“We are a People and we have not spoken yet! – Noi siamo un popolo e non abbiamo ancora parlato!“
Così si esprimeva Gilbert K. Chesterton (1874-1936); parole possenti scolpite nel tempo e che, con potenza, riemergono oggi nell’era della globalizzazione e della “fine della storia” quasi a rivendicare con forza le ragioni di chi sostienne l’esigenza della difesa delle proprie origini e della propria identità.
Identità, una parola forte e rivendicata da molti, oggi prepotentemente riemersa dagli scrigni della memoria, bandiera di chi rivendica una propria autonomia o una propria patria, al di fuori dell’ormai usurato concetto di Stato – nazione di cultura romantica e liberale. Dalla Catalogna alle terre basche, sino alle spinte autonomistiche venete e bretoni, in molti guardano con interesse e con una non celata speranza al referendum che porrà uno storico quesito alle genti di Scozia, ovvero la scelta dell’indipendenza dal Regno Unito.
Alla vigilia della storica chiamata del popolo scozzese ad esprimersi sul destino della propria Patria, aldilà dei sondaggi che vedono un testa a testa tra favorevoli e contrari, oltre le varie precisazioni e i vari “ma”, legati alla sicura permanenza della Scozia nel Commonwealth britannico, appare indubbio che un’eventuale indipendenza scozzese aprirebbe interessanti scenari nell’Europa contemporanea; un’indipendenza che coronerebbe il plurisecolare sogno di chi, nelle highlands, ricorda ancora con orgoglio i nomi di Wallace e di Fletcher, pilastri di una delle più affascinanti storie d’Europa, legata alla nostalgia di un Regno perduto e di un’indipendenza rivendicata, che in queste righe riportiamo.
“Sono le ballate e non le leggi a costrure una nazione” ebbe a dire Andrew Fletcher nel 1704, pochi anni prima di quell'”Atto d’Unione” che, nel 1707, segnò definitivamente l’unificazione della Scozia all’Inghilterra nella Gran Bretagna, conclusione beffarda e obbligata di un Regno, quello scozzese, economicamento disastrato dalla fallimentare spedizione colonialista panamense del 1699, che sempre tentò di evitare l’annessione a quello inglese.
Una storia, quella dell’indipendentismo scozzese, che origina sul finire del XIII secolo, con l’assogettamento formale del Regno per mano di Edoardo I Plantageneto (1239-1307), re d’Inghilterra, abilmente insinuatosi nella contesa dinastica alla morte di Alessandro III MacAlexander (1249-1286) e all’estinzione della discendenza reale, estintasi con la morte della piccola Margherita (1283-1290). Sfruttando le divisioni della nobiltà scozzese, Edoardo seppe sfruttare la situazione, favorendo l’elezione di Giovanni I Ballioll al fine di rendere la Scozia un Regno vassallo. Il Ballioll, benchè vicino alla corona inglese, rifiutò però di finanziarne la guerra in Francia (la celeberrima “Guerra dei Cento anni” del 1337-1453), alleandosi con quest’ultima. Fu il pretesto per l’invasione inglese, seguita dalla disfatta di Dumbar (1296) e dalla deposizione di Giovanni, con tanto di trasferimento della “Pietra del destino” (su cui s’incoronavano i re scozzesi) a Londra. Ma fu anche l’inizio della grande rivolta scozzese, sfociata in due guerre d’indipendenza (1296-1306 e 1332-1357), combattutte da coloro che oggi sono considerati i grandi eroi di Scozia, da William Wallace (1270-1305) ad Andrew de Moray (1265-1297) fino a Robert Bruce (1274-1329), il re che spezzò il giogo di Edoardo. Conflitti che videro le grandi vittorie di Starling Bridge (1297) e e Bannockburn (1314) e che permisero al Regno di Scozia di sopravvivere con l’ascesa degli Stuart, la casa reale che resse i destini dello Stato dal 1306 all’alba del XVII secolo.
Fu con Giacomo VI Stuart (1566-1625), figlio di Mary Stuart (1542-1597, fatta decapitare da Elisabetta I Tudor d’Inghilterra), che le due corone tornarono a coincidere. Un re scozzese, legittimo erede (per legami dinastici) dopo la morte di Elisabetta I (1533-1603), sedette anche sul trono inglese (1603). Fu l’inizio del crepuscolo.
Alla morte di Giacomo I (Giacomo VI di Scozia), il successore Carlo I (1600-1649) venne travolto (e decapitato nel 1649) dalla Guerra civile inglese (1642-1651), seguita dalla dittatura repubblicana di Oliver Cromwell (1599-1658) e dall’invasione e occupazione inglese della Scozia (1652-1660). Fu breve il sogno della restaurazione con Carlo II (1630-1685) e il ripristino formale dei due Regni sotto un’unica corona (1660). Nel 1685 Giacomo II (Giacomo VII di Scozia, 1633-1701), legittimo re d’Inghilterra e Scozia, fu deposto dalla “Gloriosa Rivoluzione” di Guglielmo d’Orange (1650-1702), ordita per abbattere il sovrano poichè cattolico.
In pochi anni all’Orange seguì l’ascesa della casata di Hannover (oggi Windsor, attuale casa regnante inglese) sul trono e la fine del Regno di Scozia, unificato nella Gran Bretagna; a nulla valse l’eroismo dei patrioti scozzesi, protagonisti dell’insurrezioni “giacobite” del 1715 e del 1745, splendidamente immortalate nel romanzo Kidnapped da R.L. Stevenson. Sorto a sostegno delle rivendicazioni del figlio di Giacomo II, Giacomo Francesco Edoardo (1688-1766), esiliato in Francia, il “Giacobinismo” ebbe l’ultimo grande sussulto nello sbarco di Carlo Edoardo Stuart (1720-1780), figlio di Giacomo, sconfitto duramente nell’impari battaglia di Culloden del 1746, quando migliaia di scozzesi all’arma bianca furono schiacciati dal fuoco delle carabine inglesi.
Da quel giorno la storia divenne leggenda e la leggenda mito; per decenni i patrioti scozzesi confidarono nel ritorno del principe Carlo Edoardo, l’amato Bonnie Prince Charlie, eternamente immortalato dalle note della celeberrima sinfonia “The skie boat song”. Una leggenda che si è trasmessa nei secoli tra i patrioti di Scozia, un popolo che il 18 Settembre verrà invitato a “parlare” e a dichiarare se vorrà essere ancora suddito di sua Maestà o scozzese indipendente.
Nicolò Dal Grande