura dei luoghi. Pertanto il metodo per riportare nel pian Grande l’unico animale che il sisma ha cacciato, l’uomo, non può che partire dall’esistente: la ricchezza di fauna e flora del piano, la peculiarità dei laghi di Pilato, l’osservazione della volta celeste e la destagionalizzazione dei picchi turistici che si concentrano intorno alla “fiorita”.
Questo dovrebbe essere favorito da un rapido disbrigo delle pratiche burocratiche che, invece, sembrano
ingabbiare il futuro della popolazione fra sbarre di incertezza. Occorre definire meglio la “zona rossa” e ridare agibilità o mettere in sicurezza gli edifici ancora sani (ce ne sono alcuni). Così come è urgente demolire rapidamente gli edifici pericolanti e smaltire le macerie, approntare un piccolo villaggio per consentire a chi deve tornare a coltivare la terra, di farlo senza affrontare viaggi di due ore. E poi ricostruire con un criterio, che non può essere “rifare tutto come prima” che è una delle promesse più grottesche che la politica può fare in questi casi, ma fare meglio. Fare il possibile con i materiali migliori, magari rendendo il paese indipendente dai combustibili fossili. Consentire una rapida verifica e messa in sicurezza della sentieristica
e dei rifugi e la creazione di un camping per consentire al turismo “leggero” di tornare nel parco mentre si costruiscono nuove strutture ricettive o si riparano quelle rimaste agibili.
Sono spunti, semplici, di buon senso, che potrebbero essere realizzati anche rapidamente.
Foto e testi di Francesco Bastianelli.