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L'EURO, IL MARCO E IL DRAGO. Di Paolo Costa

È giusto di questi giorni la polemica innescata dalla nuova amministrazione americana intorno all’euro quale “marco tedesco camuffato”.

Al di là delle schermaglie tra cancellerie e al di là di ogni giudizio sulla presidenza USA, l’evocata immagine del camuffamento tocca un problema drammaticamente reale, più per l’Europa che per gli interessi dell’export americano, che all’America appartengono.

Nella fase di trattativa per l’ingresso della Germania nella moneta unica un certo peso politico non può non averlo avuto anche l’esigenza di consentire a quest’ultima di portare a compimento, anche economico, il progetto della propria unificazione. È un fatto che può essere considerato ovvio e politicamente comprensibile.

Meno ovvio e meno noto è invece il retroterra teorico che regge l’intera impresa dell’unificazione economico-monetaria europea. Ci si riferisce agli assunti della celebre teoria delle aree valutarie ottimali, formulata da Robert A. Mundell già nel 1961 sulle pagine dell’American Economic Review. In estrema sintesi, la teoria di Mundell individua una serie di fattori macroeconomici il cui concorso determina la possibilità di definire un’area in cui sia realizzabile un’unificazione monetaria senza conseguenze traumatiche. I fattori in questione sono: forti scambi commerciali; mobilità dei fattori di produzione e, in particolare, dei lavoratori e del capitale; mercati finanziari integrati; coordinamento fiscale. È facile rilevare la coincidenza sostanziale tra questi fattori e molti elementi costitutivi dell’ordinamento europeo, a partire dalle quattro libertà fondamentali.

Il punto critico di un simile sistema è rappresentato evidentemente dall’introduzione di una politica monetaria unica a fronte di una pluralità eterogenea di economie reali, con il conseguente rischio di “shock asimmetrici” (oggi ben visibile nei due estremi di Germania e Grecia).

Di qui la ricerca di convergenza tra le economie degli Stati membri, attraverso le politiche di coesione ed i fondi strutturali.

Ora, tutto ciò non dovrebbe costituire un grande problema politico in uno Stato nazionale, ancorché federale, nel quale per definizione il “sistema dei bisogni” è già stato superato e trasceso (e non ingenuamente negato) nella dimensione dell’eticità (per usare i celebri concetti hegeliani).

Dove ciò invece non sia avvenuto, la cieca necessità del sistema dei bisogni ingenera un ragionamento disintegrativo: se il beneficio economico si trasforma in un danno economico, per quale ragione unire gli interessi nazionali in un comune destino? È un interrogativo che costantemente incombe sul dibattito politico europeo.

La naturale risposta a tale interrogativo dovrebbe rinvenirsi nel semplice richiamo ad un principio di solidarietà, richiamo che si fa tuttavia impensabile là dove ancora non sia scoccata alcuna scintilla costituente (sappiamo quanto controversi e difficoltosi siano, soprattutto nel tempo del materialismo e del post-materialismo, i dibattiti intorno al demos europeo, alle radici europee, etc.).

Fintanto che lo spirito europeo non sarà riuscito ad avere ragione del sistema dei bisogni e del suo moralismo stizzoso, il progetto di unificazione politica dell’Europa resterà del tutto dipendente da quello della sua unificazione economico-monetaria.

Nell’attuale stadio del processo di integrazione, l’Unione economica e monetaria, che potremmo definire la “costituzione economica” europea, diviene pertanto la “vera” costituzione, quella decisiva.

Ben si comprendono allora le misure non convenzionali della Banca centrale europea, custode dell’Unione monetaria, anche dove possano apparire ultra vires. Draghi custodisce l’oro dimenticato, che dà il potere ma al contempo distrugge la virtù. La Germania dovrebbe rammentarlo più spesso, e rammentare anche il veleno che portò Thorin alla follia. Il contributo tedesco è fondamentale affinché il sistema dei bisogni sia superato: e non potrà esserlo dalla sola austerità (che non esce dalla sua logica) ma piuttosto dall’anima europea, che dorme dimentica della sua sconfinata storia di civiltà e di potenza simbolica.

Nel 1992, in un libro dall’eloquente titolo Il ritorno della Germania, Saverio Vertone scriveva: «In Germania, è bastato un anno di unità perché, oscurato l’orizzonte economico, si oscurasse anche quello psicologico. […] con l’aumento del tasso di sconto e l’imposizione (di fatto) alla Cee del riconoscimento della Slovenia e della Croazia, sono ricomparsi, nel silenzio universale, i segni della egemonia. I quali dimostrano che non avremo, con ogni probabilità, una Germania europea, ma un’Europa tedesca. I panzer, questa volta, non c’entrano. C’entrano il marco e le banche. Sarà un dominio educato, soffice, discreto, ma sarà dominio, perché tutto lascia prevedere che, dopo aver negato per ben due volte (e giustamente) alla Germania il suo turno di comando nel vecchio continente, la storia questa volta si sia decisa a concederglielo».

Da parte nostra confidiamo che il destino dell’Europa, e della Germania, non siano ancora scritti.

Paolo Costa

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