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Fedeltà è rimediare agli errori. L'Europa alla prova. di L Becchetti e G. Marini*

Anche a seguito della tempesta elettorale, una parte dell’opinione pubblica e del mondo economico nazionale sta rilanciando, giustamente preoccupata, l’invito alla “fedeltà europea”. Essere europeisti, però, non significa essere acquiescenti verso una politica europea sbagliata o assecondare una china che sta portando al fallimento dell’euro.
Essere europeisti, e impegnarsi per salvare l’Europa, significa anche, e in questa fase, soprattutto sottolineare quegli errori che, se non corretti rapidamente, porteranno al fallimento del progetto della moneta unica (che non coincide beninteso con l’Unione Europea, ma ne è senz’altro la componente più avanzata di integrazione). Gli errori sono molteplici.

Il primo errore è una sorta di peccato originale, frutto di un’impostazione ottimistica per la quale gli Stati “costituenti” della moneta unica avrebbero dato vita quasi naturalmente a un’area monetaria ottimale, ovvero a un insieme di Paesi caratterizzati da forte mobilità del lavoro e da choc simmetrici. La nascita dell’euro avrebbe, secondo questa logica, gradualmente portato a un’omogeneizzazione delle economie. Come sappiamo, per responsabilità sia dei Paesi del Nord sia dei Paesi del Sud Europa è accaduto esattamente il contrario. Senza il filtro di un cambio che compensasse la differenza di produttività dei due gruppi di Paesi, e senza un impegno alla convergenza di quelle produttività, i divari sono cresciuti anziché diminuiti.

Il secondo errore è un difetto di concezione delle politiche economiche correnti. In realtà, non esistono politiche macro universalmente e perennemente valide, ma solo iniziative e risposte opportune e ottimali in relazione alle mosse di politica economica dei nostri competitori. Ciò vuol dire che le strategie ottimali variano, vanno adeguate a quanto le altre potenze economiche decidono di fare. Ecco perché, a fronte delle audaci politiche espansive e di svalutazione del cambio di Giappone e Stati Uniti, l’assenza di una politica del tasso di cambio in Europa e la definizione di un Fiscal Compact senza meccanismi di compensazione e di solidarietà tra i Paesi membri stanno strozzando l’Unione.

L’errore – come sottolineato a più riprese su queste pagine – è in buona sostanza ideologico, frutto della teoria del “rigore espansivo” e della competitività sostenuta dalla riduzione del costo del lavoro (ma se tutti cercano di esportare di più abbassando il costo del lavoro e riducendo il potere d’acquisto dei propri cittadini, chi compra?). Il rigore espansivo prevede che una forte manovra di risanamento della finanza pubblica produca di per sé effetti di rilancio della domanda. Abbiamo visto invece come sta andando a finire: in Italia un percorso modello di rientro dal deficit ha prodotto una riduzione del Pil del 2,4% e persino la Germania ha visto nell’ultimo trimestre del 2012 il segno meno sul proprio Pil.

È dovuto intervenire il Fondo monetario internazionale con un quaderno di ricerca per dimostrare l’errore dell’ideologia del rigore espansivo e ribadire quello che sarebbe dovuto essere ovvio ai governanti europei, ovvero che ridurre la spesa ha effetti depressivi e non espansivi sull’economia e, pertanto, manovre di risanamento eccessive sono destinate a fallire quasi sul nascere con conseguenze disastrose su crescita e occupazione.

Questo ovviamente non vuol dire che dobbiamo pensare che non esista un vincolo di bilancio, ma semplicemente che non possiamo illuderci che mettere a posto il bilancio rilanci di per sé l’economia. Il Fondo sottolinea che è vero il contrario (cioè che il rilancio dell’economia aiuta l’equilibrio di bilancio) e, dunque, è necessario mettere in atto politiche complementari per compensare gli effetti depressivi del rigore sulla domanda interna.

Ecco perché, è necessario invertire in tempi stretti la rotta con politiche macroeconomiche molto più espansive che riequilibrino i saldi della bilancia commerciale tra i diversi Paesi membri, con la condivisione e trasformazione in debito comunitario di parte del debito dei paesi membri e con un bilancio comunitario molto più ambizioso in materia di investimenti e di spesa sociale.

Tutto questo non vuol dire che l’Italia e gli altri Paesi del Sud Europa non debbano fare ogni sforzo possibile per diventare più simili in termini di qualità di sistema economico ai Paesi del Nord, ma che senza questi correttivi alla situazione congiunturale, quello sforzo sarà vano e impossibile. Il primo passo è il ripensamento del Fiscal Compact, un patto-camicia di forza che è l’ennesima riprova dell’incapacità degli euroragionieri di capire che imporre sforzi sovrumani per cercare di ridurre il rapporto debito/Pil verso l’obiettivo (assurdo e senza senso del 60%) inevitabilmente porterà alla distruzione dell’euro. Il secondo è di ampliare i poteri della Banca centrale europea, che non può limitarsi a perseguire il solo obiettivo della stabilità dei prezzi. Questa visione limitata e nostalgica della Bce, che si dovrebbe preoccupare soltanto del controllo dell’inflazione, non è più adeguata nella realtà contemporanea e deve poter intervenire sia per abbattere lo spread che per evitare fluttuazioni del tasso di cambio non giustificate dai fondamentali economici:  non è più tollerabile assistere inermi alle operazioni speculative ai danni dei Paesi impegnati in pesanti manovre di risanamento. Il terzo errore è un’assenza.

L’assenza  di un vero meccanismo di solidarietà. Si può ancora parlare di “sistema equilibrato” quando la Germania ha un surplus nella propria bilancia dei pagamenti, per via della forza delle sue esportazioni, di 214 miliardi di dollari, e l’insieme dei Paesi del Nord di 500 miliardi di dollari, e non fa nulla per stimolare la domanda interna, cioè i consumi, nel proprio Paese e nel Sud d’Europa? È possibile continuare con politiche che consentono ai Paesi del Nord di finanziare i  propri debiti sovrani a tassi irrisori e continuare ad accumulare surplus commerciali mentre i Paesi del Sud, costretti a effettuare manovre recessive in una fase di recessione, sono per di più falcidiati dall’ampliamento dello spread?

L’Europa dei ragionieri sta rinnegando le proprie origini, quando si era stati capaci di andare oltre il calcolo col bilancino degli interessi nazionali. Tutte le volte che noi europei siamo stati capaci di fare questo, siamo anche stati capaci di produrre valore economico, valori morali ed uno spirito di solidarietà e fratellanza tra Paesi e popoli. È accaduto col Piano Marshall, con la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio e con l’avvio della Comunità Europea nel dopoguerra.  Forse, proprio come allora, abbiamo bisogno di un “grande choc” per risvegliare intelligenza, lungimiranza  e solidarietà. E purtroppo bisogna concludere che ci siamo ormai vicini.

Leonardo Becchetti e Giancarlo Marini
*Si ringrazia Avvenire (Marzo 2013)

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