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L’ECCEZIONE ABRAMITICO-CRISTIANA. Di Luigi Copertino*

Lucifero è nome traducibile con “portatore di luce”. Nome di un essere personale ma angelico. Nella Tradizione abramitica, Lucifero era in origine l’angelo più vicino a Dio ma è anche l’angelo che non ha superato la prova cui il Creatore ha sottoposto le sue schiere celesti “viatrici”. La prova è consistita nell’Adorazione del Verbo, dell’Adam Kadmon, mostrato agli angeli viatori, in visione, nella Sua Incarnazione Ventura. Questa tradizione è presente in tutte e tre le forme storiche della Rivelazione abramitica. E’ presente nell’ebraismo (in diversi libri dell’apocalittica giudaica ed in libri come “Vita di Adamo ed Eva” o il Libro di Enoch), nel Cristianesimo (1 Tim. 3,16; Ebrei, 1 – 4,6; 2 Pietro 2,4; Ap. 12 – 3,4; Ap. 12 – 7,9) ed anche, come ci ha spiegato padre Giulio Basetti Sani, nell’islam, dove si narra del peccato di Iblis (Satana) e degli angeli (Corano, Sura “Tâ-Hâ”, n. 57 XX; Sura “al Higr” n. 59 XV). Il rifiuto luciferino dell’Incarnazione fu atto di orgoglio, di superbia. Al più vicino a Dio, al più puro e spirituale degli angeli, non fu concepibile l’idea che Dio, Spirito assoluto, perfetto, eterno, altissimo, volesse abbassarsi fino a prendere su di Sé la “carne”, intesa come unione di spirito, anima e corpo. La vicinanza a Dio aveva inorgoglito Lucifero tentandolo con l’auto-centricità, il disdegno verso l’altro da sé, la convinzione di una superiore ontologica rispetto alla creazione, alle creature che Dio aveva rivestito di materia, e soprattutto rispetto all’uomo verso cui il Signore prodigava, inspiegabilmente, il Suo Amore. Inspiegabilmente Dio mostrava di amare in modo unico un essere destinato alla morte corporale come tutto ciò che è fatto di materia ed inspiegabilmente, per Lucifero, Dio si era degnato di infondere in quell’essere il Suo Ruach, il Suo Spirito.

Ma, agli occhi angelici di Lucifero, questo privilegio concesso da Dio all’uomo non lo faceva affatto degno delle altezze spirituali nelle quali lui, l’Angelo più bello, era secondo solo a Dio. Ora, se il Signore era talmente “folle” da volersi incarnare, per Lucifero questa intenzione mostrava che Dio non poteva essere Dio, non poteva pretendere di essere il Principio Trascendente che regge ontologicamente tutte le cose. Dio non aveva intenzione di rispettare la gerarchia che Lui stesso aveva posto nell’Ordine del Mondo e voleva abbassarsi sino all’uomo per innalzarlo sino a Lui. Lucifero concluse che, dunque, Dio doveva essergli inferiore, che Dio fosse tutt’al più un demiurgo il quale si divertiva perfidamente ad imprigionare i “puri spiriti” nell’oscura prigione della materia, della “carne”. Quindi riconoscersi ontologicamente dipendenti da un Dio di tal genere avrebbe significato anche per lui, per Lucifero, abbassarsi, umiliarsi, di fronte ad esseri impuri a causa della loro materialità. Il “Non serviam!”, che secondo la Tradizione riecheggiò negli spazi metafisici, significa appunto questo: disconoscimento della creaturalità ontologica per affermare autocentricamente il proprio sé autonomo: “autos-nomos” ossia “a-nomos”. Ciò comporta l’odio verso il creato, la svalutazione di quanto è carnale e quindi la necessità di violare il limite assegnato ad ogni essere, di trasgredire ogni etica e norma rivelata.

Emanuele Samek Lodovici (cfr. “Metamorfosi della gnosi – Quadri della dissoluzione contemporanea”, Ares, 1991) ci ha spiegato che la gnosi è un’esperienza essenziale di un’ostilità implacabile verso la condizione umana così com’è, piena di imperfezioni e di miserie, un tentativo di passare, ingannati da un’illusione prospettica, attraverso lo specchio per raggiungere il Paese della Perfezione. Un tentativo che per imporsi deve affrontare e battere il Cristianesimo con la sua affermazione della irriducibile differenza fra Assoluto e finito, tra luogo divino e luogo mondano. La gnosi per imporsi deve negare questa differenza e, quindi, il limite creaturale in un impeto prometeico, in una übris auto-divinificatoria, che è riscontrabile, nonostante le diversità epocali, tanto nell’antichità quanto nella modernità. La rottura, la violazione, del limite è esattamente quanto caratterizza le forme spurie della gnosi. Quelle antiche, orgiastiche, carpocraziane, come quelle moderne espresse, ad esempio, dal faustismo tecnologico, che vuole manipolare anche la vita, o dalla divinizzazione della Natura nelle forme neopagane dell’ecologismo che adora, olisticamente, “Gaia”.

Rompere il limite vuol dire non accettare la salvezza dall’Alto ma pretendere l’auto-salvazione. Julius Evola avrebbe detto l’“auto-costruzione dell’immortalità” (cfr. “Saggi sull’Idealismo magico”; “Teoria e fenomenologia dell’Individuo Assoluto”; “L’Uomo come Potenza”, ed. Mediterranee). Dietro questa pretesa si cela una cosmogonia che vede nella creazione un disvalore. In termini orientali, un velo di ignoranza, una illusione, una proiezione cristallizzata del Sè, la “māyā”. In termini occidentali, la frammentazione, o l’emanazione degradante, che ha obliterato l’unità apofatica e senza distinzioni dell’Uno o, anche, in ambito  filosofico, il monismo gnoseologico ed ontologico che non distingue tra soggetto ed oggetto (l’“io pensante”, l’“appercezione” o il “noumeno” kantiani, l’“io/anti-io” fichtiano, la “dialettica oppositiva e sintetizzatrice” hegeliana).

E’, infatti, difficile per chi coltiva una spiritualità “iniziatica” ed “elitaria” comprendere che l’esperienza mistica non è riducibile ad un unicum di cui le diverse forme storiche sarebbero i raggi convergenti verso il centro della ruota nell’Unità trascendente delle Religioni. Ed è conseguenzialmente difficile accettare che, invece, esiste una eccezione – quella abramitica – la quale non è riconducibile ad uno dei raggi della ruota ma è ne è casomai il Centro, la Tradizione Adamitica, la Tradizione Perenne, perduta dall’uomo sedotto dalla tentazione autocentrica dell’auto-deificazione: “eritis sicut Dei” ma senza la Kenosi di Dio. Quella Tradizione Adamitica che, attraversato il Diluvio, viene consegnata, in vista del Cristo Venturo, da Dio ad Abramo mediante Melchisedek “Sacerdote dell’Altissimo e Re di Salem”, ossia della Pace: la Pace tra Dio e l’uomo e di conseguenza tra l’uomo e la creazione, in precedenza a lui sottomessa ma successivamente, a causa del peccato, ovvero del rifiuto della dipendenza ontologica da Dio, ribellatasi. E’ difficile accettare la Rivelazione se si crede di percorrere una “via iniziatica” perché diventa difficile anche accettare la vita, il proprio essere, il creato come dono di un Amore Trascendente che è, misteriosamente, Persona senza per questo essere delimitato o potenzialmente reificato in alcun modo. L’“Io sono Colui che sono” (Es. 3,14) ha un senso certamente apofatico ma è al tempo stesso anche catafatico: la Persona misteriosa che chiama Abramo e si rivela a Mosé non ha limiti, è infinita, ed in Essa vivono e si muovono, distinte da Essa, tutte le creature, senza pertanto che possa essere colmata, per iniziativa dell’uomo, la distanza, l’abisso ontologico che sussiste tra l’“Io sono” e le creature, tra l’Altissimo e la Sua icona umana. C’è partecipazione ed analogicità, senza dubbio, ma anche equivocità abissale.

Ora, questo abisso può essere colmato solo per iniziativa di Dio che si abbassa, si piega, sull’inferiorità e sulla debolezza dell’uomo. E’ la Kenosis divina (Fil. 2,7) che non ha nulla a che fare con la “vacuità nirvanica”: Cristo, il Verbo di Dio, pur di natura divina non ha esitato a spogliare Sé stesso ed ad offrirsi alla Morte di Croce. Il Verbo si è spogliato, pur restando Verbo, per piegarsi sull’uomo perché l’uomo non può raggiungere il Cielo tirandosi per i capelli ed affinché l’uomo riottenesse quella Vita Soprannaturale che, inseguendo improbabili iniziazioni auto-costruttive rifiutò in illo tempore. René Guenon disprezzava questa prospettiva, quella mistica, perché la riteneva “passiva” a confronto con quella “iniziatica”, esaltata come “attiva”. Da qui il disprezzo per la religione intesa quale manifestazione essoterica di una Tradizione Esoterica Primordiale riservata all’élitè degli iniziati. Troppo plebea la prospettiva abramitica, per Guénon, salvo forse la corrente sufica dell’islam. Ma anche qui, nell’islam compreso quello sufico, il problema sta nel guardare a Dio come al Principio Trascendente, certo!, ma Vivo, Vivente Luce Increata ed Amore Donativo.

Dio è il Vivente perché “Dio è Amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv. 4,16). Chi sta nell’amore non è Dio ma “dimora” in Dio. Non c’è alcuna identità ontologica tra Lui e noi, nessun monismo identificativo, panteistico. Resta la dualità ma colmata dall’Amore gratuito di Dio, del Dio kenotico di cui parla san Paolo. Il quale – racconta – è stato portato, con il corpo o fuori dal corpo non ha potuto dirlo (ma non escludeva che lo fosse stato con il corpo, come anche è accaduto in altre esperienze mistiche lungo i secoli cristiani), fino al Terzo Cielo ed ha visto cose che nessuna parola umana può definire, che nessun occhio umano ha mai visto e che nessuna intelligenza umana può descrivere o contenere (“ Cor. 12 – 1,5). Tuttavia ci dice ancora Paolo, nel tentativo di avvicinarci in qualche modo alla sua esperienza mistica, “Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal. 2,20). Non dice io e Cristo siamo la stessa Persona, lo stesso Dio, ma che Cristo vive, misticamente, in lui, che pertanto è soltanto “cristificato” per partecipazione. Cristo viveva in Paolo nel suo spirito ma anche nel suo cuore carnale, sede dello spirito. Nell’Eucarestia si compie l’unione sacramentale e mistica del Cuore di Dio – perché è nel Cuore di Cristo che il Pane benedetto si trasforma – con il cuore dell’uomo (da qui la necessità di essere mondi da peccato e pentiti quando si incontra la Maestà Divina nel trono del proprio cuore, altrimenti il Fuoco d’Amore rischia di essere da noi vissuto al rovescio allontanandoci da Lui anziché unendoci a Lui sponsalmente).

Se l’uomo non dimorasse in Dio ma fosse, inconsapevolmente, Dio allora si tratterebbe, come appunto per certe tradizioni iniziatiche, soltanto di “sollevare” il velo dell’ignoranza, della maya, soltanto di “risvegliare” questa consapevolezza e quindi di “realizzare” la propria ontologica (auto)divinità. L’uomo, in questa prospettiva, è Dio ma ne ha perduto coscienza perché “cristallizzato”, “imprigionato”, nel limite del sé creaturale. Per la via iniziatica, il Principio Trascendente è un “motore immobile”, a-kenotico, che l’uomo, potenza inconsapevole della propria connaturata divinità, può raggiungere solo per identificazione ontologica e che, in qualche modo, “manipola”, impadronendosi di un Principio Apofatico ma non anche Catafatico. Non a caso la magia – quella spiritualmente ma tragicamente seria (si pensi all’alchimia) e non certo le forme popolari della superstizione – muove dalla stessa prospettiva di tecnica spirituale di conquista attiva del Principio immoto. Dove è il rapporto, la relazione, nell’Amore tra l’io ed il Tu, che salvifico entra nella vicenda storica dell’umanità ed in quella quotidiana di ciascuno di noi, se il Principio è un freddo, glaciale, atarassico, lontano Polo nel quale per identificarci dobbiamo annichilirci: “Tat tvam asi”, “tu sei quello”, dice la spiritualità orientale; “io vivo in Dio, che mi ama, ma non sono Dio” risponde l’eccezione abramitica.

Santa Teresa d’Avila (cfr. “Il Castello interiore”, ed. Postulazione Generale o.c.d., 1985, Roma) percorre la diverse “mansioni” o “stanze” del Castello, ossia del suo cuore, liberandosi innanzitutto dalle acque acquitrinose che lo circondano, ma quando arriva nella stanza centrale, quella del Trono/Talamo, non potrebbe entrare se Cristo, lo Sposo, non le aprisse le porte per l’unione mistica. La quale però non è fusione panteistica, non è “risveglio iniziatico” della consapevolezza di una supposta ontologica divinità di sé, ma è “fidanzamento spirituale” e poi “matrimonio spirituale”. Le immagini sponsali servono esattamente allo scopo di far intendere che l’autentica esperienza mistica non distrugge l’uomo, amato da Dio che lo ha creato, ma lo pone in una relazione d’Amore che è appunto relazione fino all’unità più intima, assoluta ma, nonostante ciò, non fusione ontologica, non identificazione. L’Unione sponsale unisce in un climax “erotico-mistico” e fa dei due “una carne sola” ma non ne annulla la distinzione ontologica, pur vivendo ormai lo Sposo, l’Amato, Dio, nell’anima così intimamente unito ad essa come la sua stessa Vita.

«Osservate – scrive la grande mistica carmelitana – quest’anima a cui Dio ha sospeso del tutto l’intelletto per meglio arricchirla della vera sapienza. Per tutto il tempo che dura in questo stato … ella non vede e non sente nulla. Ma Dio s’imprime nel suo interno, e quando ella torna in sé, in nessun modo può dubitare che Dio sia stato in lei ed ella in Dio. (…). Conosco una persona [qui la mistica sta parlando di sé stessa] che non sapeva che Dio si trova in ogni cosa per presenza, per potenza e per essenza. Ma lo intese chiaramente dopo un favore di questo genere ricevuto dal Signore. (…). Sono opere di Dio. Ma so di dire la verità. (…). Sono operazioni di Dio, innanzi alle quali le nostre industrie sono nulla. Essendo incapaci di raggiungerle, guardiamoci pure dal volerle comprendere. A proposito di quest’impotenza, mi ricordo di ciò che dice la Sposa dei Cantici e che voi stesse avrete udito: “Il Re mi ha condotta nella cella del vino”, o piuttosto, come credo che dica: “Mi ha introdotta”. – Insomma, non dice che vi sia andata da sola. Dice ancora che andava di qua e di là in cerca del suo Amato. Ora, l’orazione di cui parlo è appunto la cella vinaria nella quale il Signore intende introdurci, ma quando e come vuole Lui. Da noi, con i nostri sforzi, non vi possiamo entrare: bisogna che ci introduca Lui. Ed egli lo fa quando entra nel centro dell’anima nostra. Qui, per meglio mostrare le sue meraviglie, vuole che altro non facciamo che assoggettargli la volontà, guardandoci bene dall’aprire le porte delle potenze e dei sensi che giacciono addormentati, perché intende entrare nel centro dell’anima senza passare per alcuna porta, come entrò dai suoi discepoli quando disse: “Pax vobis” (Joan, 20,19), e come uscì dal sepolcro senza smuovere la pietra. Più avanti vorrà che l’anima lo goda nel centro di se stessa ben più intensamente che non qui; ma sarà nell’ultima mansione» (Cfr. Il Castello Interiore, op. cit., Quinte Mansioni, Capitolo I, pp. 830-832).

Ancora: «Veniamo ora a parlare del divino e spirituale matrimonio, che credo quaggiù non si debba effettuare in tutta la sua perfezione (…). La prima volta che l’accorda, il Signore si compiace di mostrarsi all’anima nella Sua Umanità Sacratissima … affinché ella lo conosca e comprenda il gran dono che sta per farle. (…). Dovete sapere che la differenza … che passa tra il fidanzamento e il matrimonio spirituale è come quella tra due fidanzati e coloro che più non possono separarsi. Ho già detto che si ricorre a questi paragoni perché non ve ne sono altri di più adatti. (…). Soltanto questo si può dire: che l’anima, o meglio il suo spirito, diviene una cosa sola con Dio. (…). Dio, Spirito pure Lui, volendo mostrarci l’amore che ci porta, fa conoscere ad alcune persone fin dove il suo amore sa giungere, affinché lodiamo la sua grandezza, la quale si compiace di così unirsi a una creatura da non volersi mai più da essa dividere, come coloro che per il matrimonio non si possono più separare. Non così nel fidanzamento spirituale nel quale spesso i due soggetti si separano, come nemmeno nell’unione, nella quale, pure avendosi congiunzione di due cose in una, tuttavia queste si possono dividere, e sussistere ognuna da sé. Ordinariamente infatti si tratta di una grazia che passa rapidamente, lasciando l’anima priva della compagnia che aveva: priva nel senso che non la sente più. Non così invece nel matrimonio spirituale, perché l’anima rimane sempre in quel centro con il suo Dio. Possiamo paragonare l’unione a due candele di cera unite insieme così perfettamente da formare una sola fiamma, oppure come se il lucignolo, la fiamma e la cera non siano che una cosa sola. Nondimeno le candele si possono separare, ricavandone due candele distinte: così pure il lucignolo dalla cera. Ma nel nostro caso è come l’acqua del cielo che cade in un fiume … in tal modo da non saper più distinguere quella del fiume da quella del cielo (…). Ciò forse intendeva S. Paolo quando disse: “Chi si accosta e si unisce a Dio si fa un solo spirito con Lui” (1 Cor., 6,17), accennando a questo sublime matrimonio nel quale si presuppone che Dio si sia avvicinato all’anima mediante l’unione. Dice ancora l’Apostolo: “Mihi vivere Christus est et mori lucrum” (Philip., 1, 21). Così mi pare che possa dire pur l’anima, perché qui la farfalletta muore con suo grandissimo gaudio, essendo Cristo la sua vita. (…). Sì, è Dio che da vita all’anima … “O Vita della mia vita! O Sostegno che mi sostieni!” … lo Spirito increato … tanto più … ci riempie di sé, quanto più ci vuotiamo di ogni cosa creata, distaccandocene per amor suo. Per questo Gesù Cristo Signor Nostro pregando una volta per i suoi discepoli, domandò … che fossero una cosa sola col Padre e con Lui, come Egli, Gesù Cristo Signor nostro, è nel Padre e il Padre in Lui (Joan., 17,21). Non so se possa darsi maggiore amore! Anche noi vi siamo comprese, perché il Signore disse: “Non prego soltanto per essi, ma anche per coloro che crederanno in Me” (Joan., 17,20). Aggiunse inoltre: “Io sono in essi” (Joan., 17,23). (…). Ritornando a quello che dicevo, Dio introduce l’anima nella sua stessa mansione che è il centro della medesima anima. (…). Il centro dell’anima nostra, ossia il nostro spirito, è così difficile da spiegare e da credere che, per non saper io farmi intendere, temo che siate tentate di non credermi. Non è forse assai strano affermare che vi sono pene e travagli, e che nel medesimo tempo l’anima rimane in pace?. Ma eccovi una o due similitudini. Piaccia a Dio che mi servano per dirne qualche cosa. Tuttavia so di dire la verità, anche se esse non sono molto appropriate. Come un re nel suo palazzo non lascia di stare sul suo trono perché il regno è funestato da grandi guerre e calamità, così qui: benché nelle altre mansioni vi sian bestie velenose, grande confusione e se ne oda il tumulto, l’anima rimane al suo posto e non vi è nulla che la smuova. Il rumore che sente le può dare un po’ di noia, ma non l’inquieta, né fa perdere la pace, perché le passioni sono vinte e temono di entrare in lei, per non doverne uscire umiliate» (cfr. Il Castello Interiore, op. cit., Settime Mansioni, pp.942-948).

Solo i mistici che hanno provato la “transverberazione del cuore”, a mezzo del Dardo Infuocato dell’Amore Divino, possono comprendere il significato ultimo e sublime dell’Unione Sponsale dell’anima con Dio, nell’attesa che detta unione sia perfezionata nella resurrezione della carne. Di quale carne? Di questa povera carne che abbiamo, certo glorificata ma questa e non altra, come per una sorta di “clonazione spirituale”. San Paolo: «Ma qualcuno dirà “Come resuscitano i morti”? Con quale corpo verranno? Stolto! Ciò che tu semini non prede vita, se prima non muore, e quello che semini non è il corpo che nascerà, ma un semplice chicco (…). Si semina corruttibile e risorge incorruttibile. (…). E’ necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità» (1 Cor.15,35; 37,42; 52,53). Ed ancora: «Come? Cristo è risorto con il suo proprio corpo: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!” (Lc. 24,39); ma Egli non è ritornato ad una vita terrena. Allo stesso modo, in Lui, “tutti risorgeranno coi corpi di cui ora sono rivestiti” ma questo corpo sarà trasfigurato in corpo glorioso, in “corpo spirituale” (1 Cor. 15,44)» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 999).

Di quale età? L’età più bella, l’età della giovinezza. La Madonna a Lourdes, come a Fatima o a La Salette, è apparsa, e si è fatta anche toccare, nel suo corpo glorificato, non in una  riproduzione. Chi ha avuto la grazia di vederla ne ha parlato come di una giovane donna, anche se sappiamo che lei lasciò questa terra, per dormizione ed assunzione, quando era ormai anziana. Ad alcuni veggenti i quali le hanno chiesto il motivo di tanta sublime bellezza, Lei stessa ha rivelato che la Sua Bellezza trova spiegazione nel radicamento nell’Amore. L’amare Dio rende belli e la Bellezza, come diceva Fedor Dostoevskij, salverà il mondo. Ma Maria è amata da Dio perché ella è umile, è “serva del Signore”. Dio è misericordioso ossia volge il Suo Cuore verso i miseri ed aborre la superbia, l’orgoglio, l’autocentricità. Dio vuole la “preghiera del cuore” – atto di umile lode ed invocazione di Lui – come nel caso dell’esicasmo che solo in apparenza è simile allo yoga, perché con essa, in un ininterrotto atto spirituale penitenziale, il cuore viene gradualmente purificato affinché la Viva Luce Increata – Luce di un Dio Vivo – si riversi nel suo ricettacolo per accenderlo del Fuoco d’Amore, del Fuoco pentecostale dello Spirito Santo (e non affinché l’ātman riscopri la propria identità con il Brahman: “Sì, in verità tutto questo è Brahman, questo ātman è Brahman” cfr. Māndūkya Upanisad).

Per questo, per la Sua umiltà, è Maria che schiaccia la testa al serpente che si morde la coda ossia all’Angelo caduto per orgoglio. All’Angelo “portatore di luce” che, per orgoglio, si è auto-proclamato Dio e da sempre invita l’uomo a fare altrettanto ossia a “risvegliare” la consapevolezza di essere Dio, allontanando, come non dignitosa sottomissione obedenziale, la Promessa dell’Immortalità nell’Amore Donativo dell’Altissimo.

Laddove è apparso, come a Santa Maria Margherita Alacoque o a Santa Faustina Kowalska o a San Camillo de Lellis o a San Pio da Pietrelcina, anche Gesù Cristo si è rivelato nel Suo Corpo, non in un “simulacro platonico”, in età giovane, la stessa del giorno della Sua Passione. Della quale, a suo piacimento, può mostrare, ora, i segni oppure no. Il corpo glorificato è carne trasposta sul piano trascendente del soprannaturale e per questo è libero da condizionamenti spaziotemporali senza, per questo, non essere pur sempre lo stesso corpo carnale, ma rivestito di gloria e spiritualizzato, posseduto su questa terra. Se non ci fosse l’abisso ontologico, colmato nell’Amore Kenotico, tra Dio e l’uomo, se l’uomo fosse Dio e dovesse soltanto riprenderne coscienza “risvegliandosi” sebbene mediante una “morte iniziatica”, non avrebbe alcun senso l’Incarnazione del Verbo, non avrebbe alcun senso il Sacrificio della Croce né la Passione, Morte e Resurrezione, non avrebbero alcun senso i Sacramenti né la Chiesa. Non avrebbe alcun senso neanche la Salvezza perché essa, in forma di auto-salvazione, sarebbe già propria del e nell’uomo che dovrebbe solo prenderne consapevolezza, auto-costruendosi l’immortalità nell’identificazione con il Glaciale Principio Immoto.

Ecco perché quella abramitica, ed in particolare il Cristianesimo, è una eccezione che, nonostante ogni rispettoso dialogo con le altre esperienze spirituali e perfino ammirando quanto di positivo può trovarsi in esse, non potrà mai giungere oltre il punto di rinunciare alla propria specificità per dissolversi – anche se è questo che da secoli auspicano correnti spirituali avverse, come la Massoneria – in una spiritualità indifferenziata e relativista, riducendosi ad un mero raggio della ruota. Può sembrare intolleranza – ed infatti è questo il capo d’accusa che quelle correnti spirituali avverse imputano al Cristianesimo – ma è invece soltanto amore della Verità. La quale non è un concetto astrato ma è Cristo in Persona. E se è vero che, storicamente, spesso i cristiani non hanno saputo unire, come è doveroso, la Carità – “Deus est Caritas” – alla Verità, non per questo, ora, si può chiedere loro di lasciar cadere la Verità, ossia Nostro Signore Gesù Cristo, per una malintesa forma di presunta carità che altro poi non è che irenismo superficiale e nichilista.

Ora, tutto questo, senza nulla togliere al possibile dialogo, fino al punto nel quale esso, come detto, è realmente possibile, ha anche evidenti ripercussioni, diciamo così, “pratiche”. La compassione orientale, ad esempio, è cosa ben diversa dalla carità cristiana. La compassione, che certo non può non essere ricompresa nella carità, pur nobile è solitamente, salvo rare eccezioni, distaccata, lontana, impassibile. L’idea che il nostro destino sia segnato karmikamente – al di là di cosa poi effettivamente resta, in questa prospettiva, sul piano samsarico del divenire, se cioè l’ātman oppure residui psichici – in un ciclo perenne di rinascite, fino a che l’io non risvegli in sé il proprio “dio” identificandosi con il Principio Immoto, comporta inevitabilmente la rassegnazione ai mali del mondo, comporta l’idea, a suo tempo presente anche nelle antiche culture semitiche (ne testimoniano persino i Vangeli laddove riportano la credenza, riprovata da Cristo, che la lebbra fosse causata dal proprio peccato o da quello dei genitori), che la sofferenza sia in fondo insita nell’essere, nell’esistenza stessa e quindi ineliminabile. Sicché ogni sforzo per alleviarla, ogni atto di carità per amore del prossimo nell’amore di Dio, è del tutto vano. I dannati della terra, per lo spiritualismo iniziatico ed elitario, sono condannati a restare tali, inevitabilmente dannati come lo erano i poveri per Calvino.

Una figura gigantesca come Madre Teresa di Calcutta non sarebbe mai potuta emergere nell’ambito della spiritualità extra-abramitica, extra-cristiana. L’Induismo e il Buddismo non possono generare figure di tal fatta, perché la Carità supera ed oltrepassa la pur ammirevole compassione. Lei non chiedeva e non imponeva alcuna conversione ai derelitti ed ai paria, che accudiva con l’amore che Dio aveva infuso nel suo piccolo cuore, e si sporcava le mani, letteralmente se le insozzava, con le carni macilenti dei lebbrosi – come Francesco d’Assisi che il lebbroso macilento lo abbracciò – proprio perché l’uomo in tutto il suo essere spirituale e psico-corporeo non è limite negativo da infrangere iniziaticamente ma è una creatura da Dio amata, nell’anima e nel corpo. Quest’ultimo, il corpo, buono, come ogni opera di Dio, e destinato alla glorificazione. Non a caso, come lei stessa, Madre Teresa, ha raccontato nel suo diario, ora noto, fu il Signore a chiamarla, nelle fattezze di un povero vecchio riverso sulla strada, nell’immondizia e tra i topi, alla “vocazione nella vocazione” affinché il Suo Amore fosse conosciuto anche in India.

Madre Teresa diceva che, se non poteva guarirli, almeno cercava di aiutare i suoi poveri a morire, circondati da carità e amore, con quella dignità umana di cui non avevano mai goduto. Nel romanzo “I fratelli Karamazov” Dostoevskij, già in precedenza ricordato, fa domandare da un ateo, Ipolit, al principe Mynski “in che modo la bellezza salverebbe il mondo”? Il principe non dice nulla ma si avvicina ad un giovane che sta agonizzando e gli rimane vicino pieno di carità e di amore finché non muore. Dostoevskij qui, da cristiano, ha inteso dirci che la bellezza ci porta all’amore condiviso con il dolore e che il mondo sarà salvo fino a quando ci sarà questa carità. Ma è proprio quella che oggi manca mentre si cercano risposte in vie iniziatiche.

Luigi Copertino

*Domus Europa consiglia la lettura dei precedenti interventi “Rivelazione e Gnosi” e “Le Religioni Luciferine“.

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