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QUATTRO IPOTESI PER LA RIFORMA COSTITUZIONALE. Di Francesco Mario Agnoli

La progettata riforma costituzionale, che muove i primi passi con la consultazione – se così la si può definire – dei partiti di opposizione, ha di mira, secondo le dichiarazioni ufficiali, il rafforzamento della governabilità cioè, in concreto, del potere esecutivo, in particolare per quanto riguarda la sua durata nel tempo (tendenzialmente per l’intero arco della legislatura), e il rilancio della partecipazione dei cittadini alla vita politica del paese (in termini più aulici “restituire centralità alla sovranità popolare”, come ha detto Giorgia Meloni nel discorso programmatico del 25 ottobre 2022, o, più terra terra, ridurre l’astensionismo). In realtà da tempo i partiti che compongono l’attuale maggioranza sollecitavano la trasformazione del sistema in senso presidenzialista, indicando come modello-base ora quello statunitense, ora quello francese, da alcuni definito, forse più esattamente, “semipresidenzialista”. Più di recente a queste ipotesi si è aggiunta, addirittura come potenzialmente preferibile, il “premierato”, che, secondo il (contestato) parere di alcuni costituzionalisti, avrebbe il pregio di non incidere sull’attuale posizione, da molti oppositori considerata intoccabile usque ad proelium, del Presidente della Repubblica quale supremo organo di garanzia. Da ultimo, anche per effetto delle consultazioni con i partiti di opposizione, uno dei quali vi si è detto non pregiudizialmente contrario, è entrato in gioco il “cancellierato” alla tedesca.

Finché la maggioranza non concretizzerà una precisa proposta riformatrice in un disegno di legge tutte le strade restano aperte, ma, salvo possibili commistioni fra l’una e l’altra e qualche variazione sul tema, difficilmente la soluzione potrà discostarsi molto da uno di questi modelli, anche perché la riforma resta comunque condizionata dai paletti di norme costituzionali che, almeno fino a oggi, nessuno propone di rimuovere. A cominciare da quelle in forza delle quali il popolo sovrano esercita la sua sovranità principalmente attraverso propri rappresentanti anche se la riforma sembra destinata (tranne l’ipotesi del cancellierato) ad aumentare i casi di esercizio diretto e non per delega, il che potrebbe in qualche misura incidere (secondo alcuni, facendola addirittura venire meno) sulla definizione della nostra repubblica come “parlamentare”. Questo esercizio diretto della sovranità popolare è particolarmente rilevante nel presidenzialismo, che tanto nel modello statunitense che in quello francese attribuisce, appunto, al corpo elettorale l’elezione diretta del Capo dello Stato. Le differenze principali fra il presidenzialismo americano e il cosiddetto semi-presidenzialismo francese stanno soprattutto nella misura e nelle forme in cui il presidente della Repubblica partecipa all’attività di governo, che in Francia resta in rilevante misura intestata al presidente del Consiglio, e nei rapporti con i rappresentanti del popolo (il Congresso in America, l’Assemblea nazionale in Francia).

E’ evidente che presidenzialismo e semi-presidenzialismo sono comunque, quali che siano cioè le altre variazioni che inevitabilmente accompagneranno la riforma, destinati ad incidere positivamente – nel senso di un loro aumento – sui poteri del Capo dello Stato, espressione diretta della volontà popolare, e negativamente, riducendoli, sui poteri del Parlamento se non per altro (ma vi è anche altro) per il venir meno di quanto previsto dall’attuale art. 83 della Costituzione, che gli attribuisce, in seduta comune e con la partecipazione dei delegati regionali, l’elezione del Presidente della Repubblica. Non incide invece necessariamente sulla funzione legislativa, che continua ad essere esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70) anche se indubbiamente l’elezione diretta da parte del popolo non può che rafforzare la tendenza, di fatto già in atto, di attribuire una maggiore partecipazione alla formazione delle leggi all’esecutivo, comprensivo – in varia misura a seconda del modello scelto – del Capo dello Stato.

Al contrario, il “premierato” (il sistema trova attualmente non troppo felice applicazione nello Stato d’Israele), con l’attribuire agli elettori la scelta diretta del Capo del governo (Presidente del Consiglio), incide in maniera riduttiva sulle funzioni tanto del Presidente della Repubblica quanto del Parlamento. Il primo verrebbe privato del potere di nomina del Presidente del Consiglio e, verosimilmente anche dei ministri, attualmente attribuitogli dall’art. 92 (su proposta del Presidente del Consiglio per quanto riguarda i ministri) nonché di quello di scioglimento delle Camere (attuale art. 88). Il secondo uscirebbe dalla riforma indebolito nei rapporti con un Presidente del Consiglio direttamente eletto dal popolo, quali che siano le modifiche, comunque inevitabili, apportate all’attuale testo dell’art. 94 (“il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”).

Come si è accennato, l’esito della consultazione dei partiti di opposizione ha messo al centro dell’attenzione anche il cancellierato alla tedesca, che trova il suo punto qualificante nella cosiddetta “sfiducia costruttiva”, che consente al Parlamento (Bundestag) di sfiduciare il Cancelliere federale in carica soltanto quando elegge a maggioranza dei suoi membri un successore, con contestuale richiesta al Presidente federale, tenuto ad aderire, di revoca del Cancelliere sfiduciato e di nomina del nuovo eletto (art. 67 della Legge Fondamentale).

Dando per scontato, sulla base delle dichiarazioni programmatiche di Giorgia Meloni, che comunque, ci stiano o no le opposizioni, la maggioranza metterà in campo un progetto di riforma, sena accontentarsi – come invece proposto da alcuni politici e costituzionalisti– di una semplice modifica del sistema elettorale, sembra superfluo porsi in questa sede, pur senza negarne il rilievo politico, la domanda se davvero vi sia necessità di una migliore funzionalità del sistema (in realtà su questo punto la risposta positiva sembra scontata) e se (qui la risposta è molto più dubbia) i necessari miglioramenti siano effettivamente conseguibili attraverso l’applicazione di uno dei modelli indicati. Modelli che offrono una pur limitata possibilità di scelta, da logicamente effettuare in base alla loro maggiore o minore capacità di conseguire i fini che giustificano un intervento sulla legge fondamentale dello Stato senza però trascurare il dato della loro più o meno agevole realizzabilità in base alla molto pratica considerazione che quanto più drastici saranno i mutamenti proposti tanto più arduo sarà portare a termine una riforma sempre a rischio di approdare al medesimo nulla di fatto di precedenti, pur altrettanto ambiziosi tentativi (la Costituzione è stata sì nel corso degli anni oggetto di vari interventi di modifica condotti felicemente – o infelicemente – in porto, ma senza incidere troppo sul suo assetto di base).

E’ indubbio che il presidenzialismo, anche nella forma, per così dire minore, del semi-presidenzialismo alla francese, consegue al più alto livello possibile il rafforzamento del potere esecutivo, del quale entra a far parte in maniera ben più decisa e decisiva di quanto comportino le sue attuali competenze il Presidente della Repubblica. Sostanzialmente un aumento anche dei poteri oggi spettanti al Presidente, che però, proprio per questa nuova qualità di organo di vertice del potere esecutivo, patisce la forte diminuzione o addirittura la perdita, anche se continuasse ad esercitare le funzioni connesse al legislativo e al giudiziario, del ruolo di organo di garanzia, senza dubbio il più rilevante attribuitogli dalla Costituzione vigente. Un ruolo che resterebbe affidato soltanto (o quasi) alla Corte costituzionale e alla Magistratura.

Il presidenzialismo incide invece riduttivamente sui poteri del Parlamento, l’organo attraverso il quale si esercita la sovranità popolare, ma per i cittadini, titolari di questa sovranità, questa apparente sottrazione è ampiamente compensata dall’elezione diretta di quello che si conferma, non solo formalmente ma a tutti gli effetti, inclusi quelli “politici”, il primo e fondamentale organo dello Stato. E’ proprio questo allettante mutamento a rendere molto probabile una sostanziale riduzione del cosiddetto astensionismo, che tanto preoccupa (così almeno affermano i rappresentanti di tutti i partiti) per il buon funzionamento se non addirittura per la sopravvivenza di una effettiva democrazia. Un risultato conseguibile, in misura più o meno analoga, anche dall’elezione diretta del premier, che tuttavia pone, in concreto, più gravi problemi di corretto funzionamento del sistema nonostante che, da un punto di vista normativo, non comporti di necessità interventi riduttivi dei poteri del Parlamento e del Presidente della Repubblica per quanto riguarda le rispettive funzioni legislative e di garanzia, essendo i mutamenti riduttivi limitati alle funzioni di governo. Di fatto il “premierato”, pur lasciando formalmente al vertice dello Stato il presidente della Repubblica, realizza una forma di diarchia con due rappresentanti apicali, uno dei quali eletto direttamente dal popolo sovrano e l’altro soltanto dai suoi rappresentanti con una potenziale situazione di conflitto, inevitabilmente destinata ad una soluzione “politica” favorevole all’eletto del popolo, quindi, nel caso del “premierato” all’italiana, a favore del cosiddetto “Sindaco d’Italia”. Esattamente il contrario di quanto avviene col semi-presidenzialismo francese, che attribuisce ai cittadini l’elezione del Capo dello Stato e al Parlamento quella del Capo del Governo.

L’ultima opzione, il cancellierato alla tedesca, riesce ad assicurare l’esigenza di una maggiore governabilità data l’immediatezza della successione di un governo pienamente operativo all’altro senza sostanzialmente modificare le prerogative del Presidente della Repubblica e, soprattutto, senza toccare la centralità del Parlamento. Tuttavia, proprio per questo non rafforza la “centralità della sovranità popolare” se addirittura non la diminuisce dal momento che attribuisce ai rappresentanti del popolo sovrano il potere di cambiare il governo originariamente da lui scelto senza consultare i rappresentati, cioè il corpo elettorale. Di qui uno scarso appeal sui cittadini-elettori con conseguente, probabile fallimento del progetto (se davvero coltivato) di riduzione dell’astensionismo. Per converso, il pregio di necessitare di interventi minori di numero e meno drastici sul testo costituzionale e, quindi, di assicurare un cammino del progetto di riforma più agevole e più idoneo ad evitare il nulla di fatto cui, come si è già accennato, sono nel corso degli anni approdate sia le vagheggiate e mai concretizzate ipotesi di nuove Assemblee costituenti sia le “Commissioni parlamentari per le riforme costituzionali”, cioè le cosiddette “Bicamerali”: Bozzi (1983-86), De Mita-Iotti (1993-1994), D’Alema (1997-98), cui si potrebbero aggiungere le proposte e abortite commissioni Rutelli (2012) e Quagliariello (a seguito della caduta del governo Letta il progetto di quest’ultima lasciò il posto al disegno di legge, direttamente ex art. 183 senza commissioni preparatorie e intermediarie, Renzi-Boschi, il cui disastroso fallimento in sede referendaria appartiene alla storia repubblicana più recente).

Francesco Mario Agnoli

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