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Europa meno austera – La scossa deve venire. Di L. Becchetti*

Le grandi manovre dei leader europei in vista di una modifica di fatto della “politica di austerità” proseguono. Angela Merkel ieri si è detta favorevole a una maggiore «flessibilità» nel rispetto del Fiscal Compact, su due aspetti. Il primo non rappresenta una novità: il Patto prevede – e la cancelliera tedesca lo ha ricordato – la possibilità di ammorbidire la riduzione del debito, tenendo conto del ciclo economico avverso. Il secondo, invece, un po’ nuovo lo è: frau Angela ha infatti aperto alla possibilità di una golden rule, cioè allo scorporo delle spese per investimenti in infrastrutture per quei Paesi – come l’Italia – che rispettano il limite del 3% del deficit.

Si tratta di un modesto successo in un’Eurozona che lentamente, e con colpevole ritardo, sta abbandonando i vecchi dogmi rigoristi, quelle rigidità che spiegano la differenza di performance della Ue rispetto a Giappone, Stati Uniti e allo stesso Regno Unito. Nel campo di regata dell’economia mondiale, tanto per capirci, gli Stati Uniti sono andati in direzione opposta alla nostra: non si sono fatti troppi problemi nell’aumentare la spesa pubblica e nell’adottare una politica monetaria espansiva. In questo modo hanno recuperato in poco più di 70 mesi tutta la disoccupazione creata dalla crisi finanziaria mondiale. Un sogno per noi italiani, che abbiamo visto crescere dal 9 al 13% l’esercito delle persone in cerca di lavoro. La barca dell’Eurozona, nello stesso periodo, è rimasta in stallo finendo nella triste bonaccia della deflazione e della stagnazione. Il rischio, ormai tangibile, se si continuasse su una linea che consente solo piccoli progressi nella direzione giusta, e di non riuscire a dare l’abbrivio necessario per riprendere la rotta.

Per questo motivo anche chi scrive questa nota ha deciso di partecipare con 14 colleghi economisti di diverso orientamento e di praticamente tutte le opinioni politiche a un comitato che presenterà giovedì quattro quesiti referendari. L’obiettivo è di dare una scossa. Favorendo l’abolizione non già del Fiscal Compact, ma delle regole di eccessivo rigore che ci siamo autoimposti: una in particolare, il pareggio di bilancio in Costituzione, risposta sbagliata alla verticale crisi in cui anche l’Italia era finita sotto il tiro della speculazione. Una fase difficilissima dalla quale siamo usciti non per il “pareggio”, ma per l’ormai arcinota dichiarazione con cui il presidente della Bce, Mario Draghi, annunciò di essere pronto a usare tutte le “munizioni” a sua disposizione per difendere l’euro.

I motivi per cui sollecitiamo il governo a una svolta più radicale, pur apprezzando la sua capacità di modificare in meglio gli atteggiamenti dei partner, sono molti. Il primo, e forse più importante, è che la Costituzione deve definire i fini e non i mezzi per raggiungerli, dato che i mezzi ottimali per raggiungere i fini possono cambiare, e di molto, a seconda del contesto e delle circostanze. Per capirci: l’equilibrio della finanza pubblica è un fine, il pareggio di bilancio un mezzo che persino Merkel, con le dichiarazioni di ieri, sembra ritenere eccessivo.
Il secondo motivo è che il Fiscal Compact ha prostrato i Paesi che doveva risollevare.

La Grecia, oggi in deflazione (-1,35% l’ultimo dato), e con un rapporto debito/Pil oltre il 177% e un tasso d’interesse sul debito calmierato al 3%, non ce la farà mai a rispettare le regole fissate: per farlo dovrebbe registrare una crescita superiore al 5-6%. Stesso discorso per il Portogallo: con un avanzo primario dello 0,4%, un tasso d’inflazione leggermente negativo, una crescita prevista dell’1,2% e un rapporto debito/Pil al 129%, dovrebbe crescere anch’esso più del 5%. L’Italia sta molto meglio di questi Paesi fratelli, ma come gli altri non è comunque in grado di soddisfare alla lettera i patti. Si dovesse partire oggi mancherebbero circa 30 miliardi, considerando l’avanzo primario al 2,2%, l’inflazione attorno allo 0,5% e un tasso di crescita annuo vicino allo zero. E se il mercanteggiamento di questi giorni non avrà buon esito, per trovare le risorse necessarie dovremmo varare una manovra che affosserebbe il nostro tentativo di ripresa.

Il terzo motivo è che l’obiettivo della cosiddetta “flessibilità” dà luogo a una trattativa opaca fondata su considerazioni del tutto opinabili. Come quella che fissa per l’Italia un livello di disoccupazione naturale sopra il 10% in modo da non esagerare nello sconto che ci può essere accordato nel tenere conto del “ciclo negativo”. A forza di non esagerare, dal 2007 al 2013, il Pil italiano è sceso di 8,5 punti percentuali, hanno chiuso quasi 2,9 milioni di imprese e, nonostante l’austerità (o a causa sua?) il rapporto debito-Pil è passato dal 103 a quasi il 133%.

Approfittiamo allora del clima dei Mondiali di calcio che ci affratella, dimostrandoci che i tifosi con i volti dipinti con i colori di ogni paese del mondo sono straordinariamente simili tra di loro. Ci salveremo solo se prenderemo coscienza di esser parte di un destino comune. La stessa consapevolezza che spinge gli abitanti dello Stato di New York, come ha ricordato Draghi, a contribuire al pagamento dei debiti degli abitanti dello Stato dell’Oklahoma. Abbiamo bisogno di più coraggio (e di più solidarietà) per superare i vecchi errori e salvare l’Europa.

Leonardo Becchetti.

*Si ringrazia Avvenire (23 Luglio 2014)

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