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A MEDIATOR DONATO NON SI GUARDA IN BOCCA. Di N.A. Somogyi

Nella lista delle candidature alla posizione aperta come “mediatore Kyiv-Mosca[1]” si è proposto anche il gruppo composto da sei Stati africani, più il presidente dell’Unione Africana. Vista l’ultima popolarità degli acronimi abusati dai media, gli stati del CUZESS (Senegal, Zambia, Uganda, Repubblica del Congo, Egitto e in testa Sud Africa) hanno fatto un tour-de-force nelle due capitali chiave delle tensioni. Il conflitto russo-ucraino tratta sì dei due paesi direttamente coinvolti, ma, come ben sappiamo, gli sviluppi geopolitici più intriganti accadono soprattutto a lato, cioè le azioni di quei paesi che sostengono o una fazione o l’altra. Nella società internazionale, nessuno riesce ad essere neutrale completamente, traspirando un pensiero o un messaggio involontario anche solamente con la scelta delle parole utilizzate. Forse, questo contesto fa sì che nessun mediatore è stato ancora scelto, dato che ogni volta le proposte sono state criticate da una fazione o l’altra, e l’innovazione nella candidatura africana sta proprio nella proposta collettiva invece di un singolo Stato/Mediatore. Novità, perché possiamo serenamente affermare che l’Unione Europa fin da subito ha preso le parti di Kyiv, perdendo subito la caratteristica fondamentale di un paciere, ergo almeno la neutralità anche se incongruente.

Iniziando l’analisi dai paesi CUZESS, le situazioni interne vanno da quello insolitamente più instabile da quello spensierato. Il Senegal è ai primi passi di una possibile guerra civile che potrebbe svilupparsi nel medio-breve periodo: i sostenitori di Ousmane Sonko, politico senegalese a capo dell’opposizione, hanno organizzato proteste violente contro il processo legale contro il loro leader. I manifestanti ritengono che gli arresti siano solo un tentativo di escluderlo dalle elezioni presidenziali previste per il prossimo febbraio, essendo il principale sfidante del presidente Macky Sall. Durante il processo al Palazzo di Giustizia di Dakar, inizialmente Sonko è stato accusato di aver commesso crimini di violenza sessuale, tale accusa è stata quasi immediatamente abbandonata, facendo sostituire le vecchie accuse con quelle di “corruzione di minori” (per la quale si guadagno due anni di reclusione), ovvero il reato di atti osceni in presenza o verso minori. Perciò, confrontando le accuse “violenza sessuale” e “corruzione di minore”, bene o male intendono un contesto, finalità e reati simili, ma la differenza è sulle modalità: la violenza sessuale implica l’uso della forza o della minaccia per costringere qualcuno a compiere o subire atti sessuali, mentre la corruzione di minorenne riguarda il compimento di atti sessuali in presenza di un minore al fine di farlo assistere. Ergo, più difficilmente dimostrabile (e più semplice da imputare) nel caso di Sonko. Parlando esclusivamente dal punto di vista politico, accusare il leader dell’opposizione di un crimine più astratto rispetto ad una violenza concreta, dà l’impressione che si stia cercando in ogni modo un pretesto per incarcerare qualcuno proprio per tutta la durata del periodo della campagna elettorale e per le elezioni stesse. Infatti, i sostenitori del partito di opposizione hanno dimostrato i loro dubbi nei confronti dei processi legali.

In Uganda, un attacco terroristico rivendicata dall’ADF (Allied Democratic Forces, gruppo che lotta contro il governo centrale fin dal 1996) ha colpito una scuola, causando la morte di 41 persone, di cui 38 bambini. L’Egitto sembra mantenere una certa stabilità interna, anche se l’attenzione mediatica si concentri ancora ed esclusivamente sulle vicende di Zaki laureando, ma, parallelamente, ignorando le notizie inerenti ai finanziamenti dell’Unione Europea di 20 milioni di euro in sostegno all’afflusso di profughi derivanti dalla guerra civile nel paese confinante a sud. È importante sottolineare che i disordini nel Sudan continuano anche se ormai i mass-media ne hanno perso l’interesse. Come descritto nel precedente articolo “Solo col Kintsugi si salva il Sudan” dello scorso 2 maggio: «dal 2021 in poi, il senso d’emergenza delle nazioni è diventato più sostanziale, quasi per paura di “non aver previsto il peggio”». Come volevasi dimostrare, i disordini sono continuati, il senso d’emergenza è subito calato alla norma e i media hanno perso l’interesse, in modo che quel momento di allarmismo è andato a sfociarsi, di nuovo, in un’indifferenza tale che molti non si ricordano nemmeno quale sia la capitale del Sudan.

Negli altri due Stati il contesto interno non ha subito innovazioni particolari. Nella Repubblica del Congo il sistema personalistico del presidente Denis Sassou Nguesso non ha subito intoppi. Nguesso, nel fiore dei suoi 80 anni, governa ancora il paese sin dai 1979 (ad esclusione di una piccola pausa di 5 anni durante questo lasso di tempo corrispondente a poco meno di mezzo secolo). In generale, dalla guerra civile e il successivo cessate il fuoco nel biennio 2016-2017 la situazione interna è piuttosto stabile. Per Lusaka, invece, oltre le restrizioni o difficoltà solite nell’ambito dei diritti umani, attualmente si celebra la qualificazione alla Coppa d’Africa; inoltre, dal punto di vista economico, è stata appena commissionata una centrale idroelettrica realizzata dalla Cina, dato il deficit energetico che caratterizza il paese.

Per capire la posizione con la quale i CUZESS si sono presentati agli incontri, nelle quali hanno direttamente incontrato Zelens’kyj e Putin, bisogna analizzare prima i loro rapporti con il fronte Eurasiatico ed Occidentale. L’Egitto, grazie alla sua posizione strategica (la quale gli procura un certo rilievo sulla scena globale, oltre una certa fama per gli ingorghi navali, ma questo è un altro discorso), ha tessuto una fitta rete di relazioni internazionali che accoglie tutti e due le fronti, beneficiando in primis del sostegno militare sia di Washington che di quello di Mosca. Nel corso degli anni, al-Qāhira (Il Cairo) ha sviluppato legami positivi con la Russia, con la quale ha siglato e consolidato diverse intese di cooperazione economica, militare e culturale: un esempio emblematico è rappresentato dall’accordo del 2018 per la costruzione di una centrale nucleare a El Dabaa. Al contempo, l’Egitto ha mantenuto stretti legami con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, creandosi una situazione di limbo, nella quale, però, riesce a ricevere vantaggi da tutti e due i fronti.

Il Senegal ha stabilito legami solidi con la Francia (ovviamente sempre molto paritari), gli Stati Uniti e l’Unione Europea, mentre quelli con Mosca sono piuttosto limitati, e focalizzati principalmente sulla cooperazione economica. Lo stesso discorso vale per lo Zambia, il quale ha sì mantenuto relazioni diplomatiche stabili e proficue con la Russia, ma la cooperazione tra i due è stata relativamente limitata rispetto agli altri paesi africani. Allo stesso tempo, lo Zambia ha instaurato rapporti favoreggianti con gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Unione Europea, in una cooperazione diretta sia in campo politico, ma anche nel settore dello sviluppo, dell’assistenza umanitaria e degli investimenti. La Repubblica del Congo (chiamato anche Congo-Brazzaville, da non confondere con il Congo-Kinshasa dove è morto l’ambasciatore Luca Attanasio) ha sviluppato relazioni amichevoli con la Russia, focalizzando la loro cooperazione in ambiti chiave per l’economia, come quello dell’energia, le infrastrutture e il commercio. Nel 2019, il presidente congolese Denis Sassou Nguesso ha compiuto una visita ufficiale in Russia, incontrando sia Volodin che Putin stesso, per rafforzare i legami bilaterali e promuovere gli investimenti russi nel settore energetico, appresentando un importante passo in avanti nella collaborazione tra i due paesi. Parallelamente il Congo-Brazzaville, ha mantenuto relazioni stabili con la Francia e gli altri paesi europei (in maniera più blanda). Infine, l’Uganda ha instaurato relazioni cordiali con la Russia, con un’attenzione particolare alla cooperazione militare, economica e commerciale. Nel corso del 2019, il presidente ugandese Yoweri Museveni, proprio l’omologo congolese Nguesso, ha compiuto una visita ufficiale in Russia, ma stavolta il focus è andato sul consolidamento delle relazioni statali in ambito militare e commerciale. Kampala ha beneficiato del sostegno anche dall’altra parte, vale a dire dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea, soprattutto per investimenti nella sicurezza, sviluppo socioeconomico e tutela dei diritti umani.

Il Sudafrica, pur mantenendo relazioni diplomatiche con la Russia, si distingue per un grado di interazione meno intenso rispetto ad altri paesi africani. Pretoria fu una dei partecipanti del vertice di Soči nel 2019, con la presenza sia di Vladimir Putin, ma anche del presidente Al-Sisi e di altri quarantatré leader africani. Il vertice si concluse con dichiarazioni programmatiche che potrebbero, in un prossimo futuro, rappresentare un rilancio dell’attività del Cremlino in un quadrante geopolitico, oltre alle questioni economiche, lotta al terrorismo e del generale sostegno di Mosca nel continente e in particolare in zone vulnerabili come nel Sahel o nella crisi libica.

Il Sud Africa fa da capo alle mediazioni proposte del gruppo CUSSEZ (anche se è presente anche il capo dell’UA, ma il suo ruolo è più di supporto e di rappresentanza). Però, per quanto riguarda i rapporti tra Sud Africa e la Russia, questi sono bloccati alle ultime vicende del prossimo vertice BRICS. I giornali hanno posto le loro attenzioni alle parole “Pretoria vuole dare l’immunità a Putin” e hanno deciso di non elaborare oltre. A fine agosto, i paesi del BRICS hanno programmato il summit annuale dove vi sono due aspetti inconciliabili da tenere in considerazione: il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale per il presidente russo, alla quale Convenzione era stato firmato e ratificato dal Sudafrica e il ruolo della Russia nell’associazione. Date le poche certezze che si hanno nel contesto internazionale, le consuetudini, seppur astratte, cercano di dare una forma alla nube di anarchia che assoggetta le relazioni fra gli Stati. Una norma fra queste è la condotta del “pacta sunt servanda”, e sarebbe davvero disdicevole non rispettare nemmeno questa regola consuetudinaria. L’altro aspetto, invece, è che fin dall’inizio dei conflitti tra Kyiv e Mosca, agli occhi internazionali la Russia non è stata altro che il suo presidente: ma questa nazione è uno dei membri fondatori dell’associazione fin dal 2006, periodo in cui l’Unione Europea vedeva ancora in Mosca un possibile coinquilino con la quale valeva la pena ancora negoziare accordi di partenariato e cooperazione, nonostante all’epoca ci fossero tensioni, come le misure protezionistiche del pollo polacco e sulla vodka estone o le prime lamentele europee per i diritti della libertà di stampa. I paesi occidentali hanno visto sempre con un certo velo di sospetto l’associazione dei paesi BRICS: come ben sappiamo, i modi di approcciarsi ai nuovi partner commerciali dei sei paesi membri è sempre stato differente dai metodi tradizionali occidentali. Il primo fra tutti, la Cina, è sempre stata flessibile alle condizioni dei diritti umani, anzi, per ogni rapporti commerciali imponeva poche condizioni (in più, nella maggior parte dei casi non le si sanno proprio, oltre alle parti coinvolte nell’accordo), ma in linee generali, si sa che queste condizioni contrattuali prevedono la non interferenza negli affari interni della propria controparte commerciale. Quindi, i paesi occidentali perché non dovrebbero vedere la possibilità di mettere a disagio, se non addirittura punzecchiare le riunioni, sperando magari in qualche tensione interna fra i paesi BRICS? Detto ciò, non stupisce che Cyril Ramaphosa, l’attuale presidente del Sudafrica, cerchi sia di tutelare uno dei capisaldi della BRICS ma anche di fare da testa al movimento africano di mediazione. Ma, per accontentare tutti e non incorrere in tensioni con nessune, la decisione più diplomatica e neutrale (anche la più semplice) che il presidente Sudafricano poteva prendere è quello di convertire il vertice BRICS ad una modalità online quest’anno.

In questo contesto teso in cui puntare il dito sembra diventato un nuovo hobby, la candidatura africana come mediatore del conflitto ha incontrato una serie e numerose difficoltà, come tutti gli altri possibili-mediatori prima di loro. Avevano un piano semplice quanto poco accurato: chiedere la fine della guerra, nulla che non fosse già stato tentato e proposto dopo un anno e mezzo di guerra. Questo tentativo (arrivato con i tempi di Internet Explorer e conclusosi in poche ore) hanno portato a casa scarsi raccolti e abbondanti delusioni. Gli incontri a Kyiv e a San Pietroburgo si sono svolti a metà giugno e in soli 48 ore (alla faccia dei turisti “mordi e fuggi” della Transnistria e dei loro visti particolarmente effimeri). I dialoghi davano l’impressione di essere paralleli (nel senso che non si incrociavano mai) e possono essere paragonati a un qualsiasi litigio su Facebook nella sezione commenti: ognuno è imprigionato in un loop di monologhi. Da una parte, i paesi del CUSSEZ hanno chiesto di cessare il conflitto e hanno espresso le loro preoccupazioni per la crisi alimentare che coinvolge il continente (soprattutto le zone vulnerabili). In Parallelo, il presidente ucraino e quello russo hanno eluso gli argomenti sulla tavola delle discussioni: Zelens’kyj ha focalizzato il dibattito sul destino dei prigionieri politici, ritenendolo «un buon risultato della vostra missione», mentre Putin ha interrotto le parole di Ramaphosa per puntualizzare che le quantità scarse di cereali importabili solo imputabili ai paesi Occidentali. L’incontro in ogni caso si è concluso con l’apprezzamento del presidente russo per l’«equilibrato degli amici africani nei confronti della crisi ucraina». Parole consolanti per i paesi del CUSSEZ, ma pur sempre equivalenti a un premio di consolazione da portarsi a casa, insieme ai sacchi interi di delusioni. Dal punto di vista degli interessi interni al continente africano, però, un esile successo è stato quello di riportare alla visibilità internazionale la crisi alimentare. In sintesi, nella “To do list” della mediazione CUSSEZ troviamo: raggiungere il cessate il fuoco? Fallito. Ottenere il premio “paciere del conflitto”? Fallito. Riportare all’attenzione mondiale della crisi alimentare? Successo. Risolta? No.

Numerosi paesi si sono offerti come mediatori, oltre che per motivi morali ed economici (chi più chi meno ha subito ristrettezze), lo hanno fatto anche per cercare quel prestigio internazionale che potrebbe derivarne. Sarebbero definiti come l’ultimo “Eroe”, ai livelli della Marvel, il quale è riuscito a risolvere il conflitto che ha riportato in Europa di nuovo la guerra, colui che è riuscito a risolvere l’irrisolvibile. Un titolo del genere farebbe comodo a chiunque. Però, a vedere tutte le mediazioni che si sono offerte finora, come quelle della Turchia, Cina, Israele o di altri singoli paesi europei, non ne è stato apprezzato nemmeno uno (guardando in bocca al caval donato, mostrando sfiducia e insoddisfazione verso la mediazione offerta, portandoli a declinarli tutti). Dato che il conflitto non dà segnali concreti di concludersi nel brevissimo periodo, prossimamente vedremmo altri attori internazionali a proporsi. Forse, il problema non è nemmeno il non aver apprezzato i cavalli donati, forse le parti in conflitto non vogliono proprio cavalli, probabilmente accetterebbero più volentieri dei Leopard-I.

N.A. Somogyi

[1] lasceremo la denominazione italiana della capitale russa, dato che Moskva potrebbe essere confuso con l’incrociatore lanciamissili

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