A circa un mese di distanza dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, urge un’analisi del voto, che esamini a largo spettro i connessi scenari emergenti da detto quadro elettorale.
D’altra parte, il Parlamento Europeo, a causa del limitato ruolo ad esso attribuito all’interno dell’assetto istituzionale comunitario, assume rilevanza politica, soprattutto, se collegato ad un contesto più ampio quale è quello dell’Unione Europea tutta e dei suoi Paesi membri.
Senza che ci si soffermi eccessivamente sulle percentuali di voto in ordine ad ogni singolo Stato ed ai relativi partiti politici, è giusto muovere la disamina partendo, prima, da alcune macro-considerazioni, per poi scendere nel dettaglio.
È bene iniziare da una tanto semplicistico, quanto indispensabile in prima battuta d’analisi, distinguo dell’indirizzo di voto. Complice, per un verso, la propaganda elettorale e, per l’altro, l’attuale situazione di crisi economica, che ha visto il radicalizzarsi di posizioni estreme, possiamo dire che si è assistito ad un fenomeno di polarizzazione del voto espresso fra europeisti ed euroscettici (e/o eurocritici[1])[2].
Considerato il diffuso malcontento e la crescente impopolarità delle politiche d’austerità di matrice comunitaria, era legittimo, seppur eccessivamente superficiale, aspettarsi una forte affermazione dei movimenti politici antieuropeisti. In effetti, così è stato per un verso, ma non per un altro. Nonostante la crisi e il montare della protesta, difatti, i partiti europeisti (Popolari, Socialisti e Liberali) continuano ad essere maggioritari all’interno del Parlamento, seppur con un numero di seggi inferiore rispetto alla precedente tornata elettorale. Il PPE, malgrado sia stato il partito che ha subito più perdite, si è confermato, comunque, il più suffragato e chi prevedeva una possibile alternanza a favore dei Socialisti nel primato elettorale, è stato sconfessato dagli elettori che hanno, evidentemente, accomunato questi ultimi ai Popolari nel riconoscere loro le responsabilità della crisi della zona Euro.
Dall’altra parte della barricata, si segnala il previsto boom dei movimenti antieuropeisti, tra i quali, a dispetto del successo elettorale, si registrano, però, profonde divisioni in merito a valori e fini politici, che finiscono per ridimensionarne il positivo risultato elettorale. Essi, difatti, presentano un accumulo di distinte posizioni che vanno dall’opposizione alla moneta unica ad un più ampio rifiuto di tutto il processo di integrazione europea, da posizioni qualificabili come “di estrema destra”, a quelle di una sinistra radicale, che confermano una eterogenesi di principi e, quindi, di fini, che difficilmente permetterà una sommatoria delle varie posizioni.
Tali forze hanno, quindi, sì, incrementato il loro consenso popolare, tuttavia non dispongono ancora in Parlamento di quei numeri e di quella coesione utili a condizionare i processi decisionali.
Alla luce del quadro delineatosi, si concretizza la possibilità che all’interno del PE si vada verso la creazione di una “grande coalizione” fra i principali partiti europeisti, in direzione di una conferma dell’establishment europeo esistente.
Eppure, l’onda antieuropeista ha portato con sé importanti conseguenze, rintracciabili, soprattutto, al di fuori del contesto del Parlamento Europeo. Per la prima volta, si registra, in ben 5 dei 6 Paesi membri storici dell’Ue, un forte sentimento eurocritico. A tal proposito, emblematico è il caso francese, dove il Front National della Le Pen si è affermato quale primo partito e potrebbe creare una storica rottura nell’asse Parigi-Berlino, con tutte le conseguenze che si avrebbero in ordine al proseguimento del processo di integrazione europeo. Senza contare che la Germania, ed il suo Cancelliere, Angela Merkel, sarebbe, quindi, costretta a trovare un nuovo valido interlocutore, difficilmente rintracciabile tra le fila del PPE, ove c’è chi strizza l’occhio a tendenze eurocritiche (si veda Forza Italia o Fidezs), conducendo ad una sempre più probabile intesa con i Socialisti. Viene da chiedersi se questa possa rappresentare l’occasione per l’Italia e per Matteo Renzi, forte dello straordinario risultato del PD e dell’ormai prossimo semestre di Presidenza Europeo, di avviare un dialogo con la Germania in vista di una distensione delle politiche d’austerity.
Sebbene il voto europeo non sia stato nell’immediato un vero e proprio terremoto all’interno delle istituzioni comunitarie, diverso discorso vale, invece, per quanto riguarda gli Stati nazionali e per i futuri equilibri della stessa Unione Europea.
Ad un primo e veloce sguardo, si osserva come negli Stati nazionali sia saltato il tradizionale bipartitismo. Potrebbe, così, accadere che le spinte euroscettiche obblighino, anche i più convinti europeisti, ad aprire, almeno in parte, a modifiche delle policies interne ed ad istanze di matrice sovranista. Ciò comporterebbe, di certo, un rallentamento, se non un arresto vero e proprio, nel processo di integrazione delle politiche europee. Per non parlare delle ripercussioni sul funzionamento del Consiglio Europeo e sulle decisioni politiche che esso prende e dovrà prendere, con i governi nazionali preoccupati nel conservare gli equilibri interni e non lasciare troppo terreno ai movimenti euroscettici di casa propria. Si pone, quindi, il serio problema di come fare ad uscire dalla impasse dell’attuale crisi di fronte ad una simile prospettiva di incertezza ed indecisione.
In conclusione, le elezioni europee del 2014, difficilmente segneranno una svolta netta rispetto al percorso politico sino ad oggi consolidatosi. Lo status quo non sembra essere scalfito dall’esito del voto. L’exploit euroscettico avrà molto probabilmente l’effetto di un consolidamento del modello sui cui si basa il funzionamento dell’Unione Europea, ancora priva di un sistema politico dotato di una propria logica, e dove a farla da padrone continuano ad essere le pratiche intergovernative e tecnocratiche.
Resta, d’altronde, il problema per cui questo tipo di voto è ancora ampiamente ancorato alle logiche della competizione nazionale. Ciò è dovuto, anche, alla povertà del dibattito in termini di soluzioni politiche proposte a livello europeo, che ha condotto, in parte, ad una forma di un voto referendario sugli esecutivi in carica. Anzi, è proprio grazie all’affacciarsi dei movimenti euroscettici che il dibattito elettorale ha assunto una dimensione sovranazionale. Senza contare che l’Unione Europea continua, volutamente, a presentarsi come un ambiguo modello di sistema democratico, ove <<proclama i valori della democrazia, ne impone il rispetto agli Stati membri, ma li pratica con formule per così dire “originali[3]”>>.
Eppure, non si può negare che il voto del 25 maggio scorso abbia sancito, col boom euroscettico, un altro tipo di scelta referendaria. Il riferimento è, ovviamente, diretto alle politiche di austerity. Nei Paesi del Sud-Europa, quelli, cioè, maggiormente colpiti dalla crisi economica globale del 2008, si è manifestata una severa critica nei confronti dell’Ue, della sua moneta e delle sue politiche. Allo stesso modo, anche negli altri Paesi più filo-europeisti, un’ampia fetta dell’opinione pubblica ha comunque richiesto un’inversione di rotta, rispetto a quella prevalsa negli ultimi anni, basti guardare ai risultati dei già citati Ukip e Front National, ovvero dei movimenti antieuropeisti di Stati quali la Danimarca, l’Olanda, il Belgio o la Germania stessa.
Sebbene il voto dello scorso maggio abbia premiato un complessivo senso di continuità, sarebbe bene che la classe politica assumesse una volta per tutte una visione oggettiva e il più possibile condivisa delle ragioni profonde della crisi e dei suoi esiti. È necessaria un’ampia riforma dell’assetto istituzionale europeo e delle sue politiche, che la crisi stessa suggerisce nell’immediato e che a Bruxelles, Francoforte e Strasburgo non possono più permettersi di continuare ad ignorare.
Claudio Giovannico
[3] SALERNO G.M. – “Le elezioni del Parlamento Europeo del 2014: un risultato nel segno della continuità debole”, www.federalimi.it, 28/05/2014.