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La sfida della "nuova" Lega. di F.M. Agnoli

 E’ comune opinione che, oltre al trionfatore Pd, l’unico partito ad uscire vincente dalle elezioni europee sia stata la Lega Nord di Matteo Salvini. Insomma un successo dei due Mattei. Può essere vero a condizione di tenere presente che per la Lega il successo è solo in relazione ai più recenti precedenti e alle pessime aspettative. Dopo i guai anche penali di una parte della sua dirigenza e i tracolli elettorali patiti, si dava per certo che la Lega non sarebbe riuscita a superare la soglia del 4% fissata per l’ammissione al parlamento europeo tanto che i suoi amici (non si sa quanto autentici), col pretesto del suo radicamento solo in alcune regioni del paese, avevano proposto la cosiddetta  clausola “salva Lega”. Il progetto venne abbandonato strada facendo e la Lega, confermando le previsioni del suo segretario Salvini, ha dimostrato coi fatti di non averne bisogno. Anzi, dopo i tre big (Pd, M5S, Forza Italia) è stata l’unica a superare di slancio e con  ampio margine una soglia rivelatasi per molti, che pure ostentavano certezze, assai ardua e perigliosa.

    Vi è però un “ma”. A vincere non è stata  la Lega-Padania libera, ma la Lega-No Euro che, contro ogni previsione, ha raccolto anche al centro-sud consensi, certo non travolgenti nei numeri, ma comunque utili al risultato finale e a compensare almeno in parte quelli persi al nord rispetto ai tempi d’oro della Padania.

   Salvini ha, quindi, un problema da risolvere: conservare e magari aumentare i consensi raccolti dalla Lega No-Euro in particolare al centro sud, e al tempo stesso recuperare  la maggiore quantità  possibile di quelli persi nelle regioni  di tradizionale radicamento,  fra le Alpi e la linea gotica.

    Una strada potrebbe essere quella di accompagnare al mantenimento o al totale recupero del programma del “los von Rom” (la secessione della Padania dall’Italia) un’analoga proposta per il Sud attraverso  la secessione e l’indipendenza delle regioni che fino al 1860 facevano parte del Regno delle Due Sicilie e che da un paio di decenni mostrano a loro volta segni d’insofferenza verso il centralismo romano.

   Francamente un progetto di questo genere non sembra avere grandi speranze di successo. E’ vero che gli elettori italiani, dopo un quarantennio di cieca fedeltà, sono diventati molto volubili e che i consensi ottenuti dai tre big, in particolare dal Pd e dal M5S, sono nell’attuale consistenza tutt’altro che consolidati, ma non si può non prendere atto del dato emergente da tutte le ultime consultazioni: la sostanziale quanto meno indifferenza (potrebbe anche essere contrarietà) degli italiani, nordisti o sudisti che siano, per la secessione. Al momento (difficile ipotecare il futuro, ma impossibile prescindere dallo stato delle cose) secessione e indipendenza rappresentano soltanto, con la possibile eccezione del Veneto (anche questa però non comprovata da dati certi ed indiscutibili mentre il successo del Pd anche in questa regione va nella direzione opposta), l’aspirazione di piccoli gruppi, forse élites forse no, ma comunque estremamente minoritari.

    Probabilmente il percorso giusto è rappresentato dal definitivo superamento del pendolarismo fra secessione/indipendenza da una parte e federalismo dall’altra, che ha caratterizzato a lungo la  politica della Lega, rendendola ambigua ed incerta, per fare del federalismo (assieme al rifiuto dell’euro e di questa Europa, che vi sono sono perfettamente compatibili) il vero oggetto della proposta della Lega. Naturalmente un federalismo ampio ed autentico, magari contaminato, se occorresse per soddisfare le esigenze di alcuni dei partecipanti, da qualche elemento di confederalismo. Quindi un federalismo che avrà ben poco da vedere con l’attuale, assurdo pateracchio, che ha prodotto solo privilegi per la classe politica e ulteriori spese per i cittadini. Se poi in Veneto, terra di antico insediamento della Lega, l’aspirazione all’indipendenza fosse davvero così forte e diffusa come da alcuni si crede (in realtà anche chi scrive sente forte il fascino del  Leone di San Marco) anche questa aspirazione potrebbe trovare accoglienza nell’ambito di un federalismo, che, proprio perché autentico, potrebbe ammettere  declinazioni diverse e, quindi, forme differenziate di governo e di amministrazione nei territori  che compongono lo stato federale come già altrove avviene (cantoni in Svizzera, Laender in Germania, States in USA).

  Nessuno dubita che l’unificazione politica  tedesca  si sia pienamente realizzata il  18 gennaio 1871, eppure le varie componenti del Deutschses Kaisereich (monarchie, arciducati, ducati, città libere) avevano conservato proprie istituzioni e proprie regole. Addirittura il re di Baviera fino al 1918, cioè fino al cataclisma determinato dalla   “debellatio” dell’Impero  a seguito della sconfitta patita nella  prima guerra mondiale, teneva all’estero propri ambasciatori.

   Se questo è, come è, esatto non si vede perché la Lega non possa avanzare, facendone con chiarezza e senza ripensamenti e retromarce (questo è  essenziale) uno dei fulcri della sua azione politica, un programma federalista che contempli la presenza nell’Italia federale di una rinata Repubblica di San Marco o, più in generale, di tutte le entità territoriali che aspirino ad una indipendenza nei limiti di compatibilità, per altro assai vasti, con l’adesione ad uno Stato federale del modello prima accennato.

 Francesco Mario Agnoli

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