Una pregevole ricostruzione della crisi, dal suo primo inizio negli USA alla pesante ricaduta nell’Eurozona, che mostra in maniera precisa e puntuale come la ricetta della shock economy è stata applicata con successo anche in Europa, la culla dello stato sociale che doveva essere smantellata per lasciar spazio a un capitalismo assoluto senza freni.
La storia dell’euro è inizialmente quella di un accumulo spropositato di debito privato, soprattutto estero, nei paesi investiti dal fenomeno del credito facile, il preludio all’esplosione di una bomba ad orologeria.
Credito per lo più tedesco e francese, elargito senza problemi, dietro la garanzia del cambio fisso, quello che non si svaluta ed assicura il creditore. Ma per il “sudden stop”, l’arresto improvviso del flusso di capitali, era solo una questione di tempo.
In molti ne avevano pregustato gli effetti disastrosi che avrebbero reso il politicamente impossibile, di friedmaniana memoria, politicamente inevitabile. Sicché, quando Lehman Brothers saltò per l’aria, portandosi dietro le banche di mezzo mondo, la shockterapia dell’euro ebbe modo di consolidarsi nella sua accezione più devastante e fulminea.
Passi rapidi, anzi rapidissimi, che colsero di sorpresa milioni di cittadini europei. Di lì a poco l’Europa non sarebbe stata più la stessa. Poco dopo i primi crolli di borsa, le banche congelarono infatti tutti i crediti, per tentare di mantenere la loro solvibilità. L’economia mondiale si interruppe bruscamente. Il momento tanto atteso era arrivato. In Europa i capi di governo di Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia si incontrarono a Berlino assieme ai Presidenti di Commissione europea, Eurogruppo e BCE per trovare una soluzione coordinata alla crisi bancaria.
Venne scartata la proposta francese di istituire un fondo di garanzia europeo, mentre prevalse, come era facile attendersi, la mozione tedesca basata sull’elaborazione di linee guida comuni che lasciassero tuttavia agli Stati membri piena autonomia decisionale riguardo ai piani di salvataggio delle banche nazionali.
La crisi di debito privato si trasformò di lì a poco in una crisi di debito pubblico.
Gli Stati della periferia europea iniziarono via via a crollare uno dopo l’altro come birilli. Già nel dicembre del 2009 Fitch declassò il debito sovrano della Grecia da A- a BBB+ dopo che il Governo di Atene aggiornò la stima del rapporto deficit/PIL portandola dal 6,5% al 12,7%.
Il Fondo Monetario Internazionale stabilì l’invio di una missione speciale in Grecia in vista di un’eventuale assistenza tecnica, una sorta di vigilanza controllata. Intanto il Governo portoghese presentò la manovra economica con cui si impegnò a riportare il rapporto deficit/PIL dal 9,3% al 3% entro il 2013 con un massiccio intervento di tagli alla spesa pubblica. Era quello che molti liberisti si aspettavano, lo smantellamento progressivo dello Stato.
In Grecia il premier Papandreu lanciò un appello televisivo al paese in cui chiese di rispettare il piano di risanamento triennale dei conti pubblici, annunciando il blocco di salari ed assunzioni, la riduzione delle spese di tutti i ministeri, l’aumento dell’età pensionabile e l’introduzione di nuove imposte. L’attacco allo stato sociale dell’Europa del Sud era appena cominciato. Il timore per la tenuta dei conti pubblici iniziò ad allargarsi a Spagna e Portogallo.
Ai primi scioperi contro le misure di austerity il Governo greco rispose con un nuovo piano antideficit pari a 4,8 miliardi di euro (il 2% del PIL) di cui 2,4 miliardi di nuove imposte, una nuova scarica di elettroshock sulla popolazione inerme. Il successivo mancato accordo in sede di Eurogruppo sul meccanismo per garantire aiuti alla Grecia, denaro liquido per ripagare i creditori privati del Nord, evidenziò l’opposizione della Germania verso ogni tipo di intervento non accompagnato da una severa revisione delle regole sul patto di stabilità. I tedeschi pretendevano il rimborso d’ogni credito e rigide garanzie.
Pochi giorni dopo il Presidente dell’Eurogruppo Junker definì “non aberrante” l’ipotesi di un intervento comune con il FMI, mentre il Presidente della BCE Trichet dichiarò che un’eventuale azione avrebbe dovuto assumere la forma di un prestito accompagnato da “una serie di condizioni forti da applicare rigorosamente”.
I falchi neoliberisti stavano dunque iniziando a riscuotere l’incasso. A seguito di un’intesa informale franco-tedesca l’Eurogruppo approvò un piano di sostegno a favore della Grecia per 40-45 miliardi di euro, dei quali 10-15 sarebbero stati messi a disposizione dal FMI e il resto da ciascun paese dell’Eurozona secondo la propria quota di partecipazione al capitale della BCE (l’Italia versò 5,5 miliardi di euro). Nel frattempo le principali agenzie di valutazione tagliarono il rating di Spagna e Portogallo.
La situazione era destinata inevitabilmente a precipitare.
La manovra di aggiustamento da 40 miliardi di euro varata dal governo greco dispose l’azzeramento delle tredicesime e quattordicesime degli impiegati pubblici, l’aumento dell’età pensionabile, dell’IVA e di altre imposte indirette.
Il paese rispose con un’ondata di violenti scioperi repressi duramente dalle forze dell’ordine. Non c’erano vie d’uscita alla shockterapia dell’euro, neppur con la violenza. Nel maggio del 2010, dopo una lunga riunione, i Capi di Stato e di Governo dell’Eurozona approvarono una nuova versione del piano di prestiti per la Grecia, mettendo a disposizione 110 miliardi di euro da restituire in cinque anni al tasso del 5,2% (di cui 30 da parte del FMI e 80 dall’UE).
La quota italiana ammontò a 14,8 miliardi. Sempre a maggio in Italia il Governo presentò una manovra correttiva da 24,9 miliardi di euro composta essenzialmente da tagli di bilancio (fra i quali il blocco degli stipendi pubblici, con diminuzioni per quelli di importo superiore, e la riduzione dei trasferimenti alle Regioni), con l’obiettivo di portare il rapporto deficit/PIL dal 5% del 2010 al 3,9% del 2011 e al 2,7% del 2012. A luglio i ministri finanziari dell’Eurogruppo approvarono la creazione dell’European Financial Stability Facility (EFSF), un fondo intergovernativo al quale si sarebbero potuti rivolgere gli Stati dell’Eurozona con crisi di debito.
Ad ottobre fu raggiunta un’intesa sulla riforma del Patto di Stabilità che previde la revisione della procedura di infrazione per deficit eccessivo (con anticipo dei tempi di apertura a sei mesi) nonché l’introduzione della sospensione del diritto di voto in Consiglio per i paesi recidivi nell’infrazione delle regole del patto.
Fu scelto dunque il pugno duro, così come richiesto dai tedeschi.
Nel mese di novembre, mentre si diffusero concretamente i timori per un contagio del debito anche a Portogallo e Spagna, i ministri dell’Eurogruppo approvarono d’urgenza un provvedimento a favore dell’Irlanda per un ammontare di 85 miliardi di euro (una cifra spropositata).
Urgenza.
Era questo il vocabolo più in uso per giustificare l’introduzione di radicali cambiamenti impopolari nelle economie dell’Europa del Sud.
Per quanto riguardava l’Irlanda la parte europea del prestito sarebbe stata messa a disposizione dall’EFSF. Contemporaneamente fu proposta l’istituzione di un European Stability Mechanism (ESM) che avrebbe dovuto sostituire l’EFSF dopo il 2013, con eventuale coinvolgimento del settore privato nei piani di intervento e nella ristrutturazione del debito pubblico.
L’Irlanda si impegnò a varare una manovra correttiva di 15 miliardi di euro in quattro anni (pari al 9-10% del PIL) con tagli alla spesa pubblica (10 miliardi) ed aumenti delle imposte (5 miliardi). Il giorno successivo la reazione dei mercati fu comunque negativa, con sensibili cedimenti delle borse e allargamento dello spread dei titoli pubblici di Portogallo, Spagna e Italia rispetto a quelli tedeschi. Gli irlandesi si sottoposero alle misure di austerità con sgomento.
Nel marzo del 2011 il Consiglio dell’Eurozona varò l’Euro Plus Pact con l’obiettivo di incoraggiare la competitività e l’impiego, di concorrere alla sostenibilità dei conti pubblici e di consolidare la stabilità finanziaria. Qualche giorno più tardi, illustrando il patto davanti alla Commissione bilancio della Camera, il Ministro dell’economia Tremonti sottolineò l’opportunità di elevare, come in Germania, a rango di norma costituzionale il vincolo legislativo alla riduzione strutturale del deficit e del debito pubblico.
L’Italia iniziava progressivamente a germanizzarsi.
A maggio il Governo portoghese trovò un accordo con UE, BCE e FMI per la concessione di un prestito di 78 miliardi di euro in tre anni per consentire al paese di superare la crisi. Il piano di aggiustamento dei conti pubblici anticipò un taglio del deficit dall’8,6% del PIL nel 2010 al 5,9% nel 2011, al 4,5% nel 2012 e al 3% nel 2013 e selvagge privatizzazioni per 5,5 miliardi di euro da realizzarsi già nel 2011.
Sempre a maggio Standard & Poor’s tagliò di due gradini il rating del debito greco, portandolo da BB- a B. Il rendimento dei titoli di Stato decennali salì al 15,87% (oltre il doppio dell’anno prima, allorché venne definito il cosiddetto salvataggio). Cominciarono a sorgere i primi dubbi sulla sostenibilità del piano di risanamento e si iniziò a parlare di una ristrutturazione del debito. Il mese successivo Standard & Poor’s ridusse di altri tre gradini il rating del debito pubblico greco, portandolo a CCC. Gli spread tra i titoli tedeschi e quelli dei paesi periferici si allargarono come un’immensa voragine diffondendo il panico. Il Presidente della BCE Trichet dichiarò la necessità che un’eventuale ristrutturazione del debito greco avvenisse unicamente su base intenzionale.
A luglio i Ministri delle Finanze dell’Eurogruppo concessero il via libera alla quinta tranche di aiuti alla Grecia (per 12 miliardi di euro) a seguito dell’approvazione da parte del Parlamento greco di una manovra da oltre 28 miliardi di euro in cinque anni (con nuovi tagli alla spesa pubblica ed aumento della pressione fiscale) e dell’avvio da parte dello stesso di un piano di privatizzazioni per 50 miliardi di euro.
Un colpo mortale per il paese.
Si continuò a discutere sulla necessità di una partecipazione dei finanziatori privati ad un piano di riscadenzamento del debito (considerato da Standard & Poor’s una sorta di default selettivo). Sempre a luglio Moody’s tagliò di quattro punti il rating del Portogallo, esprimendo dubbi sulla sostenibilità del piano di risanamento approvato a fronte degli aiuti UE-FMI. A fine mese la stessa agenzia portò il rating greco a Ca con outlook “in via di sviluppo”.
Era questo il definitivo dividendo dell’euro?
Con un vertice straordinario i Capi di Stato e di Governo dell’Eurogruppo raggiunsero un accordo sul debito greco, fissando come obiettivi nuovi prestiti per 109 miliardi di euro, l’allungamento della durata e la diminuzione dei tassi di interesse di quelli già concessi, l’ampliamento della capacità operativa dell’EFSF (con possibilità di acquisti di titoli del debito pubblico sul mercato secondario e di partecipazione alla ricapitalizzazione delle banche), il coinvolgimento del settore finanziario privato nella ristrutturazione del debito in base ad opzioni di swap, rinnovo automatico e buy-back.
Intanto in Italia Camera e Senato approvarono una manovra correttiva che puntò a un sostanziale pareggio di bilancio nel 2014, portandola a 48 miliardi di euro.
A seguito degli attacchi speculativi subiti dai titoli pubblici dei paesi periferici (soprattutto spagnoli ed italiani) il Presidente della BCE invitò il Governo italiano ad anticipare al 2013 la manovra e a varare riforme strutturali per la crescita.
Ad agosto la BCE iniziò ad acquistare titoli di Stato italiani e spagnoli, riducendo lo spread sui Bund tedeschi. Subito dopo il Governo italiano approvò l’anticipo del pareggio di bilancio al 2013 attraverso un piano per il recupero di ulteriori 45,5 miliardi di euro che incluse nuovi tagli alla spesa pubblica, una vera mazzata. Il Parlamento spagnolo, seguendo l’esempio di quello tedesco, approvò una modifica costituzionale in base alla quale fu fissato un tetto al deficit da stabilire con legge. A settembre il Governo italiano rafforzò la seconda manovra correttiva (introducendo tra l’altro un aumento dell’aliquota IVA) annunciando interventi per 27,9 miliardi di euro nel 2012 e per 58,3 miliardi di euro nel 2013. Contemporaneamente il Consiglio dei Ministri approvò un disegno di legge costituzionale che previde l’obbligo del pareggio di bilancio, la morte dell’intervento pubblico nell’economia.
A fine mese Standard & Poor’s declassò il rating italiano palesando forti dubbi sul raggiungimento degli obiettivi fissati dal Governo per via della fragilità dell’esecutivo (questa la versione ufficiale) e della diversità di posizioni presenti in Parlamento. Subito dopo anche Moody’s e Fitch abbassarono la propria valutazione sull’Italia. Le pressioni dei mercati sul Governo Italiano divennero asfissianti. Nel mese successivo il Presidente della Repubblica firmò il decreto di nomina di Ignazio Visco a Governatore della Banca d’Italia, in sostituzione di Mario Draghi, che, dal 1° novembre, assunse la Presidenza della BCE. Subito dopo il Consiglio europeo trovò un accordo sull’ulteriore rafforzamento dell’EFSF (con aumento della dotazione da 440 a 1.000 miliardi di euro) e sulla ricapitalizzazione delle banche.
Per la ristrutturazione del debito greco prevalse l’ipotesi di una decurtazione del 50%, con un contributo di 30 miliardi di euro da parte dei Governi dell’Eurozona in modo da incentivare gli investitori ad aderire. Ma la misura riguardava per lo più risparmiatori greci. Il 1° novembre le borse europee crollarono dopo l’annuncio da parte della Grecia di un referendum a cui sottoporre le ulteriori misure di austerità richieste per il nuovo piano d’aiuti. I mercati non sopportavano affatto la democrazia. In Italia lo spread BTP decennali/Bund raggiunse la pericolosa soglia di 441 punti base.
Conseguentemente si iniziò a parlare dell’introduzione di un emendamento alla legge di stabilità. La BCE, nella prima riunione del Consiglio direttivo presieduta da Draghi, tagliò il tasso di riferimento dall’1,50% all’1,25%. Le Borse reagirono positivamente, anche per via dell’immediata rinuncia da parte della Grecia al referendum sulle nuove misure di austerità sotto il ricatto dei mercati.
In Italia, in seguito all’approvazione da parte della Camera del rendiconto dello Stato con soli 308 voti, il Presidente del Consiglio Berlusconi annunciò le proprie dimissioni dopo l’approvazione della legge di stabilità. Fu il triste epilogo della democrazia italiana.
Lo spread BTP decennali/Bund toccò quota 500 punti. Incaricati di Bruxelles incontrarono in segreto i membri del Parlamento Italiano per sondare il terreno. Il 12 novembre il Capo dello Stato italiano conferì a Mario Monti l’incarico di formare un nuovo Governo.
Nei giorni successivi Monti ottenne un’ampia fiducia dal Parlamento, come da copione. Subito dopo il Consiglio dei Ministri italiano varò un’ulteriore manovra da 30 miliardi di euro (17 miliardi di nuove entrate e 13 di tagli). Fra le misure adottate vi furono la reintroduzione di un’imposta sulla prima casa (IMU), la sostanziale abolizione delle pensioni di anzianità e il blocco dei trattamenti previdenziali superiori ad una determinata soglia. Monti chiamò il decreto “Salva Italia”.
In realtà il provvedimento avrebbe definitivamente tagliato le gambe a un paese già agonizzante. Tra l’8 e il 9 dicembre il Consiglio europeo approvò un patto per l’unione di bilancio (Fiscal Compact) basato su una maggiore convergenza fiscale, su sanzioni automatiche e sul controllo da parte della Corte di Giustizia. Il 21 dicembre, nella prima delle due aste di long term refinancing operation (LTRO), la BCE somministrò a 523 banche liquidità a tre anni per 489 miliardi di euro (116 quelli distribuiti alle banche italiane) al tasso dell’1%. Una settimana più tardi si registrò un sensibile calo dei rendimenti dei BOT semestrali e dei CTZ, ma lo spread BTP decennali/Bund si mantenne sopra i 500 punti base. Il 2012 si aprì con una serie di declassamenti da parte di Standard & Poor’s. Il rating di ben nove paesi europei fu tagliato.
Quello italiano passò da A a BBB+. Dinnanzi alla Commissione Affari economici del Parlamento europeo Mario Draghi definì “molto grave” la situazione, esortando i governi a rafforzare l’EFSF e invitando a considerare i giudizi delle agenzie di rating come “un parametro tra molti”. A seguito delle crescenti preoccupazioni per un probabile default della Grecia in tempi brevi, Standard & Poor’s ridusse di un punto il rating dell’EFSF, portandolo da AAA a AA+. Subito dopo il premier greco Papademos dichiarò quasi raggiunta un’intesa tra Governo e creditori privati sul taglio del debito. Il 31 gennaio il Consiglio UE approvò il trattato sulla nuova disciplina di bilancio (Fiscal Compact).
Il 9 febbraio i leader dei tre partiti greci che sostenevano il Governo Papademos pervennero a un’intesa sulle misure di austerità richieste da UE, FMI e BCE (la cosiddetta Troika) in cambio di ulteriori 130 miliardi di euro di aiuti. Furono previste la riduzione del 22% del salario minimo, il taglio di 150.000 dipendenti pubblici in esubero e privatizzazioni per 50 miliardi di euro.
La Grecia fu messa in ginocchio.
Dopo ore di trattative, il 21 febbraio l’Eurogruppo raggiunse un accordo sul salvataggio della Grecia, annunciando un taglio del debito pubblico di 107 miliardi di euro tramite una riduzione del valore dei titoli in mano ai creditori privati (come già anticipato soprattutto risparmiatori, una seconda mazzata) e 130 miliardi di euro di prestiti. Il 29 febbraio, con la seconda asta di LTRO, la BCE rifinanziò 800 banche europee per 529,5 miliardi di euro (139 a banche italiane).
Il 2 marzo il vertice dei Capi di Stato o di Governo approvò il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione Economica e Monetaria (Fiscal Compact).
L’accordo previde l’impegno di inserire il principio del pareggio di bilancio nelle Costituzioni, nonché l’obbligo di limitare il deficit allo 0,5% del PIL e di portare i debiti eccessivi verso il 60% del PIL in 20 anni.
Una missione impossibile che avrebbe compromesso il futuro economico di intere generazioni. Contemporaneamente in Italia lo spread BTP/BUND scese a quota 310 punti base, raggiungendo quello dei titoli spagnoli. In Grecia fonti governative indicarono l’adesione dei creditori privati al programma swap dei titoli del debito pubblico entro la soglia minima del 75%.
Il 9 marzo i ministri delle finanze dell’Eurogruppo presero atto dell’esito positivo del piano di ristrutturazione del debito greco, dando il via libera al nuovo piano di aiuti per 130 miliardi di euro. Qualche settimana più tardi lo spread BTP/BUND toccò il suo minimo annuo, assestandosi attorno ai 278 punti base.
Il 20 aprile, con Legge Costituzionale, il Parlamento italiano riscrisse l’articolo 81 della Carta fondamentale, introducendo il principio del pareggio in bilancio in esecuzione degli impegni assunti con la ratifica del Fiscal Compact.
Quindici giorni più tardi, intervenendo all’esito di una riunione del Consiglio Direttivo della BCE, Draghi precisò i tre elementi fondamentali di un nuovo patto per la crescita: riforme strutturali (comprese liberalizzazioni e riforma del mercato del lavoro), investimenti in infrastrutture e un percorso per definire il futuro della moneta unica. A seguito delle elezioni, in Grecia si aprì uno scenario di incertezza politica per la difficoltà di costituire un Governo di unità nazionale. La Spagna intanto fu declassata da Fitch di ben tre gradini. Il 9 giugno il Ministro delle Finanze spagnolo dichiarò l’intenzione di chiedere aiuti europei per la ricapitalizzazione di alcune banche.
In risposta i Ministri delle Finanze dell’Eurozona si dissero pronti a reagire favorevolmente alla richiesta mettendo sul piatto oltre 100 miliardi di euro. Intervenendo a Berlino ad un congresso del suo partito Angela Merkel dichiarò “il bisogno di più Europa” e la necessità di essere pronti a cedere maggiore sovranità nazionale.
Nel frattempo, dopo una nuova consultazione elettorale, in Grecia il partito conservatore Nuova Democrazia non ottenne la maggioranza assoluta di seggi in Parlamento. Nonostante ciò Samaras, il leader incaricato di formare un nuovo Governo, affermò: “I greci hanno deciso di restare legati all’euro. Questo rappresenta una vittoria per tutta l’Europa”. Quasi contestualmente, esponendo il rapporto periodico sulla zona euro, il Direttore generale del FMI Lagarde individuò nell’Unione Bancaria, in quella di bilancio e nelle riforme strutturali nei mercati dei servizi, del lavoro e dei prodotti i tre obiettivi da perseguire per contrastare la crisi. Il 29 giugno, al termine del vertice dei Capi di Stato o di Governo tenutosi a Bruxelles, venne varata l’Unione Bancaria con accentramento della vigilanza presso la BCE. Fu dato inoltre il via libera all’intervento diretto del fondo salva Stati (EFSF/ESM) per la ricapitalizzazione delle banche spagnole.
I mercati reagirono comunque negativamente. Tornarono ad alzarsi paurosamente gli spread tra il Bund tedesco e i titoli di Stato della periferia d’Europa (633 in Spagna, 529 in Italia). Due giorni più tardi, intervenendo in un convegno a Londra, Mario Draghi affermò che la BCE sarebbe stata pronta a fare “tutto quanto è necessario per salvare l’euro“. Si trattava della dichiarazione tanto attesa dai mercati. Le Borse europee reagirono tutte con corposi rialzi. I differenziali di rendimento tra i titoli di Stato dell’Europa periferica e quelli tedeschi iniziarono una rapida e costante discesa. L’euro era salvo, almeno per il momento. Intanto l’ISTAT diffuse i dati di maggio relativi al tasso di disoccupazione italiana. Quella giovanile toccò il livello record del 36,2% (il dato più alto dal 1992).
Il tasso complessivo si fermò al 10,1% (con un aumento dell’1,9% rispetto all’anno precedente). In Eurozona la disoccupazione si attestò all’11,1% , il livello più alto dalla nascita dell’euro. Sempre a luglio, mentre in Italia venne emanata la legge di ratifica del Fiscal Compact, in Germania furono presentati ricorsi alla Corte Costituzionale contro le leggi di approvazione del medesimo Trattato sulla stabilità e di quello istitutivo dell’ESM. Ad agosto nel Bollettino della BCE un’analisi delle condizioni di finanziamento delle imprese industriali evidenziò l’elevato rischio di insolvenza dell’area euro ed in particolare dell’Italia. Sempre ad agosto, in un’intervista ad un giornale tedesco, il nuovo premier greco Samaras si dichiarò pronto ad adottare misure di rigore ancora più severe del previsto (per circa 14 miliardi di euro) in cambio di una proroga di due anni per la loro adozione.
A settembre l’ISTAT ufficializzò dati peggiori del previsto sulla contrazione del PIL italiano. La flessione fu del -0,8% rispetto al trimestre precedente e del -2,6% rispetto al secondo trimestre del 2011. La “cura” distruttiva di Mario Monti funzionava. Nel frattempo la Corte Costituzionale tedesca respinse i ricorsi contro la ratifica del Trattato ESM, ponendo come unica limitazione che eventuali impegni oltre i 190 miliardi di euro già pattuiti dovessero essere approvati dal Parlamento. In Italia il Governo portò al -2,4% le previsioni del calo del PIL per il 2012 (contro il -1,2% stimato ad aprile) e al -0,2% quelle per il 2013, correggendo di conseguenza al 2,6% il rapporto deficit/PIL per il 2012 (contro la precedente stima dell’1,7%).
A fine mese il Governo spagnolo approvò una manovra da 40 miliardi di euro di tagli alle spese e nuove tasse. Intanto il Centre for European policy studies (CESP) stimò in 313 miliardi di euro il costo provvisorio sostenuto dal settore pubblico europeo per il salvataggio della Grecia (372 miliardi, pari al 4% del PIL dell’Eurozona, considerando anche il coinvolgimento del settore privato). L’8 ottobre terminò il processo di ratifiche nazionali del Trattato ESM e venne dato il via libera ad una nuova fetta di aiuti al Portogallo (pronto a chiedere “assistenza” al FMI per lo studio di nuovi tagli alla spesa pubblica) per 4,3 miliardi di euro. Il Governo greco rese note le previsioni di caduta del PIL al -4,5% per il 2013 (con un rapporto debito pubblico/PIL del 189,1%).
A dicembre l’Eurogruppo accordò una nuova porzione di aiuti alla Grecia per 34,3 miliardi di euro. Il Bollettino statistico della Banca d’Italia comunicò il superamento da parte del debito pubblico italiano della quota record di 2.000 miliardi di euro. Subito dopo, il terzo Rapporto sulla coesione sociale di ISTAT, INPS e Ministero del Lavoro ufficializzò il passaggio del rischio di povertà in Italia dal 26,3% del 2010 al 29,3% del 2011. L’aumento fu il più elevato all’interno dell’UE. Il 21 dicembre il Presidente del Consiglio Mario Monti rassegnò le proprie dimissioni. L’evoluzione del declino italiano ed europeo avrebbe avuto presto nuovi ed inquietanti sviluppi.
Quanto fin qui riportato rappresenta solo il principio di una rapida cronistoria non ancora definitivamente compiuta.
La shockterapia dell’euro continua …
M. D’Aloisio
*Domus Europa ringrazia il blog Kappa di Picche