Questa settimana, l’attenzione mediatica degli italiani è stata assorbita dall’ennesimo volo pindarico del Movimento 5 Stelle[1] che da partito anti-europeista ha cercato in maniera piuttosto rocambolesca di allearsi con il gruppo ALDE, liberali europeisti[2]. Tentativo che, nella sua narrazione giornalistica, ricorda molto quelli fatti da Fantozzi (interpretato nel nostro caso da Grillo) verso la Signorina Silvani “Miss quarto piano”; tentativi tutti falliti che lo riportano tra le braccia impietosite di sua moglie Pina (Farange). Su un versante geograficamente, e volendo anche politicamente, opposto, si sono mosse pedine ben più interessanti e significative per la politica estera italiana e regionale in generale.
Due sono le novità sostanziali che hanno riguardato la sponda sud del Mediterraneo: la prima è la mossa di Gentiloni di mandare il ministro dell’Interno Marco Minniti a negoziare con il Leader libico al-Serraj un accordo per arginare la partenza di migranti dalla Tripolitania e la seconda è la nomina del consigliere sul Medio Oriente di Trump.
Nel primo caso, l’ex ministro degli Affari Esteri e oggi Premier, Paolo Gentiloni, ha ben compreso il fallimento della politica estera in Libia del governo di cui lui stesso ha fatto parte e ha deciso un importante cambio di rotta in politica estera inviando l’uomo forte (e uno dei pochissimi “esperti”) del suo governo a negoziare con la Libia di al-Serraj circa una questione fondamentale di sicurezza nazionale che oramai riguarda anche lo Stato dal didentro. La negoziazione ha portato alla riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli, a un rinnovo del sostegno di Roma a al-Serraj e a un accordo di massima sul contenimento delle partenze dalle acque territoriali della Tripolitania verso le nostre. Non a caso si utilizza il termine Tripolitania in quanto la Libia al momento è divisa sotto diverse sfere di controllo politico e quella di al-Serraj, ammesso che esista, si estende sul territorio della Tripolitania – sebbene non la comprenda tutta e, per dirla tutta, anche il controllo della stessa capitale risulta al quanto faticoso al governo in carica. Una buona mossa questa soprattutto alla luce dell’insostenibilità della politica dell’accoglienza incondizionata soprattutto davanti ai muri, fisici e politici, costruiti dalle altre cancellerie europee. Per quanto riguarda l’altra sponda dell’Atlantico, un’altra importante pedina di Trump ha trovato il suo spazio: il neo-presidente ha nominato suo genero, Jared Kushner, come consigliere su commercio e Medio Oriente. Dunque, ex militari e uomini d’affari (possibilmente legati alla sua famiglia o alle sue imprese) nella composizione del suo entourage. Certo, sulla carta, rispetto al suo predecessore Robert Malley il calo di livello è evidente, ma bisognerà vedere chi fattualmente si occuperà della politica estera di Trump in Medio Oriente. L’unica cosa intuibile è che, essendo Kushner un imprenditore edile, per Trump, probabilmente, la pacificazione del Medio Oriente (e di tutto il Mediterraneo) passa dalla sua ricostruzione – in senso letterale questa volta – attraverso le giuste alleanze, se per “giuste” si intende quelle alleanze che possono contare su un più efficace controllo del territorio (militarmente, dunque). Impossibile dire se questa strategia sarà peggio rispetto a quella della Clinton; sempre in maniera del tutto teorica e priva dei riscontri fattuali che solo il tempo potrà dare, si potrebbe anche sostenere che è preferibile la strategia della ricostruzione negli interessi di qualche grossa impresa a quella della distruzione nei disinteressi di chi vive ma, in ogni caso, si tratta di valutazioni scevre da qualsiasi tipo di valutazione in senso umanitario (o, stricto sensu umano). Comunque non è da escludere neanche che quest’ultima strategia (quella della distruzione – sempre ammesso che si possa parlare di strategia) sia poi funzionale o comunque causa diretta della prima.
A pochi giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca e dopo poche settimane dall’insediamento del governo Gentiloni, il 2017 assume da subito una sostanziale discontinuità con l’anno precedente soprattutto per quanto riguarda le relazioni politiche all’interno dell’area mediterranea. Le questioni fondamentali da tenere sotto controllo in questo primo periodo dell’anno sono la politica estera americana nel nostro tradizionale “giardino di casa” e la politica del ministro dell’Interno Minniti nella medesima area, avendo sempre sullo sfondo della questione libica la cooperazione militare russa con Haftar (reggente del governo di Tobruk), “cavallo” opposto rispetto a quello su cui ha scommesso Roma. Una nota di chiusura: fa pensare che il ministro degli Affari Esteri sia sostanzialmente disimpegnato dalla politica estera su questo quadrante per lasciare posto a quello dell’Interno; potrebbe dire due cose: voler sfruttare l’esperienza di Minniti nel campo dell’intelligence – aspetto fondamentale in questo genere di situazione politica, esperienza che, per altro, manca completamente ad Alfano – e che le questioni che riguardano lo scacchiere mediterraneo, così come accennato prima, fanno parte oramai del dominio della nostra sicurezza nazionale e non solo di quello della politica estera.
Marcello Ciola
[1] Non ultimo quello sulla questione dei flussi migratori: dalla politica della porta aperta all’insostenibilità del
[2] Di cui, per altro, ha fatto parte anche il tanto caro ai filorussi e euroscettici Giulietto Chiesa – d’altronde, per i più avvezzi alla politica europeista dell’ALDE e, in particolare del leader Verhofstadt, è comprensibile come questo sia un tentativo ben riuscito per indebolire il fronte “euroscettico”.