Quattro telegrammi, l’alias del destinatario, due indirizzi, due città di mare sulle sponde opposte del Mediterraneo, un piccolo nascondiglio.
Per centoquattro anni, cablo e buste sono rimasti nel retro di una fotografia incorniciata della Lanterna, virati al verderame, altri al tabacco. Trovati da chi scrive.
Le date: i quattro telegrammi, numerati progressivamente 47, 49, 50 e 56, sono stati inviati il 26, 29 e 30 settembre 1920 e il 9 dicembre 1920 a Luigi Amaro, pseudonimo di Luigi Romolo Sanguineti, nato a Lavagna nel 1883. I primi tre in via Galata 6, Genova, firmati De Ambris, capo di gabinetto del governo fiumano di Gabriele d’Annunzio. Il quarto, sempre a Genova, è stato consegnato in via Assarotti 38. Il mittente è illeggibile.
Quattro giorni qualunque, sul finire di un’avventura, l’ultima, del poeta e soldato, dopo il Volo su Vienna e la Beffa di Buccari, in risposta del Trattato di Versailles, che ignorò gli accordi del Patto di Londra tra Italia, Francia e Inghilterra per l’entrata in guerra del 24 maggio 1915? Forse.
Il primo. Numero 47 Quarantasette Stop. Nulla d’importante da segnalare. Stop.
Il secondo. Numero 49 Stop. Nessun nuovo caso peste. Ammalati tutti fuori pericolo.
Il terzo. Numero 50 Stop. Situazione sanitaria ottima. Stop. Nessun nuovo caso di peste. Stop. Stamani comandante ha ricevuto impiegati et funzionari presentatigli dal podestà. Pronunciò discorso applauditissimo. Stop. Del resto nessuna novità importante. Stop.
Il quarto. Numero 56 Stop. Blocco terrestre inasprito Stop. Però treni funzionano regolarmente. Stop.
Peste non è una parola in codice. A Fiume, nell’ottobre 1920, si manifestarono venti casi di contagio, identificati e isolati. Nonostante il divieto dei medici, d’Annunzio visitò i malati e non evitò, ma cercò, l’abbraccio. Un moribondo spirò il giorno dopo. Lo testimonia l’ufficiale del Commissariato Militare Vittorio Margonari nel libro Il Comandante, edito da Pirola nel 1926.
Con il blocco terrestre, il governo italiano mirava a prendere per fame la città dalmata. All’embargo rispondevano gli Uscocchi, i corsari dannunziani che, nell’ottobre 1919, avevano dirottato su Fiume il mercantile Persia carico di armi per l’URSS, restituito dietro riscatto di 12 milioni di lire, raccolti dall’industriale lombardo Borletti, proprietario dal 1917 della Rinascente, così ribattezzata da d’Annunzio, il cacciatorpediniere Bertani e i mercantili Baron Fejervary, Trapani e Cogne.
Chi era Luigi Amaro? Giovane mecenate di famiglia facoltosa, legionario vicinissimo al Vate, poi neuropsichiatra di fama internazionale, già fondatore di un movimento letterario in Liguria, rappresentante a Genova del governo fiumano. Non era uno qualunque. Nel 1918 aveva pubblicato Elégie héroique pour la mort de Gallieni, poema in memoria del generale francese, ministro della Guerra e Governatore militare di Parigi, morto nel 1916, con un ringraziamento -nientemeno!- di Guillaume Apollinaire, scomparso il 9 novembre dello stesso anno. Un migliaio di copie autografate ora introvabili se non a prezzo d’affezione.
Alceste De Ambris, 46 anni, interventista, era il fondatore del sindacalismo rivoluzionario e del movimento repubblicano e mazziniano novecentista, paladino in Europa e oltre oceano dei lavoratori, già parlamentare del Partito Socialista, cofondatore della U.I.L. e del Fascio d’azione rivoluzionaria, capo di gabinetto di Fiume, la “città olocausta” occupata manu militari il 12 settembre 1919 dal poeta-soldato, che l’aveva chiamato nel dicembre di quell’anno, per la redazione del Disegno di un nuovo ordinamento dello Stato Libero di Fiume.
Il testo, pubblicato il 30 agosto 1920, stampato a Roma da La Fionda, reca il motto Statutum et ordinatum est. Iuro Ego. Si Spiritum Pro Nobis Quis Contrs Nos?
La “mano” di De Ambris è un’impronta nella creta. Altrettanto è per quella di d’Annunzio. Un esempio: “Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale” (art.9)
La vita tumultuosa del sindacalista si era dipanata tra l’Italia, l’Europa e il Sudamerica inseguendo ideali di giustizia sociale, dalle battaglie nei latifondi parmensi a quelli dove lavoravano gli emigrati italiani, inseguito da mandati di cattura e decreti d’espulsione. De Ambris era convinto che l’Italia dovesse annettersi a Fiume e non viceversa. Un sognatore cui Oscar Wilde avrebbe spiegato che una carta del mondo senza il Paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l’Umanità approda di continuo.
Ci pensò Giovanni Giolitti, alla sua quinta e ultima presidenza del Consiglio, a chiudere, con il Trattato di Rapallo, l’intermezzo fiumano. Il 12 novembre 1920, Italia e Jugoslavia si accordarono: l’Italia otteneva la quasi totalità della Venezia Giulia rinunciava a quasi tutta la Dalmazia, tranne Zara e l’isola di Lagosta. La città di Fiume divenne Stato Libero.
Pochi giorni più tardi, fu il Natale di sangue del 1920: Fiume fu cannoneggiata dalle navi italiane Doria e Duilio. I legionari si arresero dopo aver perso una trentina di effettivi. Mussolini, che sarebbe dovuto intervenire a favore di d’Annunzio, altro non aspettava che di toglierlo di mezzo, invecchiato e sconfitto, pronto a trattarlo come un dente cariato: estirparlo o coprirlo d’oro. Il Vittoriale fu il confino dalla vita civile.
Il voltafaccia gli valse l’elezione, in Parlamento, nelle fila giolittiane, di oltre trenta fascisti.
De Ambris prese le distanze dalle camicie nere: fondò nel gennaio 1921 la Federazione dei legionari fiumani e, a maggio, si candidò alle politiche a Parma, senza alcun apparentamento. E andò male, anche per le altre forze che s’ispiravano a d’Annunzio -la Federazione italiana dei lavoratori del mare e l’Associazione Arditi- che mai- salvo nella primavera del 1922- assursero ad alternativa sindacalista nella profonda crisi dello Stato liberale, alla vigilia della marcia su Roma che sancì la fine politica per le opposizioni. Emigrato in Francia, coagulo di forze antifasciste, in contatto con Salvemini, Turati, Amendola, presidente della Ligue Italienne Des Droits de l’Homme, direttore di un settimanale, fondatore di una casa editrice, privato della cittadinanza italiana dal regime che ricorreva a ogni forma di discredito personale, morì improvvisamente nel 1934 a Brive, durante una riunione di esuli antifascisti. Fu traslato trent’anni dopo nel cimitero della Villetta di Parma.
Amaro morì a Lavagna il 6 settembre 1965, dopo una carriera scientifica di primo livello. La cultura lo ricorda per il mecenatismo e l’amicizia che lo legarono a Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, ritenuto da Eugenio Montale e da Camillo Sbarbaro, tra le voci più alte della poesia europea.
La domanda rimane senza risposta: chi ha nascosto i telegrammi e perché?
Donatello Bellomo