ALLE RADICI DELLA CONCEZIONE CRISTIANO-ROMANA, QUINDI EUROPEA, DEL POLITICO – PARTE PRIMA
Una fede che deresponsabilizza?
E’ capitato in un convegno di studi storici sull’Europa, in quel di San Marino, in estate, che un professore di storia romana, nell’intento di esaltare la romanità contrapponendola alla cristianità – la prima gloriosa, la seconda decadente –, ha dichiarato che la concezione politica elaborata nel contesto romano fosse fondata sull’assunzione da parte di chi governava della responsabilità civile verso i governati, laddove invece il Cristianesimo, affermando che il fondamento del Politico è nella Trascendenza, avrebbe in sostanza delegato ogni responsabilità a Dio, deresponsabilizzando, di conseguenza, l’uomo e, quindi, rendendo irresponsabili i governanti verso i sottoposti.
L’esegesi avanzata da questo “sapiente del mondo” potrebbe essere pari pari rivolta anche contro Platone, che pure era un pagano.
Ma davvero riporre il fondamento ultimo del Politico nel Dio trascendente deresponsabilizza l’uomo ed apre le porte alla decadenza civile? O piuttosto non è vero il contrario ossia che porre sulle deboli spalle dell’uomo il fardello del Politico significa da un lato esaltarne l’alterigia e la fame di potere e dall’altro preparare la via al fallimento dei progetti politici chiusi nel solo orizzonte immanente?
In realtà la convinzione che alla fine della nostra vita saremo giudicati dall’Amore assoluto, che dovremo rendere il conto dei talenti concessici e di come li abbiamo usati, non è affatto una prospettiva deresponsabilizzante. Al contrario è tremendamente responsabilizzante. Ci responsabilizza di fronte a Dio e, di conseguenza, di fronte al prossimo. Se falliamo la prova saremo perduti per sempre.
Questa convinzione, laddove agisce nella profondità del cuore, trasforma anche chi è investito del potere. Il problema sta piuttosto nel fatto che, nel corso delle vicende della vita di ciascuno come di quelle della storia, una tale convinzione ha trovato troppo poco e vero spazio nell’intimo degli uomini. Non esclusi, anzi immediatamente ricompresi, i sovrani di ieri, re e principi, e di oggi, popoli, ministri e deputati. Ma anche gli attori dell’economia: imprenditori, sindacalisti, banchieri, lavoratori.
La storia, tuttavia, conosce episodi, esattamente quelli che poi generano svolte storiche capitali, che testimoniano come l’idea del dover rendere conto del proprio operato, non in primis agli uomini ma al Creatore, abbia avuto un potenziale di cambiamento interiore con manifestazioni e conseguenze esteriori importanti.
Cristo a Roma
I secoli tra il V ed l’VIII sono stati quelli tra i più difficili per l’umanità europea. Erano quelli di cerniera tra la romanità ormai decadente ed una nuova civiltà cristiana che andava facendosi strada ma era ancora lungi dalla sua maturazione. Si trattò di secoli di guerre, invasioni, migrazioni di popoli, decadenza economica, scismi e lotte religiose e politiche furibonde. Nella stessa Chiesa non mancavano affatto le contrapposizioni tra papi ed antipapi, il dilagare di eresie ed anche delle violenze “squadristiche” interne. Si trattava di una Chiesa ormai vincente sulla paganità avendone, però, recuperato il meglio ossia quanto la Provvidenza vi aveva a suo tempo immesso nella prospettiva della “propaideia Christou”. Una Chiesa tuttavia agonisticamente impegnata a conservare la sua autonomia dai nuovi poteri “barbarici”.
In quei secoli sembrava che la grande cultura dell’eredità ellenistico-romana non avesse più nulla da dire e fosse destinata ad una repentina scomparsa, mentre il Cristianesimo, non solo nelle campagne ma anche nelle città, faticava a penetrare per davvero nei cuori contrastato da un paganesimo sempre più decadente ma resistente nelle sue forme ridotte a superstizione popolare e dai culti misterici intrisi di gnosi neoplatonica.
Della eredità classica non sarebbe in effetti rimasto granché se non fosse stato per l’opera di salvataggio messa in atto, senza che tuttavia fosse questo il suo scopo principale ed essenziale, dal monachesimo. Lo stile di vita monastico era stato inaugurato nell’Oriente cristiano, dai grandi Padri dei primi secoli, e successivamente importato anche nella pars occidentalis dell’impero romano al tramonto.
La stagione delle persecuzioni fu un sostanziale e luciferino equivoco perché esse non furono decretate dal potere romano, diciamo così, tradizionale quanto piuttosto da un potere imperiale che aveva subito una trasformazione in senso sempre più “assolutistico” secondo i modelli della sovranità orientale. I cristiani, infatti, non avevano aspettato il riconoscimento da parte di Costantino della loro fede quale religio licita per guardare all’impero romano nei termini di un’opera provvidenzialmente sostenuta da Dio per unire i popoli in vista dell’Incarnazione del Suo Verbo e dell’universale salvezza del genere umano onde permettere in Cristo l’ingresso dei pagani nell’Alleanza abramitica.
Roma per i cristiani non fu mai la “Babilonia” dell’Apocalisse, come troppo spesso, contrariamente alle fonti storiche, ritiene l’immaginario poco informato degli stessi cristiani di oggi. L’idea di una contrapposizione tra romanità e cristianesimo deriva dal successivo influsso protestante. E’ stato, infatti, Lutero ad additare la Roma papale quale sede dell’Anticristo e da qui nacque l’idea, acriticamente accettata in un forma retrospettiva anche da molti cattolici, dell’inevitabile scontro sin dagli inizi tra fede cristiana e romanità. In realtà, nei primi secoli, solo alcuni marginali gruppi radicali, appunto anche in tal caso in odore di eresia e che mai appartennero per davvero alla prospettiva cristiana, avanzarono una pretesa di opposizione della Fede in Cristo alla Roma dei Cesari portatrice dell’eredità ellenistica. Al contrario la prospettiva cristiana, con Pietro e Paolo, invitava al rispetto ed anzi anche alla preghiera per l’Autorità romana, e più in generale per l’Autorità politica, che legittimamente agli occhi di Dio “porta la spada”.
Sappiamo, dagli studi di Marta Sordi (1), che la fede cristiana era già ampiamente conosciuta nella Roma del I secolo, in particolare negli ambienti colti dove era anche ammirata, essendosi essa propagata nell’orbe e fino all’Urbe con una velocità impressionante. Come solo può accadere di una notizia, la Resurrezione di un uomo, inaudita ma talmente vera per l’abbondanza dei testimoni da risultare inarrestabile nel diffondersi, anche se ciò non significava affatto che tutti accogliessero prontamente la nuova fede. Sempre la Sordi ci informa della reciproca simpatia sussistente tra la comunità cristiana di Roma e quella stoica dalla quale proveniva la classe dirigente ed intellettuale romana del tempo, egemone a corte fino alla svolta dell’anno 62. Infatti a seguito di quella svolta anche la comunità stoica sarà duramente perseguitata.
La corrispondenza intrattenuta tra l’apostolo Paolo ed il filosofo stoico Lucio Anneo Seneca – un rapporto ormai storicamente provato – verteva, tra l’altro, anche su quanto andava maturando a danno dei cristiani nella corte imperiale di Nerone (2). Un esempio tipico, quello del principato neroniano, della trasformazione in senso assolutistico-orientale della concezione imperiale romana, anche se gli storici sono divisi circa le effettive responsabilità di Nerone nell’incendio che distrusse Roma nel 64. Sembra piuttosto che nella decisione di additare i cristiani quali responsabili dell’incendio, al fine di allontanare da sé le voci che lo volevano responsabile (3), un ruolo importante lo ebbe sua moglie, l’ambiziosa Poppea, protettrice di Flavio Giuseppe ed adepta di alcuni maestri della sinagoga dell’Urbe. La stessa sinagoga dalla quale Paolo, insieme agli ebrei che avevano accettato Cristo come Messia di Israele, era stato cacciato in malo modo.
Nel 62 Nerone si sbarazza degli stoici di corte ad iniziare da Seneca, il quale è costretto ad uscire di scena per essere sostituito dal feroce Tigellino, sposa Poppea ed imprime una svolta anti-stoica ed anticristiana alla sua politica (4). Ma fino a quel momento l’Autorità romana si era invece dimostrata piuttosto favorevole, se non altro per motivi di ordine pubblico, agli sparuti ed indifesi cristiani di Roma vessati in ogni modo dalla più antica e forte comunità ebraica stanziata, diasporicamente, nell’Urbe. Una presenza quella della diaspora ebraica a Roma molto attiva, ampiamente accreditata ed in stretti rapporti politici ed economici con la popolazione romana e, soprattutto, con molti influenti esponenti della classe senatoriale.
La più recente critica storica ha evidenziato come lo stesso “Editto di Nazareth”, emanato da Nerone anche in tal caso su istigazione di Poppea, segnò, sempre nel 62, la fine della protezione romana anche nei confronti dei cristiani in Giudea perseguitati dalla casta sinedritica ebraica. La tradizionale protezione romana verso i cristiani residenti in Giudea ebbe la sua ultima manifestazione proprio nel 62 con la destituzione del sommo sacerdote Ananos, il quale, approfittando della momentanea vacatio della carica di governatore romano in Palestina, aveva messo a morte l’apostolo Giacomo il maggiore. Con l’Editto di Nazareth, invece, Nerone accredita l’accusa ebraica rivolta ai cristiani di aver trafugato il corpo di Cristo dalla tomba. Un’accusa della quale si fa eco il passo 28, 11-15 del Vangelo di Matteo. Un vangelo, questo, scritto da un ebreo fervente proprio per un uditorio ebraico al fine di convincere i suoi interlocutori che Gesù di Nazareth era il Cristo atteso da Israele. L’Editto neroniano prendeva di mira i profanatori di tombe, con pene durissime, e, contrariamente agli stessi principii della civiltà giuridica romana, era esplicitamente retroattivo ossia intendeva colpire anche i presunti trasgressori che già prima della sua emanazione si fossero resi colpevoli di quanto con esso si proclamava vietato (5).
Benedetto romano e cristiano
La coscienza della non contrapposizione tra fede in Cristo e romanità resistette alla prova delle persecuzioni. In Benedetto, che fece dell’esperienza monastica, ormai diffusasi anche in Occidente, la forza mediante la quale la Chiesa avrebbe attraversato i tempi drammatici della fine di una grande civiltà nella gestazione di un’altra altrettanto grande, quella coscienza era fortemente viva. Era in lui, figlio di antica nobiltà romana sebbene provinciale, profondamente radicata la convinzione che il Cristianesimo sarebbe stato la salvezza dell’eredità romana. Anche per Benedetto, infatti, Roma aveva avuto un ruolo provvidenziale nella preparazione della salvezza delle genti, un ruolo che la svolta neroniana, fino a quella successiva di Costantino, non aveva potuto oscurare. Forse per questo il monachesimo occidentale, come fuoriesce dalla regola benedettina, è fortemente romano e militare nel senso migliore del termine: quello paolino del “vita est militia super terram”.
Non bisogna però pensare alla fede cristiana di Benedetto e dei cristiani di quei tempi come conservatrice sic et simpliciter. Non era a quanto di caduco ancora sussisteva della morente romanità che guardava Benedetto. Egli guardava piuttosto al futuro e sapeva che quel futuro era in Cristo sicché nulla si sarebbe potuto tramandare di Roma se non si fosse usato il discernimento del grano dal loglio lasciando cadere l’inutile e purificando il meglio, quello che la Provvidenza aveva infuso nell’antica civiltà ormai alle spalle. Benedetto non fu un restauratore, non fu un Giuliano apostata né un Giustiniano. Sapeva che l’impero era ormai al tramonto, anzi già tramontato, e che solo la Chiesa si ergeva quale faro anche di civiltà in tempi di arretramento politico, civile, sociale ed economico.
L’epoca di Benedetto
Benedetto era nato a Norcia, intorno al 480. Quattro anni prima Flavio Romolo Augusto, noto come “Augustolo”, ultimo imperatore romano, era stato deposto da Odoacre, il capo degli Eruli-Sciri. Odoacre invece di mettere al suo posto un altro “Augusto” – magari sé stesso o un suo congiunto – aveva restituito a Costantinopoli le insegne imperiali conservando per sé il solo titolo di “patricius romanus”. Fu così inaugurato in Italia il primo regno romano-barbarico che sarebbe stato, poi, travolto dall’invasione dei goti di Teodorico. Il regno di Teodorico e dei suoi successori fu improntato alla ricerca di un modus di convivenza tra popolazione romana ed i nuovi arrivati. L’idea perseguita da Teodorico era quella della fusione delle due popolazioni per la restaurazione della perduta grandezza romana. Questo sogno tuttavia si infranse contro la riconquista giustinianea, ossia bizantina, dell’Italia e di buona parte dell’Occidente romano nella lunghissima guerra greco-gotica dal 535 al 553. Una guerra che devastò la Penisola contesa tra la forte resistenza gota e la volontà di Giustiniano, affidata alle armi dei suoi generali Belisario e Narsete, di riconquistare Roma e l’Occidente. Vinsero i bizantini ma al caro prezzo di accrescere il declino civile e sociale, in atto, dell’Italia romana.
Il futuro eremita di Subiaco, che concluse la sua vita terrena nel 547, assistette allo svolgersi delle vicende del conflitto greco-gotico a Montecassino dove aveva insediato la comunità monastica più nota, insieme a quella subliacense, tra quelle da lui fondate o a lui, alla sua regola, appunto, benedettina, ispirate. Egli, dopo aver studiato a Roma secondo il percorso educativo all’epoca previsto per tutti i rampolli aristocratici, decise ben presto di seguire quella che sin da ragazzo, a Norcia, quando spesso fuggiva di casa per passare intere giornate presso gli eremi di sant’uomini stanziatisi nelle vicinanze, sentiva come la sua vera vocazione: l’ascesi e l’eremitaggio. Monaco è, infatti, parola che significa “solo”, “solitario”. Tuttavia, sin dalle più antiche esperienze orientali, il monachesimo iniziò ben presto ad organizzarsi anche in forma comunitaria. I monaci, pur pregando isolati, si riunivano in momenti comunitari sia liturgici sia di lavoro. Nacque così l’esigenza di eleggere, tra essi, coloro cui affidare il “governo” della comunità, nel rispetto del diritto di ciascun monaco alla solitudine orante.
Il giovane Benedetto a Roma aveva stretto delicati rapporti affettivi con una giovane aristocratica appartenente alla famiglia che lo ospitava, per la contentezza di entrambe le famiglie, le quali alla prospettiva di un buon matrimonio tale da sancire la loro unione ed alleanza in tempi così difficili, non potevano essere certo indifferenti. Ma i disegni di Dio su Benedetto erano altri. Deluso dall’ambiente senatorio, colto ma mondano, al quale pur apparteneva, Benedetto abbandonò ogni progetto terreno per ritirarsi in una spelonca presso Subiaco. Vi restò, in preghiera e nella pratica di una dura ascesi fatta di penitenze e digiuni, per circa tre anni. Le fonti narrano che alla fine di questo periodo Dio lo compensò facendolo partecipe della Sua Luce Increata ed accendendogli nel cuore la Fiamma Viva d’Amore nell’estasi perenne.
Ciò, tuttavia, non gli impedì, secondo gli stessi progetti che Dio aveva su di lui, di tornare nel mondo che aveva abbandonato. Fu chiamato a fondare oasi di vita comune, di civiltà, di pace in un mondo in travaglio nel difficile passaggio da un’epoca morente ad un’altra ancora di là dal nascere. Al monachesimo benedettino non si deve soltanto il salvataggio dell’eredità antica – furono i monaci di Benedetto a salvare opere e testi della sapienza ellenistica e romana che oggi non avremmo senza il loro prodigarsi – ma anche il posizionamento delle basi del medioevo e per certi versi del meglio della modernità. Furono essi, nella loro laboriosa esperienza lavorativa, ad inventare cose come la “partita doppia” che ha poi permesso l’elaborazione della contabilità aziendale moderna. Questo però non fa del monachesimo benedettino, come troppo spesso dicono gli attuali zeloti dell’Occidente liberista, l’inventore del capitalismo, perché le comunità benedettine piuttosto si organizzarono secondo modelli comunitari che oggi saremmo propensi ad avvicinare non tanto all’impresa capitalista quanto invece all’impresa sociale, cooperativista, senza fini di lucro o nella quale il profitto è ridistribuito tra tutti coloro che all’impresa hanno dato il proprio lavoro e contributo operativo.
L’“Ora et Labora” benedettino ha il suo fondamento non nella concorrenza e nella massimizzazione degli utili ma, al contrario, nella ricostituzione dell’originario rapporto ante-peccato tra Dio, uomo e creato. Il lavoro, in tale concezione, lungi dall’essere pena, come quello contrassegnato dall’esperienza dolorosa del peccato, è preghiera, atto liturgico e rituale di lode al Creatore ed alla Sua Somma Bontà donativa. Per questo, poi, il lavoro, inteso al modo di Benedetto, diventa anche atto di contribuzione ai bisogni comuni e di redistribuzione e condivisione dei beni tra tutti. Una concezione che Marx ha tentato di rubare e di impostare su una filosofia ateistica. Ma così reimpostata tale concezione ha dimostrato di non funzionare ed anzi di provocare tragedie, fame e disastri, mentre essa ha funzionato ed ha prodotto bene sociale all’interno dell’esperienza monacale benedettina avvantaggiando anche le popolazioni che vivevano a stretto contatto con monasteri ed abati. Infatti, sin dalla fondazione del monastero di Montecassino, su un monte in precedenza dedito a culti pagani, le locali popolazioni trovarono in esso protezione e fonte di vita, anche economica, che consentì loro la sopravvivenza lungo i secoli (6).
Dopo l’esperienza eremitica, al culmine della quale ebbe la Visio Dei, Benedetto fu distolto dall’eremo di Subiaco da alcuni monaci di una comunità stanziata in quel di Vicovaro che lo elessero a loro abate. Fu per Benedetto una dura prova perché quella comunità, da anni senza guida, era diventata un covo di anarchia spirituale e di immoralità. Fu persino oggetto di un tentativo di assassinio mediante avvelenamento. Ciononostante non demorse ed abbandonati al loro destino quei monaci perduti, finì per stanziarsi a Montecassino dove fondò il più noto dei monasteri benedettini e dove restò fino al termine della sua vita terrena.
Qui, come detto, diede avvio ad una feconda esperienza spirituale che ebbe profondi, fondamentali e notevoli riflessi anche sulla vita civile ed economica delle locali popolazioni in un’età nella quale, anche a causa della guerra greco-gotica in corso, la fame e la miseria falcidiavano decine di vite ogni giorno. Tutta l’esistenza quotidiana dell’Abbazia e dei paesi vicini fu modellata secondo l’“ora et labora” ed i monaci insegnarono ai contadini nuove tecniche agricole, disboscarono e resero fertili terreni ormai abbandonati da anni dai loro antichi padroni romani fuggiti nell’Urbe o chissà dove, regolarono la coniazione e la circolazione delle rare monete ancora in uso, aprirono o riaprirono le antiche strade romane ai pochi commerci ed alla residua attività artigianale del tempo consentendo in questo modo la sopravvivenza di un’economia produttiva che più tardi, nei secoli dopo l’anno mille, tornò a riprendere pieno vigore in tutta la Cristianità.
Il Re ed il Santo
Proprio a Montecassino ebbe luogo uno degli episodi più spiritualmente significativi della esistenza di Benedetto. Un episodio che dimostra come riporre il fondamento ultimo del Politico nel Dio trascendente non deresponsabilizza affatto l’uomo e non apre, anzi chiude, le porte alla decadenza politica, civile, sociale ed economica.
Si tratta dell’incontro tra il nostro Benedetto e Totila, il penultimo re dei goti che riuscì per un decennio a sottrarre il controllo della Penisola a Bisanzio.
Totila in lingua gotica significa l’“immortale”. Salì al trono nel 541 a 25 anni ed in un momento nel quale la sorte dei goti in Italia sembrava segnata tanto che ormai i notabili stavano trattando la consegna dell’Italia a Giustiniano. Sconfitti pesantemente e ripetutamente da Belisario, i goti erano ridotti al solo possesso di una ristretta zona a nord del Po. Il nuovo re si impose come obiettivo quello di sventare la riconquista giustinianea della penisola. L’Impero Bizantino nel 540 aveva dovuto concentrare i suoi sforzi ad oriente contro il pericolo sasanide, sicché fu relativamente facile per Totila ridiscendere l’Italia e riprendere il controllo di gran parte del territorio conquistato dai bizantini. Occupò Alatri nel 543 e, benché per poco tempo, prese Roma per due volte, nel 546 e nel 550. Nel 543 entrava a Napoli. Anche se in qualche occasione, in ossequio al diritto barbarico che, quale re del suo popolo, non poteva facilmente disconoscere, permise alle sue truppe un “moderato” saccheggio, egli, dopo ogni conquista, si distinse per clemenza verso le popolazioni assoggettate facendo distribuire viveri e risparmiando la vita di uomini, donne e bambini. Procopio di Cesarea – lo storico di corte bizantino che fu testimone oculare dell’assedio gotico di Roma nella prima fase della lunga guerra – fornì un giudizio tutto sommato positivo sul conto di Totila che lungi dall’essere descritto come un barbaro, senza misericordia, è giudicato, dallo storico, con rispetto.
Per farla finita con lui, Giustiniano affidò il comando dell’esercito in Italia al generale Narsete che invase la Penisola dal nord, attraverso i Balcani, piombando sopra i goti in assedio per l’ennesima volta di Roma. Lo scontro decisivo tra Narsete e Totila avvenne nel 552 presso Tagina, l’odierna Gualdo Tadino. Totila fu sconfitto ed ucciso, trafitto da una freccia o da una lancia, mentre cercava la ritirata verso la località di Caprara, frazione di Gualdo Tadino. Con la sua morte si spensero tutte le speranze gote di recuperare il regno perduto e l’ultimo re, Teia, non poté far altro che arrendersi a Bisanzio (7).
Come si è detto, Totila nel 543 era a Napoli. Ma nell’anno precedente si trovava nei pressi di Cassino. Qui si ricordò di aver sentito parlare di un sant’uomo che viveva sul monte lì vicino. Per Totila si trattava di un “presunto” uomo di Dio, perché egli era ariano ossia professava l’eresia diffusa dal chierico Ario (256-336) per la quale Cristo era solo un uomo benché “assunto” da Padre (8). Ciononostante era incuriosito su quanto si diceva di questo sant’uomo e pensò di metterlo alla prova.
Erano quelli gli anni della piena maturità, anche sotto il profilo della santità, di Benedetto, al quale il Signore elargiva doni mistici che concede soltanto a coloro i quali hanno duramente combattuto la “pugna spiritualis” contro le proprie inclinazioni della natura ferita e rivolta al peccato.
«… negli anni di Montecassino – scrive Flaminia Morandi, nota biografa del santo – il Signore si degnò di insignire il suo servo con il dono della profezia: prediceva avvenimenti futuri, vedeva cose lontane a cui non assisteva fisicamente, contro ogni logica del tempo e dello spazio. La percezione delle cose e la conoscenza interiore delle persone non è un dono scontato, è offerto solo a chi come Benedetto si è messo con decisione sulla strada che porta al faccia a faccia con Dio. I miracoli della maturità di Benedetto sono, dunque, miracoli della conoscenza: di Dio e del cuore umano come Dio lo vede. Il santo abate è uno di quei “violenti” di cui parla il Vangelo, gli unici che “si impadroniscono del Regno di Dio”: solo i cercatori appassionati di Dio, che non si stancano di lottare e pregare, sono ammessi a contemplare il suo volto e, alla sua luce, vedere il mondo in modo nuovo. L’atteggiamento umile di ascolto in cui vivono gli amici di Dio lascia talmente spazio allo Spirito Santo, che essi smettono di guardare la realtà con occhi solo umani e assumono la stessa prospettiva di Dio (…). A Montecassino ormai Benedetto è un vero “abbà”: parla con parole ispirate, è maestro di discernimento, ha il dono della “cardiognosi”, la conoscenza del cuore; è un educatore consapevole della sua missione, portare figli a Dio. Dunque non esita a correggere severamente chi sbaglia. La sua è una severità piena di misericordia, a cui preme la felicità dei discepoli. La stessa severità misericordiosa si ritrova nei capitoli della Regola che a loro volta non fanno che riecheggiare i dieci comandamenti biblici. O le dieci parole di Dio, come sarebbe la corretta traduzione dall’ebraico, le preghiere che fa all’umanità perché lo ascolti, perché osservandole possa conoscere la felicità su questa terra, anticipo già ora del Regno di Dio. I miracoli di conoscenza che Benedetto compie possono suonare ingenui e insignificanti (…). Oggi siamo viziati da una mentalità … poco sensibile al simbolo e alla poesia, che sono il linguaggio di Dio. Al contrario, essi hanno un significato profondo: attestano che la potenza della preghiera trasforma l’umanità di chi prega in “divina” umanità» (9).
Un inganno ed una voce imperiosa
La cardiognosi, la capacità mistica di scrutare nei cuori, spiega quanto è accaduto a Totila a cospetto del santo abate e spiega il vero e recondito motivo della clemenza che gli storici riconoscono propria del re goto nel suo rapporto con gli sconfitti.
Da ariano quale era, per Totila era inconcepibile che sulla terra potessero esserci uomini investiti da Cristo di quella Luce soprannaturale che è la Sua stessa Divinità. Tuttavia, in quanto uomo rude e ancora legato ad una religiosità intrisa di “terrore” per la potenza dei “numi”, egli aveva paura delle manifestazioni del sacro. L’arianesimo lo portava a negare la possibilità stessa del miracolo ma la sua naturale religiosità lo induceva, anche se non voleva ammetterlo, al timore. Le notizie sulle capacità profetiche di Benedetto lo infastidivano perché, arianamente, non prestava credito ad esse, ma qualcosa lo spingeva ad incontrare il sant’uomo per chiedergli del futuro della guerra e della sua gente.
Come avrebbe potuto incontrare Benedetto senza pubblicamente ammettere il suo timore salendo fin sopra il monastero? Egli non voleva affatto dare credito alle “dicerie” sulla santità di Benedetto. Troppe “favole” aveva sentito raccontare su di lui e non poteva certo perdere la faccia di fronte ai suoi guerrieri andando a consulto da un abate niceano, ossia aderente al dogma di fede proclamato al Concilio di Nicea e professato dal Papa di Roma.
Fu così che decise di mettere alla prova Benedetto ordendo ai suoi danni un “inganno”, esattamente come secoli più tardi fece re Carlo VII di Valois per provare la pulzella Giovanna che veniva dal villaggio di Domrémy asserendo di essere portatrice di un messaggio di Dio per il sovrano in difficoltà. Totila chiese a Benedetto di poterlo incontrare e quando il sant’uomo acconsentì, egli inviò al suo posto un servo rivestito delle insegne regali ed accompagnato dai suoi fedelissimi conti-ministri, Blindin, Ruderic e Wult. L’intenzione era quella di smascherare le presunte capacità mistiche di Benedetto. Se il sant’uomo avesse ricevuto il servo travestito da re sarebbe stato chiaro a tutti che egli, come sperava Totila per sfuggire all’inquietudine che lo spingeva a temere l’autorità spirituale dell’abate, era soltanto un impostore e che i suoi seguaci erano solo dei poveri allocchi.
Quando Riggo, il servo designato per l’inganno, arrivò al monastero, montando il suntuoso cavallo di Totila e circondato dai tre conti e dal loro seguito, i monaci aprirono le porte e lo fecero entrare in un cortile vasto e spoglio di ogni arredo. Riggo era il servo di fiducia di Totila e quindi conosceva bene movenze ed atteggiamenti del suo padrone, sicché imitarne il fare guerriero e regale non gli fu affatto difficile. Avrebbe ingannato chiunque non conoscesse di persona il vero re. Infatti i monaci che lo accolsero si inchinarono riverenti prima di lasciare lui ed il suo seguito soli in quel cortile. Riggo ed i tre conti, Blindin, Ruderic e Wult, si guardarono stupiti ma erano frementi al pensiero che ben presto avrebbero fatto cadere nel ridicolo ogni storia sulla santità di Benedetto ed infranto l’ingenuità di quei cristiani niceani così stupidi da credere a miracoli e profezie. Erano così presi da questa imminente prospettiva che i quattro, ed il loro seguito, non si accorsero di una figura alta che li osservava dalla finestra della vicina torre. All’improvviso, però, udirono una voce rimbombante, forte, possente, che li fece tremare cogliendoli di sorpresa.
«Figlio, togliti quello che hai addosso: non è roba tua!», la voce di Benedetto risuonò alta nel vasto cortile. Riggo ed i tre conti sollevarono lo sguardo e sbiancarono. Mentre i tre conti, spaventati, iniziarono a confabulare tra loro, il servo impostore fu colto da un tremore irresistibile. Non avrebbe potuto continuare nella farsa. Scese immediatamente da cavallo e si gettò in ginocchio terrorizzato. Immediatamente imitato dai conti e dal loro seguito.
Quando tornarono da Totila non seppero dirgli quanto tempo fossero rimasti lì, faccia nella polvere, inginocchiati. Gli riferirono soltanto che quando si erano rialzati nessuno di loro ebbe il coraggio di guardare verso il monaco della torre o di avvicinarsi a lui. Risalirono a cavallo e lungo il tragitto di ritorno non proferirono parola. Riggo confessò al suo re di essere stato colto da un inspiegabile “sacro terrore” al sentire la voce possente dell’abate e lo stesso Wult, il più temerario dei suoi conti in guerra, un uomo abituato al “furor” guerriero e certo non facile ad impressionarsi, ammise che quella era stata una esperienza sconvolgente: aveva nella sua vita visto di tutto, il sangue, la ferocia, la morte ma non era mai stato a cospetto con una forza così potente da letteralmente costringerlo a piegare le ginocchia.
Quell’uomo, l’abate di Montecassino, possedeva – sostenevano i suoi – un’autorità la cui fonte non era spiegabile. Trapassava gli interlocutori con lo sguardo ed essi erano messi a nudo di fronte a lui.
L’incontro
Totila rimase sgomento da questi racconti. Conosceva bene i suoi uomini, in particolare i tre conti. Rudi guerrieri che di certo non erano facili ad impressionarsi come donnicciole. Sicché, se quell’abate aveva fatto su di loro un effetto del genere, qualcosa di misterioso doveva pur possedere quell’uomo. Decise pertanto di andare da solo a Montecassino, senza scorta ed incurante di possibili pericoli. Si era in guerra ed avrebbe potuto imbattersi in qualche manipolo bizantino. Ma, ormai, il bisogno di capire chi fosse quel monaco era più forte di qualsiasi prudenza. Alla vista del monastero fu colto da una contraddittoria sensazione: da un lato avrebbe voluto girare il cavallo ed andar via, dall’altro era invece sospinto ad avanzare. Avanzò.
Quando fu abbastanza vicino, scorse la torre della quale gli avevano parlato i suoi uomini e su di essa vide stagliarsi anche la figura di un vecchio monaco che sembrava aspettarlo. Fu allora che lo colse lo stesso terrore di cui gli aveva parlato Riggo e percepì quella forza, che costringeva ad inginocchiarsi, della quale gli aveva parlato Wult. Scese da cavallo e cadde bocconi che era ancora lontano dalla torre. Benedetto, infatti, fu costretto a gridare più volte “Alzati!” per farsi sentire da lui. Totila, tuttavia, non riusciva ad alzarsi, come costretto da una mano che, posatasi su di lui, lo teneva fermo per terra. Non aveva neanche il coraggio di guardare negli occhi l’abate il quale, nel frattempo, gli si era accostato. Totila ne scorse chiaramente, con la coda degli occhi, i calzari. Si sentì preso e sollevato da terra, senza aver ancora il coraggio di guardare Benedetto in faccia. Egli era il re e come tale avrebbe dovuto comportarsi di fronte a quel monaco eppure si sentiva indifeso come un bambino e si lasciò condurre in una stanza del monastero. Non aveva senso, in quella situazione, rivolgere parole all’abate. Questo stato di soggezione spirituale gli fece provare lo stesso timore con il quale i suoi sudditi erano soliti accostarsi a lui.
Benedetto lo rassicurò e gli rivolse parole che restarono impresse nella sua coscienza per tutto il resto della sua vita. Lo ammonì profetizzando che gli restavano ancora dieci anni per redimersi agli occhi del Signore, che avrebbe conquistato Roma ma poi sarebbe stato sconfitto trovando la morte. Lo rimproverò per il male che lui e le sue truppe facevano agli indifesi esortandolo a porvi rimedio finché era in tempo, finché Dio gli concedeva tempo. Nessuna scusa poteva accampare, neanche quella della guerra con le sue devastazioni. Lui era re ed il Signore gli aveva dato maggiori responsabilità e gli avrebbe chiesto conto del potere del quale lo aveva investito. Già, il potere! Era per questo, gli disse Benedetto, che gli uomini si scannano dimenticando che esso non proviene dai loro sforzi o presunti meriti e che esso è piuttosto un peso, una croce. Una responsabilità grave che fa conseguire all’uomo la dannazione eterna se ad essa non si adempie nel bene. Il potere, nonostante ogni gloria mondana, è destinato anch’esso a dissolversi ben presto perché la morte arriva per tutti e con essa o l’Eternità di salvezza o l’eternità di perdizione.
Totila restò muto. Il pensiero della morte, che Benedetto gli aveva profetizzato così vicina – dieci anni soltanto! – non lo aveva mai preso seriamente in considerazione. In fondo quel re era come tutti noi: nessuno prende sul serio il pensiero della propria mortalità e ci affanniamo dietro mille cose senza renderci conto che esse, pur dovendovi adempiere, non sono il fine principale della nostra vita e che dal modo nel quale adempiamo alle cose mondane, dal modo nel quale usiamo i talenti donataci dal Signore, saremo alla fine giudicati. Un tempo la Chiesa inviava ai popoli i suoi predicatori per ammonire gli uomini: “Ricordati che devi morire!”. Sapienza antica che di tanto in tanto ridestava nelle coscienze il pensiero della relatività di tutto, tranne che di Dio, e placava così le ansie da prestazione mondana, le ansie del successo, del potere, della ricchezza. Più tardi molti avrebbero riso di quell’usanza e nella cinematografia molte sarebbero state le scene idiotamente comiche sugli antichi predicatori della “buona morte”. Eppure gli uomini sanno che prima o poi devono rendere il conto della propria vita. In passato, a differenza di quanto fa l’umanità attuale, gli uomini non nascondevano a sé stessi questa verità perché i nostri avi erano molto più saggi di noi.
Totila, che forse sperava di sentirsi profetizzare un futuro di potenza e di gloria, restò stravolto da quell’incontro, che gli storici pongono tra l’anno 542 e l’anno 543. La data più sicura è il 542 proprio perché la morte del re goto avvenne nell’anno 552, ossia dieci anni dopo il loro incontro come gli aveva annunciato Benedetto.
Tutto, infatti, accadde esattamente come il santo abate, attingendo alla Luce del Cielo, aveva profetizzato. Totila conquistò Roma, cacciandone i bizantini, passò in Sicilia ed infine morì in circostanze così fortuite da sembrare, agli ignari dei disegni di Dio sugli eventi messi in opera dagli uomini, solo pure fatalità.
Dei dettagli della conquista di Roma da parte di Totila, Benedetto apprese dal suo amico vescovo Sabino di Canosa (10) che di passaggio a Montecassino gli raccontò gli eventi in corso nell’Urbe dalla quale era di ritorno. Sabino raccontò, preoccupato, a Benedetto come Totila aveva bloccato il porto del Tevere, ossia l’attuale Fiumicino, con una robusta diga in modo da impedire al generale bizantino Belisario di raggiungere, con la sua flotta, la città assediata ed ormai allo stremo perché, a causa del blocco del porto, non potevano più giungere a Roma neanche le navi cariche di grano, proveniente dalle tenute ecclesiali in Sicilia, con il quale il Papa sfamava la popolazione alla fame. La gente mangiava ortiche e cicoria ed andava a caccia dei ratti pur di nutrirsi. I comandanti bizantini, che occupavano la città, facevano, poi, mercato nero, taglieggiando i romani, di quel poco che era rimasto dentro le mura cittadine. Tra i casi più strazianti vi era stato quello di un padre che si era suicidato perché non aveva più nulla con cui sfamare i suoi figli.
Questo raccontava Sabino all’amico Benedetto.
Ma la maggior preoccupazione del vescovo era per quanto sarebbe accaduto quando Totila, come ormai inevitabile, avrebbe conquistato la città. Perché, lamentava Sabino, se i bizantini che si proclamavano cristiani si comportavano in modo cruento nei confronti delle popolazioni, quali peggiori sofferenze aspettano la popolazione quando cadrà in potere di un “barbaro” come Totila. Sabino era preoccupato anche per la sorte del patrimonio urbano di Roma e già immaginava i goti distruggere chiese, antichi palazzi ed i luoghi del culto dei santi martiri.
Benedetto ascoltava in silenzio il suo amico. Il santo abate sapeva bene che l’esercito bizantino non era migliore di quello goto. Essendo quell’esercito composto da gente mercenaria, anche i comandanti bizantini non potevano impedire la pratica, “risarcitoria”, del saccheggio e Belisario nulla avrebbe potuto fare per fermarla. D’altro canto quello goto era un popolo che lottava per la vita o la morte ben conscio che soccombere ai bizantini avrebbe significato la fine dei goti in quanto “nazione”. La loro ferocia si spiegava così. Ma Benedetto sapeva anche che Totila non era “barbaro” come lo si dipingeva, non era cattivo e che anzi era un uomo nel cui cuore il seme dell’Amore aveva iniziato ad attecchire. Con convinzione ne fece confidenza al suo amico, alquanto incredulo di fronte alla comprensione che Benedetto mostrava verso i goti ed il loro re.
Benedetto ribadì a Sabino che, sì!, Totila avrebbe conquistato Roma ma non l’avrebbe distrutta né avrebbe permesso il massacro della sua popolazione. E così infatti fu. Belisario trovò il modo di superare l’ostacolo della diga ma fallì egualmente perché uno dei suoi generali, onde conseguire la sua parte di gloria, gli disobbedì attaccando i goti anzitempo. Con i bizantini in rotta, Totila entrò a Roma anche per il tradimento di quattro soldati isauri, al soldo di Bisanzio. Tuttavia, contrariamente a quanti si aspettavano l’indiscriminato massacro della popolazione, egli concesse sia ai bizantini che ai romani, in grado di farlo, di fuggire dalla città mentre rispettò la popolazione rifugiatasi nelle chiese dell’Urbe. Non impedì il saccheggio – triste usanza “barbarica” alla quale come re non poteva opporsi senza entrare in conflitto con la sua gente – ma ordinò di risparmiare la popolazione ed in particolare le donne ed i bambini.
Continua con la seconda parte: