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IL RUOLO DI VENEZIA NELLA STORIA DEL MONTENEGRO E NELLA SUA SCELTA EUROPEA. Di Tommaso Giancarli (atti online del Convegno “Dalla Guerra alla Pace nell’Adriatico: 1914-2016)

KOINE’ ADRIATICA 3 – MONTENEGRO – CATTARO, 28/9/16

Festival “Le giornate aperte della Scienza 2016”
Convegno scientifico internazionale

“DALLA GUERRA ALLA PACE NELL’ADRIATICO:  1914 – 2016”

28 settembre 2016, Kotor, Montenegro

PUBBLICAZIONE DEGLI ATTI ON LINE a cura di IDENTITA’ EUROPEA (www.identitaeuropea.it)

CONTRIBUTO N° 2

Il ruolo di Venezia nella storia del Montenegro e nella sua scelta Europea

Premessa teorica e cenni  metodologici.

La mia relazione, il tema che ho deciso di presentare per questo convegno, è in buona parte ancora un’ipotesi di lavoro: da un lato lo è perché la mia ricerca è agli inizi (si tratterà, io credo, di una ricerca piuttosto lunga, e sicuramente vasta, tra fonti variegate e molto sparse); dall’altro perché molto di ciò che ho intenzione di indagare, e che presenterò in questa relazione, ha a che fare con i pensieri, le mentalità, le scelte recondite – anche inconsce – delle persone. Si tratta, insomma, di indagare un mito e un lascito; d’altronde sono spesso questi miti e questi condizionamenti a determinare le scelte e le azioni degli uomini. In questo senso, si tratta di un argomento  del  tutto storico, dato che in fondo la storia è la chimica degli esseri umani, per così dire: ossia la disciplina che studia come sono fatti gli esseri umani e che aiuta a capire come e perché agiscono.

Più precisamente, ciò che voglio stabilire è se esista una versione attuale e contemporanea del Mito di Venezia, in Montenegro, e quale sia, nel caso, il suo significato futuro, quanto, come detto, a determinare le scelte e le azioni delle persone. Sarà importante, per lo studio di questa questione, un confronto puntuale con una terra come la Croazia, che presenta caratteristiche storiche, sociali e “etniche” simili. Vedremo dunque attraverso vari periodi cosa è accaduto o piuttosto non è accaduto in Montenegro e vedremo che significato dare a questi avvenimenti.

Il mito e il ruolo di Venezia: un breve riepilogo.

Che cosa sia il mito di Venezia nelle terre balcaniche è un argomento che  non abbiamo il tempo di trattare oggi e che d’altronde credo sia ampiamente noto a tutti i presenti1. Basterà dire, in estrema sintesi, che tale mito trae origine da diversi fatti storici, sia pure trasfigurati in varia misura: la giustizia  di Venezia, che è vista come potenza protettrice dei propri cittadini  dall’arbitrio dei nobili e dei potenti e, per citare un vescovo balcanico, come “rettissimo dominio, esemplare di ogni più venerabile libertà” (è il vescovo bulgaro Petar Parcevič, nel 16732). Questo giudizio, che è tutto sommato valido per tutto il dominio veneto – basti pensare al sentimento filoveneziano delle plebi venete e lombarde, che è plurisecolare e dimostrato dal 1509 al 17973 – si somma, per quanto riguarda i Balcani, ad altri giudizi più specifici: da un lato Venezia è la potenza sotto le cui bandiere, nella guerra di Candia, Morea e non solo, hanno combattuto gli hajduk. Venezia è per secoli l’antemurale della cristianità contro i turchi nei Balcani e le terre governate e difese da San Marco sono quelle in cui si può rifugiare quel fiume che fugge dai Balcani4; sotto Venezia e combattendo per Venezia, soprattutto, si forma la prima rudimentale coscienza di popolo, se non proprio di nazione, di quei popoli5. È scegliendo Venezia che i popoli slavi dell’entroterra balcanico, almeno quelli più a ridosso del confine e che hanno la possibilità di emigrare e di cambiare bandiera, fanno la prima consapevole affermazione di sé e  della  propria  identità.  Ed  è  infine  Venezia  a  garantire,  pur  nella sua decadenza e nell’approccio sostanzialmente imbelle degli ultimi decenni, un secolo di pace e di sviluppo economico, che verrà poi largamente mitizzato e che resterà molto a lungo nella memoria degli ex sudditi6.

Questo discorso vale un po’ per tutto il territorio balcanico, o per meglio dire adriatico-orientale, della Repubblica; ma vale in particolare, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo economico del Settecento, per il Montenegro, o meglio per le Bocche di Cattaro, come evidenziato dal professore e ambasciatore Sbutega in diversi suoi interventi, in particolare in quello nella conferenza di Venezia del novembre 2012, e nel suo fondamentale volume sulla storia del Montenegro7. C’è da aggiungere inoltre che è proprio nel Settecento, e dunque sotto il dominio stabile e universalmente riconosciuto e accettato di Venezia, che l’Europa “scopre” la Dalmazia, per usare la definizione assai azzeccata di Larry Wolff8. C’è dunque un legame sia interno che esterno tra l’identità degli abitanti dei Balcani e la repubblica di Venezia, sia per come questi si definiscono, sia per come costoro vengono percepiti all’esterno dall’intellighenzia illuminista e ottocentesca dell’Europa occidentale. Venezia e il suo ex territorio balcanico costituiscono insomma un insieme riconosciuto, stabile, e visto da tutte le parti come ottimo. Il monaco francescano e poeta croato Andrija Kačić Miošić arriva a parlare verso la metà del Settecento di «onorato, tranquillo e paradisiaco stato, nel quale ci troviamo sotto lʼala del nostro Serenissimo Principe9». La definizione è forte, ma dice molto sul clima diffuso non più solo tra gli strati popolari e sulla creazione di un mito. D’altronde un’altra prova della persistenza di un mito e della sua intoccabilità è la politica notoriamente molto rispettosa dell’eredità veneta che fu perseguita per tutto l’Ottocento, e parzialmente anche fino al 1914, dall’Impero Asburgico, che volle presentarsi come erede e continuatore della Repubblica, rispettandone i simboli e le sensibilità. Venezia è insomma un mito positivo, ancora nell’Ottocento, per tutti: per la popolazione ex  suddita, sia nell’attuale Croazia (e Slovenia) che in Montenegro, per le nuove autorità, per gli osservatori esterni.

Un fatto, tipicamente montenegrino, va forse riaffermato: in Montenegro uno stato locale, o quantomeno un’entità autonoma e quasi indipendente, è stata resa possibile solo grazie all’aiuto, all’influenza, all’esempio di Venezia e al costante interscambio con i suoi domini bocchesi 10 . Questo farà forse un’enorme differenza rispetto alla Croazia, dove non nasce un potere locale.

La  rottura  dell’unità dell’Adriatico.

A un certo punto dell’Ottocento le cose cambiano. Il  dominio  veneziano aveva di fatto unito l’Adriatico: è pur vero che non tutto l’Adriatico era dominato da Venezia, ma non esisteva comunque una civiltà o uno stato nemico su quelle acque. Anche il legame tra Ragusa e Ancona, che pure fu a lungo concorrente (almeno sul piano economico) di San Marco, rientrava comunque in una medesima civiltà, in un medesimo modo di pensare, parlare, agire, in sostanza in quella koinè descritta dal professor Graciotti e  da molti altri  studiosi con lui. Questa civiltà era sostanzialmente disinteressata dei fattori etnici e non aveva alcun afflato di assimilazione: questo fece sì che in essa si riconoscessero italiani e slavi, cattolici e ortodossi 11 . Ma l’unificazione italiana, e in particolare la terza guerra d’indipendenza con il primo tentativo di portare le conquiste del nuovo regno anche sull’Adriatico orientale, spezza quell’unità culturale. La colpa, se di colpa si può parlare, è dell’irredentismo italiano, che utilizza per la prima volta il lascito di Venezia (in ambito culturale, urbanistico, ecc.) come prova dell’italianità della lunga striscia di terra sull’Adriatico orientale12. Si dice e si considera per la prima volta negli anni di Lissa, nonostante l’ironia di una battaglia vinta dall’Austria grazie alla sapienza marinara dei suoi sudditi ex veneti (e all’incompetenza degli italiani) che ovunque ci sia il segno di Venezia là è terra italiana. È un discorso che abbiamo sentito fare molte  volte, in diverse salse, da qualsiasi nazionalismo. Ma declinato in  quell’ambito significa che la strumentalizzazione da parte italiana, o per meglio dire nazionalista, porta la maggioranza slava a diffidare di tutto ciò  che è Venezia e che prima era amato in maniera incondizionata; i simboli che fino ad allora avevano unito la costa e la Dalmazia e ne avevano rappresentato l’identità contro l’entroterra arretrato e barbarico diventano invece gli strumenti di una minaccia esterna, che vuole cancellare la plurisecolare ricchezza e diversità dell’Adriatico, mutandolo in un lago  italiano. Quando era sempre stato, nel suo lato orientale, un lago a maggioranza slava ma profondamente innamorato di Venezia e certo, attraverso lei, dell’Italia; ma di una cultura italiana pacifica, portatrice di bellezza e prosperità e non certo conquistatrice. Dopo Lissa la lotta politica  fra autonomisti, divenuti di fatto irredentisti, e fautori dell’unità fra Dalmazia  e Croazia assume tratti molto aspri, che non conosce più terreni comuni: lo scontro culturale è totale e la storia è uno dei punti centrali di questo scontro13. Quello che è per gli italiani o filoitaliani il lascito di civiltà di Venezia è per i nazionalisti croati l’oppressione secolare o addirittura un colonialismo ante litteram. Italiani e croati sanno bene e vedono con chiarezza che l’Impero asburgico ha i decenni contati e che presto le singole nazionalità dovranno spartirselo; quella fra loro diventa dunque una lotta a chi si impossessa prima e definitivamente delle terre contese, una lotta che ha come regola principale la negazione e poi la distruzione di tutto ciò che testimonia la presenza della nazionalità nemica.

Ma quello che interessa noi è la mancanza di questa dinamica in  Montenegro; le Bocche di Cattaro sono a dire il vero rivendicate come italiane dagli irredentisti, ma le diverse condizioni sociali politiche – l’esclusione dal Regno di Dalmazia, la minore consistenza della minoranza italiana, la sostanziale solidarietà fra Montenegro e Bocche di Cattaro, che fa sì che anche i cattolici della costa guardino più alla riunificazione con Cettigne piuttosto che all’annessione a un Regno di Croazia o a una nuova entità degli slavi del sud, spiegano come lo scontro fra italiani e slavi qui, in sintesi, non accada14. E questo di conseguenza spiega il permanere del mito di Venezia per tutto l’Ottocento e oltre; l’età dei nazionalismi non rovina l’immagine della Serenissima in Montenegro, per mancanza di un reale punto di scontro fra italiani e slavi e perché questi ultimi andavano già sviluppando un’identità che sarà poi quella montenegrina, e che, se non è coincidente con quella veneta o filoveneta di un secolo prima, pure non ha elementi di rottura reali con essa e non vuole rimuoverne la memoria.

Le due guerre  mondiali.

La non conflittualità tra Venezia e la rinascita nazionale degli slavi  dura ancora a lungo in Montenegro e si può sostenere, crediamo, che sopravviva perfino a quel momento di resa dei conti fra opposti nazionalismi adriatici che è la prima guerra mondiale e in particolare la sua fine. Com’è noto una delle principali ragioni dell’entrata in guerra dell’Italia è la volontà di impadronirsi del maggior spazio possibile sull’Adriatico orientale; e questa è anche la motivazione della strenua resistenza di un esercito austro-ungarico largamente slavo sul fronte italiano. Con la sconfitta e la dissoluzione dell’Impero, ad ogni modo, l’Italia sembra sul punto di occupare tutta la costa dalmata; la corsa italiana alla conquista dell’Adriatico viene legittimata, anche pubblicamente, con un presunto diritto all’eredità di Venezia. I leoni di San Marco di tutta la Dalmazia, dice tra l’altro D’Annunzio, non attendono altro che la liberazione da parte dell’esercito e della flotta italiana. La retorica dannunziana si fa poi anche pratica quando il Vate guida l’occupazione di Fiume e tuona dal municipio della città, nel giugno 1920: “Tutti i leoni dell’Istria […] tutti i leoni di Dalmazia, da Zara, da Sebenico, da Traù, da Curzola, da Ragusa, da Cattaro, tutti dalle muraglie, dalle porte, dalle torri, dalle logge, dalle castella, dalle podesterie, tutti oggi guatano a Fiume. È la riscossa dei leoni […]. È la riscossa della potenza veneta”15.

Non sorprende perciò che in tale clima, e con la flotta italiana padrona dell’Adriatico e truppe di occupazione in varie parti della costa, gruppi di vandali e nazionalisti croati (più o meno spalleggiati dalle autorità jugoslave, anche se mai apertamente appoggiati) abbiano reagito accanendosi sui leoni di San Marco, come simbolo primo di Venezia. E in tutto il biennio 1918-1920 quello della distruzione dei leoni è un momento ricorrente della protesta o della polemica anti-italiana in Croazia, come risposta diretta a una minaccia  di occupazione o come sfida aperta e riaffermazione della “slavità” di quelle terre16.

Ma in Montenegro tutto questo non succede. Né deve stupire: nel 1918 e negli anni successivi i montenegrini non temono certo l’occupazione italiana, immersi come sono nell’annessione forzata alla Jugoslavia che diventa ben presto una guerra civile. Cito di nuovo il prof. Sbutega, il quale ci ha informati del carattere etnico e geografico della lotta tra bianchi e verdi: gli indipendentisti sono particolarmente forti nel Vecchio Montenegro, appena sopra le Bocche17. E dato che gli italiani sono semmai alleati – sia pure in maniera prudente e limitata – dei cosiddetti verdi, appare molto improbabile che il sentimento anti-italiano fosse presente tra la popolazione di quelle zone. E dunque, assente quello, non poteva svilupparsi come in Croazia una leontofobia o un altro genere di rifiuto e di distruzione dell’eredità veneziana. In effetti l’unico episodio di rimozione di un leone di San Marco in Montenegro in quegli anni sembra essere accaduto a Castelnuovo-Herceg Novi negli anni Venti, quando un leone fu spostato dalle mura cittadine al circolo degli ufficiali e poi al locale museo 18 . Come si vede, anche qui si tratta più di un occultamento che di una distruzione (come invece in quegli anni accadeva spesso in Croazia; vedi in particolare i fatti di Traù del 193219), e non a caso essa può avvenire solo nella città ancora oggi più “serba” delle Bocche (ovviamente l’ironia della storia sta nel constatare che tale maggioranza serbo-ortodossa è stata resa possibile proprio dalla  conquista  veneziana della città occupata dai Turchi).

In ogni caso, che sia per la presenza parzialmente filo-italiana dei Verdi o per la lontananza della minaccia imperialista italiana e la minima dimensione  delle comunità “irredente”, il Montenegro durante il regno di Jugoslavia non pare registrare nessuna evoluzione anti-veneziana o anti-italiana.

Ci vorrà, per ottenere un risultato del genere, tutta la stupidità del regime fascista, il quale, dopo l’invasione e spartizione nazifascista della Jugoslavia, dapprima si illude di poter governare il Montenegro come uno stato fantoccio, poi si abbandona a una repressione brutale e cieca dell’insurrezione nazionale. E d’altronde, se è vero che gli italiani avevano occupato il Montenegro con la speranza di avere collaborazione dai locali, è anche vero che furono subito consci dei gravi errori commessi e delle umiliazioni inflitte ai montenegrini, come si legge anche nei diari di Serafino Mazzolini, il reggente italiano per un re che non arrivò mai20. Responsabilità politiche a parte, è indubbio che l’occupazione criminale di una terra orgogliosa e bellicosa come il Montenegro non poteva che provocare risposte nazionali e nazionaliste; ma di nuovo bisogna distinguere fra quanto accaduto in Montenegro, dove ad esempio i partigiani distrussero il leone alato all’ingresso di Porta Marina a Cattaro e installarono una stele in onore di Tito e della vittoria dei partigiani21, e la cancellazione sistematica e scientifica che gli ustascia provarono a ottenere in Croazia22. Se in Montenegro si tratta di una reazione a caldo, per così dire, e comunque comprensibile a una violenza e un’aggressione altrui, in Croazia le soldataglie di Pavelić si muovevano secondo un programma studiato e preciso, mirante a eliminare perfino il ricordo di qualsiasi  presenza «straniera» nel Paese. In Montenegro, semmai, gli unici che dimostrarono un vandalismo a sangue freddo contro i simboli di Venezia furono i cetnici, che distrussero nel 1943 la colonna marciana di Perasto23.

E d’altronde non c’è motivo di ritenere che l’occasionale rabbia anti-italiana, espressa anche contro Venezia, sia rimasta a lungo nella mentalità montenegrina, terminata la guerra e l’occupazione. Si può anzi sostenere che l’ingresso di Cattaro nel patrimonio Unesco, nel 1979, abbia ribadito l’importanza del lascito veneziano nell’identità montenegrina e nella sua apertura al mondo; non sembra un caso che nel 1989 si sia voluto ricollocare un leone di San Marco perfino ad Antivari-Bar24, dopo più di quattro secoli dalla caduta della città in mano turca, quasi a voler significare che, tra tutte le diverse componenti della storia e della cultura del Montenegro, Venezia rappresenta la vetrina e il legame privilegiato con l’Europa e il mondo.

Conclusioni

Abbiamo cercato, in queste brevi note, di tratteggiare come in Montenegro –  a differenza che in Croazia – l’antico Mito di Venezia non si sia mai trasformato nell’odio per la dominazione veneta e nella leontofobia che ne è stata la conseguenza pratica, soprattutto per l’assenza di una lotta fra irredentismo italiano e nazionalismo slavo. Ma vediamo adesso anche più rapidamente, visto che esiste e resiste il mito positivo di Venezia, quale  possa essere la sua importanza nel Montenegro presente e futuro. Mi pare intanto che il legame secolare con Venezia, espresso nell’arte, nella storia e nelle forme aggraziate di Cattaro e Perasto, sia per i montenegrini comunemente inteso come la miglior prova del proprio legame, anzi della propria appartenenza all’Europa. E questo è certamente vero; in questo senso, di nuovo, va notata la differenza con quanto accaduto in Croazia,  dove l’ingresso in Europa si è mosso molto di più su note asburgiche e mitteleuropee25. Questo per due motivi: da un lato, la vecchia lotta con il nazionalismo italiano è stata, almeno teoricamente, viva e calda fino a un paio di decenni fa (non dimentichiamo certe posizioni della destra italiana ancora all’epoca delle guerre jugoslave se non oltre), quindi si è forse cercato di non rimarcare troppo certi legami; dall’altro, il centro amministrativo e culturale della Croazia è Zagabria, che non ha mai avuto legami con Venezia, ma che deve agli Asburgo la propria appartenenza all’Europa (senza dimenticare infine i ben noti legami fra mondo germanofono e Croazia/Slovenia all’epoca dell’indipendenza di queste repubbliche26).

In Montenegro, invece, Venezia ed Europa sono sinonimi. Ma bisogna stare attenti, crediamo, a non fare di Venezia un argomento controverso, nel dibattito pubblico montenegrino che è diviso da un secolo quasi a metà, una volta fra verdi e bianchi e poi di recente fra secessionisti e unionisti. Venezia non è infatti patrimonio solo di chi parteggia, per così dire per l’Europa occidentale; Venezia deve appartenere invece a tutti i montenegrini, anche perché Venezia è e rappresenta una propria civiltà ibrida, fiorita ad Occidente ma figlia di Bisanzio e sempre legata all’Oriente. In questo senso la civiltà veneta è un patrimonio comune e un ponte tra i diversi modi di pensare e le diverse mentalità dei montenegrini, che discendono da diverse vicende storiche e da diverse estrazioni sociali, economiche, religiose, ecc. Ma, come notava il professor Valle nella prefazione alla Storia del Montenegro di Antun Sbutega, la diversità dei Balcani è una parte insostituibile della civiltà europea, che è in sé polifonica; e Venezia, una civiltà costituita dall’incontro  di due o più mondi, è il miglior biglietto da visita di un paese come il Montenegro che trae la propria ricchezza dalla propria diversità, ma che resta tutto e orgogliosamente europeo.

Tommaso Giancarli

1 Per una breve trattazione sul tema da parte mia, vedi T. GIANCARLI, “«La più religiosa, e la più giusta Repubblica del mondo»: l’attrazione veneta sui Balcani turchi nel XVII secolo”, in “Atti e memorie della società dalmata di Storia Patria”, Venezia, n. 10, XXX, luglio 2010.

2 Citato da J. JERKOV, Venezia come “rettissimo dominio esemplare di ogni più venerabile libertà” tra gli slavi balcanici del XVII secolo, in S. GRACIOTTI (a cura di), Mito e antimito di Venezia nel bacino adriatico (secoli XV-XIX), Roma 2001, p. 245.

3 Cfr. inter alia F. C. LANE, Storia di Venezia, ed. it., Torino 1978, p. 287.

4 M. JAČOV, Le guerre veneto-turche del XVII secolo in Dalmazia, in “Atti e Memorie della Società Dalmata di Storia Patria”, vol. XX, Venezia 1991.

5 Oltre al mio contributo citato in nota 1, si veda S. GRACIOTTI (a cura di), Op. cit.; e, per testimonianze d’epoca da parte degli stessi hajduk che stavano combattendo per Venezia, M. MILOŠEVIĆ (a cura di), Hajduci u Boki Kotorskoj. 1648-1718, Titograd, 1988.

6 Si legga F. VISCOVICH, Storia di Perasto (raccolta di notizie e documenti), dalla caduta della Repubblica Veneta al ritorno degli austriaci, Trieste, 1898, di un discendente di una nobile famiglia perastina che aveva avuto un ruolo importante durante la Repubblica.

7 A. SBUTEGA, Storia del Montenegro. Dalle origini ai giorni nostri, Roma, 2007, p. 205 e ss.; la  conferenza

di Venezia, per quanto ne sappiamo, non ha prodotto atti, ma l’intervento del professor Sbutega può essere visionato su internet.

8 L. WOLFF, Venezia e gli slavi. La scoperta della Dalmazia nell’età dell’Illuminismo, ed. it., Roma, 2006.

9 Affermazione citata da S. GRACIOTTI, L’”homo Adriaticus” di ieri e quello di domani, in N. FALASCHINI, S. GRACIOTTI, S. SCONOCCHIA (a cura di), Homo Adriaticus. Identità culturale e autocoscienza attraverso i secoli. Atti del convegno internazionale di studio. Ancona, 9-12 novembre 1993, Reggio Emilia, 1998, pp. 18-19.

10 “La presenza di Venezia sul litorale fu importantissima anche per la storia della parte continentale del Montenegro. Gran parte del commercio e praticamente tutti i legami culturali con l’Europa, anche quelli con la Russia, si svolgevano attraverso i territori veneziani. Venezia era stata per secoli l‘unica potenza cristiana presente nella regione, alleata nelle guerre contro i turchi e disponibile a offrire aiuto militare, politico ed economico oltre che rifugio durante le incursioni ottomane. Grazie alla Repubblica, nel Vecchio Montenegro, cioè nell’insieme dei territori confinanti con quelli veneziani, si era sviluppato il nucleo di uno stato dove Venezia aveva istituito il primo potere civile, rappresentato dai governatori, cosa che fu essenziale per lo sviluppo dello stato montenegrino”: A. SBUTEGA, op. cit., pp. 230-231.

11 Il croato J. HORVAT, citato da LJ. ŠIMUNKOVIĆ, La politica linguistica della Serenissima verso i possedimenti “di là da mar”: il caso della Dalmazia, in S. GRACIOTTI (a cura di), op. cit., p. 97, sintetizza: “Non imponendo nuove riforme, non avendo cura della vita intima dei sudditi, Venezia ha consentito che la popolazione restasse primitiva, se il suo sviluppo venga misurato con il criterio contemporaneo  del progresso economico, ma ha conservato la sua identità, la sua lingua, le sue usanze, i suoi principi: la sua manifestazione spirituale è rimasta intatta”. Da una posizione opposta (vicina al nazionalismo italiano) G. PRAGA, Storia della Dalmazia, Padova, 1954, p. 217, raggiunge conclusioni simili.

12 A. RIZZI, Tra leontofilia e leontofobia: il leone di S. Marco e la Questione Adriatica, in N. FALASCHINI,  S.

GRACIOTTI, S. SCONOCCHIA (a cura di), Op. cit., pp. 397 e seguenti.

13 Ibidem.

14 A. SBUTEGA, Op. cit., pp. 328 e ss.

15 A. RIZZI, Tra leontofilia…, cit., p. 398.

16 A. RIZZI, I leoni di Venezia in Dalmazia, Venezia, 2005.

17 A. SBUTEGA, Op. cit., p. 365.

18 A. RIZZI, I leoni di Venezia…, cit., pp. 117-118.

19 A. RIZZI, Tra leontofilia…, cit., p. 400 ss.

20 G. S. ROSSI, Mussolini e il diplomatico. La vita e i diari di Serafino Mazzolini, un monarchico a Salò,

Soveria Mannelli, 2005, pp. 104-105.

21 A. RIZZI, I leoni di Venezia…, cit., p. 123.  22 A. RIZZI, Tra leontofilia…, cit., pp. 404-406. 23 A. RIZZI, I leoni di Venezia…, cit., p. 189.

24 A. RIZZI, Tra leontofilia…, cit,, p. 407.

25 Sul tema, da studente universitario, ho avuto l’opportunità di ascoltare una riflessione intelligente e colta del professor Slobodan Prosperov Novak, in occasione forse della presentazione di un libro. Purtroppo tale riflessione non è mai divenuta un saggio o un articolo pubblicato.

26 Vedi, per esempio, J. PIRJEVEC, Le guerre jugoslave, 1991-1999, Torino, 2001.

 

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