La stampa non è affatto libera. In quest’UE, che è una dittatura tecnocratica a sostegno del IV Reich germanico, dobbiamo scordarci la favoletta delle libertà democratiche. Essa serve solo a creare gli etàt d’ésprit, gli stati d’animo, l’opinione pubblica favorevole alle “svolte”. Ricordate da quando hanno iniziato la cagnara mediatica sulle Province? Da almeno un quinquennio. Oggi esse sono in via di avanzato smantellamento ed in attesa della loro definitiva abolizione costituzionale nel frattempo il governo Renzi/Padoan ha ridotto loro i trasferimenti erariali all’osso precludendo alle stesse di erogare i servizi di competenza, dalla manutenzione delle strade a quella delle scuole, dal piano neve alla cura ambientale, dalla formazione professionale al mercato del lavoro. Da un po’ di tempo sui mezzi di comunicazione di massa ha iniziato a serpeggiare la propaganda per l’abolizione delle Regioni. Prima o poi ci arriveranno. Non solo: ma sempre più forte, anche nei talk show, si alzano le voci che invocano la riduzione massiccia del pubblico impiego come fatto in Grecia, sotto l’impero della Troika, e come autonomamente ha fatto Cameron in Inghilterra, che pure non è nell’euro. Questo significa che la tendenza epocale è quella.
Certo poi ci sono fior fiore di economisti, anche premi nobel come Joseph Stiglitz, che si sgolano a ribadire che, soprattutto nei tempi di recessione, ogni taglio alla spesa pubblica è un colpo in negativo all’economia, perché la spesa pubblica è sempre liquidità che va al mercato. Tuttavia, dove si prendono le decisioni politiche, nessuno li ascolta. Infatti l’euro più che una moneta è una ideologia, si chiama monetarismo o, se volete, neoliberismo. L’UE è stata pensata come un club di Stati che hanno rinunciato alla sovranità monetaria appaltata ad una unica Banca Centrale sovranazionale che non finanzia gli Stati ma solo le banche. La giustificazione di questa scelta è che finanziare gli Stati produce inflazione. La realtà, amara, che stiamo constatando, è invece che non finanziare a tassi agevolati – questo facevano le Banche Centrali nazionali fino agli anni ’80 – la spesa pubblica produce deflazione ovvero crollo dei prezzi come conseguenza del crollo della domanda per mancanza di reddito. La deflazione ghiaccia l’economia e la conseguente contrazione dell’economia porta ai fallimenti delle imprese ed ai licenziamenti di massa, anche nello Stato per la contrazione delle entrate fiscali.
Dietro la BCE c’è la Germania o, meglio, il complesso finanziario-industriale tedesco rappresentato dalla Merkel. I ceti dirigenti della Germania da questa situazione ci hanno solo guadagnato perché la moneta unica impedisce ai concorrenti dell’economia tedesca, in primis all’Italia, di godere del cambio flessibile, ovvero di monete meno pesanti, a favore delle loro esportazioni. Legati i concorrenti al cambio più rigido che c’è ossia alla moneta unica, la Germania, dal 2003, con le riforme del ministro – si noti – socialdemocratico Haartz, ha abbassato e contenuto il costo del lavoro, che è il principale costo di produzione, mediante l’introduzione dei mini job a 400 euro mensili nonché il lavoro più precarizzato possibile inculcando l’idea che non è il posto di lavoro che deve essere tutelato ma che si deve favorire la flessibilità del lavoratore nel passaggio da un posto all’altro. Senza che sia detto apertamente, questa prospettiva sottende che il lavoratore deve essere sempre disposto ad accettare riduzioni salariali mentre l’imprenditore deve avere mano libera nell’usarlo come una merce, che oggi serve ma domani può essere gettata via, scaricando – è esattamente questo che ha rivendicato, come effetto del suo Job Act, Renzi alla Leopolda in questi giorni – il costo della sua formazione e della sua ricollocazione solo sullo Stato, ossia sulla tanto vituperata spesa pubblica. Come dire che l’imprenditore è ab-solutus da ogni responsabilità nazionale e sociale, libero di delocalizzare come e quando vuole, mentre lo Stato deve, da solo, farsi carico dei drammi sociali della disoccupazione.
Siamo tornati alla situazione denunciata da Marx ai tempi del capitalismo dispotico ottocentesco – situazione poi superata nel XX secolo grazie alla contrattazione collettiva sindacale ed allo Stato sociale, che Marx non poteva supporre – per la quale, mettendo i lavoratori tra loro in concorrenza, al ribasso, il capitalista poteva sempre contare sulla “riserva di disoccupati” per mantenere a livelli minimi il costo del lavoro.
Lavoretti a 400 euro e precariato costituiscono lo scenario che con il Job Act di Renzi si vuole ora introdurre anche in Italia, per rendere – dice il governo di sinistra (?) – più produttiva l’economia nazionale. Obbiettivo che sarà però raggiunto non più svalutando la moneta nazionale, cosa ora impossibile, ma svalutando il lavoro a vantaggio della crescita esponenziale dei profitti del capitale, prefigurando la cosiddetta “società dei due terzi”: un terzo iper-ricco e due terzi poveri e precari. Non ci si venga a dire, non vengano a dirci liberali e conservatori di qualsiasi loggia, che non si può più parlare, oggi, di contrapposizione tra capitale e lavoro. Non solo tale contrapposizione persiste e sussiste ma è ora tornata al duro scontro di classe laddove il cristiano, nazionale e sociale interclassismo avanzato, costruito lungo il XX secolo, era riuscito a comporlo in equità. Il ceto medio, che fu l’ossatura degli Stati nazionali e sociale del secolo scorso, è destinato all’estinzione rapida, inghiottito nell’abisso nella globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia, quella che piace ai finanziari della City, come quel Davide Serra, amico e “compagno” politico di Matteo Renzi, che alla Leopolda ha proposto di abrogare il diritto di sciopero. Il fascismo vietò lo sciopero e la serrata nel quadro di una economia su basi organiciste che avrebbe dovuto comporre equitativamente il conflitto tra capitale e lavoro. Sorvolando, non è questa la sede, sull’esame delle cause per le quali l’esperimento fascista non abbia ben funzionato, ossia se per sua intrinseca utopicità, come dicono i suoi critici di sinistra, o perché, molto più probabilmente e come dicono i suoi epigoni, sabotato proprio dal capitale, resta che quel divieto si ispirava al sogno di un composto, ma socialmente giusto, nuovo rapporto tra i fattori della produzione. Invece il finanziare amico di Renzi parla di divieto dello sciopero nella prospettiva di una società ispirata all’individualismo più sfrenato ed alla sopraffazione sociale.
La Germania della Merkel, grazie alla sua politica di contenimento della domanda interna e del costo del lavoro in costanza della moneta unica che impedisce ai suoi concorrenti la svalutazione monetaria, è ora vincente sugli altri partner europei (partner o colonie?) perché i suoi prodotti costano meno. Insomma la Germania ha svalutato il lavoro, laddove noi in precedenza per evitare di colpire lavoro e Welfare svalutavamo la lira. Ma questo, secondo i moralisti tedeschi, era sleale. Invece si trattava solo di legittima difesa nazionale di fronte al comportamento aggressivamente neomercantilista di Berlino.
Adesso la Germania ci chiede di fare i compiti a casa. E tra questi c’è l’abbattimento del debito e quindi anche il sacrificio dei dipendenti pubblici dopo aver sacrificato quelli privati. Ma i sindacati non lo capiscono né lo capisce la politica di destra come di sinistra (?!). Il “bello” è che questa cura d’austerità non funziona e la cosa è ormai evidente a tutti: più si contrae la spesa pubblica, più si contiene il costo del lavoro, più il debito pubblico cresce perché non cresce il Pil. Come dicono gli economisti critici di questo assetto eurocratico, compreso da ultimo il capo economista del FMI Oliver Blanchard che pure era un convinto assertore della cosiddetta “austerità espansiva”, ma ci ha ora ripensato, l’effetto moltiplicatore di 1 euro di spesa pubblica produce 3 euro di aumento della domanda. Invece l’effetto di un euro di taglio fiscale, meno tasse, produce soltanto 0,5 di aumento della domanda perché, in tempi di crisi la gente spaventata non spende come pure le imprese non investono. Se dai più soldi alla gente in tempi di crisi mediante tagli fiscali, quei soldi saranno risparmiati e non spesi. Esattamente quel che è successo con gli 80 euro di Renzi.
In tempi di depressione c’è un solo soggetto che può spendere per sostenere la domanda, se avesse ancora la sovranità monetaria, ed è lo Stato e l’annesso sistema pubblico. Oppure, se esistesse per davvero l’Europa e non questo nuovo Reich tedesco nascosto dietro la sigla Unione Europea, a spendere dovrebbe essere la Confederazione in un quadro perequativo tra tutti i suoi membri, come accade negli Stati Uniti o nella Federazione Russa. Ma queste cose, che anche un bambino capisce, sono vietate dal “pensiero unico euro-tedesco-cratico”. Invece si persegue la via “azteca” dei sacrifici umani ossia della disoccupazione di massa nel privato e, prima o poi, continuando per questa strada, del prossimo licenziamento in massa nel pubblico impiego.
I “compiti a casa” imposti a tutti dalla Germania non funzioneranno anche per un altro semplice ed evidente motivo. Una delle regole basilari dell’economia di mercato è quella per la quale è la domanda a creare l’offerta, non il contrario. Nessuno si mette a produrre qualcosa di cui non c’è domanda (certo, poi, con la pubblicità ed altri sistemi si può anche influire, o sollecitare, la domanda, ma questo nulla toglie al fatto che se non c’è domanda, come accade attualmente, l’offerta, ossia la produzione, resta invenduta). Infatti, per tornare ai “compiti a casa”, se tutti praticassero contemporaneamente politiche mercantiliste come quella tedesca, ossia se tutti riducessero il costo del lavoro e la spesa pubblica, quindi il reddito nazionale e la domanda interna, per avvantaggiare le proprie esportazioni, chi comprerebbe i beni prodotti dagli altri?
Il mercato è per sua natura asimmetrico, crea diseguaglianze e gerarchie, c’è sempre chi vince e chi perde, chi è in posizione subordinata e chi in posizione dominante. La politica mercantilista tedesca funziona solo grazie alla asimmetria del mercato libero da regole e vincoli sovra-mercantili. Questo significa che, affinché la politica mercantilista tedesca possa operare a proprio egoistico beneficio, mentre la Germania, per sostenere le sue esportazioni, contrae, all’interno, costo del lavoro e spesa pubblica, ossia la domanda, i suoi concorrenti, che però sono anche gli acquirenti delle sue esportazioni, non devono fare altrettanto, ossia non devono contrarre anch’essi la propria domanda interna altrimenti non potrebbero acquistare i prodotti tedeschi preferendoli, per il loro minor costo, ad altri prodotti nazionali o esteri. La domanda interna di un Paese, infatti, è sempre il presupposto base perché esso possa acquistare le esportazioni di altri Paesi, favorendone l’economia.
La Germania, difendendo un sistema di questo tipo che provoca recessione e deflazione in casa dei suoi concorrenti/acquirenti, sta segando il ramo sul quale è seduta. Quella tedesca è una politica miope come tutte le politiche egocentriche. La politica mercantilista può essere praticata soltanto in uno scenario neocoloniale. Cosa che, dunque, conferma, ancora una volta, che il libero mercato non funziona affatto bene, ovvero non è efficiente, come dicono. O, perlomeno, non funziona bene, non è efficiente, per tutti e per tutti allo stesso modo.
Affinché queste distorsioni siano corrette sarebbe necessario – ed è questo che l’Europa dovrebbe fare se davvero esistesse un’Europa – un coordinamento confederale che sanzioni non solo le posizioni di deficit, mediante aggiustamenti strutturali, ma anche ed innanzitutto le posizioni dominanti di surplus commerciale e finanziario, come quella attuale della Germania, costringendo i Paesi in surplus a politiche di aumento del costo del lavoro, della spesa pubblica e quindi della domanda interna in modo da favorire le esportazioni verso di loro dei prodotti dei Paesi in deficit. Ottenendo, in tal modo, un generale riequilibrio delle “bilance dei pagamenti” di tutti gli Stati dell’UE.
Per uscire dalla attuale situazione, assurdamente kafkiana, non abbiamo che due, alternative, vie: o, come poc’anzi detto, si fa cambiare registro alla Germania ed all’UE nel senso di un riequilibrio solidale tra Paesi in difficoltà e Paesi non in difficoltà – cosa che richiederebbe l’affermazione di una vera sovranità politica – oppure, se la dirigenza tedesca e la tecnocrazia eurocratica continuano a fare orecchie da mercante, non resta che l’uscita dall’euro, dolorosa fin quando si vuole, all’inizio, ma sicuramente benefica nel medio-lungo termine, per riprenderci la nostra sovranità monetaria.
Ma, in questo secondo caso, ed è bene che i tedeschi, eventuali responsabili di un tale esito, lo sappiano, il sogno europeo, con le sue antiche radici millenarie, andrebbe del tutto in fumo dal momento che, come ha osservato giustamente il già citato Stiglitz, quando un matrimonio, mal assortito, si sfascia non è che si torna al fidanzamento, per poi ricominciare, ma si divorzia con tutte le conseguenze in termini di conflitti che ne derivano.
E quando si tratta di Stati parlare di conflitti significa parlare di guerra.
Luigi Copertino