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IL GLOBALISMO COME L’ATLANTISMO? UN’ANALISI GEOPOLITICA. Di Lorenzo Maria Pacini

Possibilità della globalizzazione come stadio supremo dell’atlantismo e trionfo della talassocrazia

Nel contesto della riflessione attuale sulla geopolitica e sulle ideologie politiche, occorre intraprendere ora un’analisi geopolitica del fenomeno della globalizzazione: per farlo bisogna collocarlo in un sistema di coordinate geopolitiche e correlarlo con uno spazio qualitativo. Nel descrivere il globalismo come fenomeno, si tende ad evitare qualsiasi parallelo, anche ovvio, con la geopolitica al fine di descrivere un quadro oggettivo, utilizzando quei criteri e concetti che vengono solitamente utilizzati in un’analisi generale dei fenomeni legati alla globalizzazione.

Se correliamo tutti gli aspetti della globalizzazione (la sua definizione, il background, le teorie, gli stadi, le fasi di istituzionalizzazione, forme ideologiche nelle strutture del mondialismo) con i vettori geopolitici (binomio Terra/Mare tipico della geopolitica classica), arriveremo immediatamente e senza esitazione a una definizione univoca e ad una inconfutabile conclusione: il fenomeno della globalizzazione è un progetto strettamente talassocratico, cioè rispondente agli interessi e ai valori della Civiltà del Mare, delle talassocrazie; la sua natura è indissolubilmente legata all’atlantismo, la portata planetaria non significa altro che il desiderio di completare la vittoria assoluta e completa del Mare sulla Terra sotto forma di una struttura politica, sociale, economica e giuridica irreversibile e legalizzata.

Dal punto di vista della geopolitica, la globalizzazione è sinonimo di un mondo unipolare, poiché tutte le versioni esistenti di globalismo e società globale si riferiscono solamente al paradigma della civiltà occidentale nella sua forma talassocratica anglosassone. Di solito si parla di mondo unipolare quando si tratta di affermare il dominio diretto degli Stati Uniti come Stato-Nazione su scala globale senza riguardo per gli altri partecipanti alla politica mondiale, che sono ovviamente inferiori agli Stati Uniti a tutti gli effetti[1].

Inteso in questo modo, l’unipolarismo coincide con la piattaforma della destra repubblicana statunitense, e in particolare dei neoconservatori: durante la presidenza di George W. Bush, questa è stata praticamente la posizione ufficiale della amministrazione statunitense. L’unipolarità in questo caso è essenzialmente l’istituzione degli Stati Uniti come impero mondiale, un baluardo dell’ordine in un mare di caos, con cui chiunque non voglia subire l’“ira di una superpotenza” deve accettare un rapporto di vassallaggio. Al centro di questo approccio c’è l’idea dell’imperialismo classico dell’era capitalista, quando uno Stato-Nazione costruisce una politica coloniale nei suoi interessi individuali, non dovendosi confrontare con nessun altro attore, mancando quest’ultimo di potere o ragioni strategiche o economiche per sostenere un confronto.

L’analisi geopolitica di questa unipolarità mostra come si fondi su un contesto storico, sociologico e strategico più ampio e sia la somma di tutto un ventaglio di tendenze che hanno progressivamente portato gli Stati Uniti a diventare l’avanguardia della Civiltà del Mare.

In alcune versioni del globalismo e in alcuni progetti mondialisti[2] l’atlantismo e l’affermazione del dominio mondiale anglosassone sono presenti in modo palese, in altre versioni invece sono nascoste sotto formulazioni più vaghe, perlomeno dal punto di vista geopolitico; quasi ovunque (persino nei progetti alterglobalisti e antiglobalisti) vediamo un tipico insieme di valori della Civiltà del Mare, ove l’Occidente è assunto come valore assoluto e universale, i suoi interessi strategici si identificano con quelli mondiali, la società liberalcapitalista è considerata normativa e, quando criticata, è comunque definita come inevitabile e in ogni caso più auspicabile (dicasi “più evoluta”) di altri tipi storici di società.

Pertanto, tutte le versioni considerate della globalizzazione, nessuna esclusa, ci consentono di pensare a questo fenomeno come al culmine della geopolitica atlantica, che in certo momento storico ha raggiunto il suo obiettivo originariamente prefissato. La Civiltà del Mare è più vicina che mai alla soluzione del suo compito principale: il dominio totale del mondo da parte dell’Occidente, all’interno del quale il polo angloamericano ha la priorità assoluta.

I teorici del Sea Power, fra cui spiccano Mahan, Mackinder, Spykman, Brzezinski, Bowman, Burnham, hanno previsto uno scenario positivo degli eventi in modo molto preciso: il Mare prende il controllo del Rimland, quindi blocca l’Heartland all’interno del segmento nord-orientale dell’Eurasia, privandolo dell’accesso ai mari caldi e del controllo degli oceani. Inoltre, un’efficace coalizione strategica viene costruita attorno all’Heartland fino a quando, alla fine, la Russia-Eurasia soccombe ai trucchi mondialisti dello “sviluppo sostenibile”, perde il controllo sui suoi territori e crolla rapidamente. Non resta che stabilire il controllo atlantista sullo spazio sgomberato in Europa orientale, attraverso l’adesione dei Paesi dell’ex campo socialista alla NATO, portare gradualmente anche i Paesi della CSI nella NATO e consolidare la vittoria con il crollo finale della Federazione Russa[3].

Questa è la decodifica geopolitica della globalizzazione: la vittoria finale e irreversibile dell’atlantismo, che diventa globale e passa alla soluzione di problemi completamente diversi. La Civiltà della Terra perde bruscamente di qualsiasi significato, si riduce in qualcosa di secondario e tecnico, poiché la stessa profonda tensione planetaria bruscamente smette di esistere. Rimane il Mare e soltanto il Mare. A tutto ciò si collega il fatto che, nel contesto del globalismo e del mondialismo in questa nuova fase, la geopolitica sarà usata raramente e i suoi metodi diverranno obsoleti: non perché la geopolitica sia di per sé inadeguata, ma perché il globalismo parte dal presupposto della “fine della geopolitica” come fine della storia geopolitica, in quanto non ha più alcun senso. La sua semantica consisteva nel confronto tra Mare e Terra, ma giacché non esiste più uno dei due contendenti in forma indipendente, il Grande Gioco perde il suo significato.

Chiaramente, non si intende esprimere qui un giudizio definitivo sulla misura dell’implementazione già realizzata finora del globalismo o sul grado di irreversibilità dei processi di globalizzazione. Il tema stesso della globalizzazione, del globalismo, del mondialismo è configurato in modo tale che il progetto è già diventato una realtà oggettiva e in parte è già stato realizzato. Allo stesso tempo, per il globalismo, l’esistenza stessa della geopolitica diventa a un certo punto pericolosa, perché grazie ad essa è facile riconoscere nella globalizzazione un fenomeno di natura atlantica e unipolare, cioè l’universalizzazione di un solo modello di civiltà.

 

Una formula geopolitica della globalizzazione

Si rende necessario considerare una formula, auspicabilmente importante e fondamentale:

 

 

Globalizzazione

 

=

 

Unipolarismo

 

=

Civiltà del Mare come unica  

=

Emarginazione e frammentazione della Terra

 

Globalizzazione=unipolarismo significa che il processo di globalizzazione è il processo di diffusione in tutto il mondo di un unico modello sociopolitico, culturale e di civiltà; essa e ha un centro (un polo) e una periferia, e la struttura del mondo globale che viene topograficamente pensata è un modello a cerchio, dove il centro formula il proprio codice di civiltà, lo sviluppa e lo diffonde, la periferia può solo percepirlo. Quello stesso centro accumula ricchezza, valori, conoscenze e ne detiene l’amministrazione in maniera sempre più elitaria. Ci sono un movimento centrifugo e uno centripeto che si verificano contemporaneamente, attorno all’unico polo. Un esempio è la delocalizzazione dell’industria. Durante l’era industriale, il dominio occidentale sul resto del mondo si basava in gran parte sull’industria avanzata, mentre l’economia del Terzo Mondo era prevalentemente agricola e artigianale. A partire dagli anni Ottanta, le capacità industriali dai Paesi occidentali (USA ed Europa occidentale) iniziarono a essere trasferite nei Paesi del Terzo Mondo, dove iniziò una rapida industrializzazione. La ragione formale era il basso costo del lavoro nei Paesi sottosviluppati e lo sviluppo di strutture di trasporto su scala globale, ma gli stessi Paesi occidentali si sono concentrati nel campo del controllo finanziario e dello sviluppo di alte tecnologie, che hanno reso i Paesi industriali del Terzo Mondo completamente dipendenti dal centro, il tutto in contemporanea. Questo ciclo di sviluppo economico e tecnologico è teoricamente infinito, poiché il centro trasferisce i suoi codici alla periferia solo nel momento in cui ha tra le mani uno strumento affidabile di prossima generazione (nella scienza, nella tecnologia, nell’economia, etc.). Anche il flusso di immigrati dalla zona periferica, che assedia il centro, è accolto solo nella misura in cui può essere integrato nei sistemi sociali, politici, culturali ed economici del centro, cioè finché può essere naturalizzato e assimilato nel paradigma della Civiltà del Mare. In questo caso, il rappresentante della periferia cambia la sua identità insieme al suo modo di vivere, il modo di pensare, lingua, cittadinanza, luogo di residenza, etc. Solo allora si integra nel centro e diventa portatore dei suoi valori e della sua visione del mondo.

Globalizzazione=unipolarismo=Civiltà del Mare come unica Civiltà vuole dire che la struttura del codice di globalizzazione emesso dal centro è lo sviluppo massimo dei valori talassocratici, atlantici. La società che diventa normativa nella globalizzazione è una società di radice liberale, capitalista, commerciale ed anglo-centrica (asse USA-Regno Unito come nucleo del polo centrale). Questa società è espressione dell’ambiente marittimo “liquido” e concepisce lo spazio mondiale come un Mare globale in cui ci si può muovere in ogni direzione: ovunque si svolgano i processi di globalizzazione, il paesaggio sociale, culturale, economico e politico si sta trasformando in un ambiente marino. Le proprietà di questo spazio sociologico del mare sono fluide, come fluida è la postmodernità in cui viviamo; la resilienza è allora un processo di adattamento imposto a tutto ciò che non-è il centro, ma è sottomesso alla sfera di influenza del centro, inevitabilmente e senza via di fuga.

Globalizzazione=unipolarismo=Civiltà del Mare come unica Civiltà=emarginazione e frammentazione della Terra significa che nel mondo globale, rispetto a tutti i periodi precedenti, la struttura dell’alternativa sta cambiando radicalmente. L’ambiente terreste, tellurocratico, opposto al Mare, è sociologicamente parlando il contrario della fluidità marittima, perché è impenetrabile, duro, immobile, costante, con traiettorie fisse, resistenza, coerenza, fedeltà e identità chiara. L’emarginazione della Terra e la sua frammentazione comportano la trasformazione semantica del Mare stesso: quando diventa tutto, cessa di essere lo stesso Mare di prima. Nasce così un nuovo concetto di mondo globale: un Non-mare, che, allo stesso tempo, non è Terra.

I contorni di questa nuova figura non sono ancora definitivamente formati. I contendenti per questo ruolo di Non-mare sono tutte le declinazioni variopinte del globalismo e i numerosi feticci che da esso nascono (rivoluzioni colorate, terrorismo religioso, ideologie valoriali, ecc.); significa semplicemente “periferia”, interpretata come un ostacolo, come “altro dal centro”. Quindi, c’è il Mare e c’è Altro: di questo Altro si sa conosce molto poco allo stato attuale della globalizzazione, non è stato ancora definitivamente e irrevocabilmente determinato, ma la cosa più importante, dal punto di vista geopolitico, si sa che l’Altro non è la Terra. Ciò significa che l’identità globale e il sistema di valori marittimi vengono confutati nel globalismo in modo diverso rispetto all’antitesi diretta e simmetrica offerta dalla Civiltà della Terra. “Altro dal Mare, ma non Terra” è il concetto strategico più importante del globalismo e del mondo unipolare, ed è proprio a questo che dovrebbe prestare la massima attenzione chi vuole comprendere a fondo l’essenza di questo fenomeno.

Lorenzo Maria Pacini

[1] S. T. Mowle, H. D., Sacko The unipolar world: an unbalanced future, Palgrave Macmillan, New York 2007.

[2] In particolare, per ciò che riguarda i molteplici modelli di potere proposti dalle lobby di potere, squisitamente transnazionali, come la Round Table Society, la Trilateral Commission, il Bildenberg Group, il World Economic Forum, la Fabian Society, la Soros Fundation, il Club di Roma ed altri simili.

[3] Tutto ciò è stato realizzato non con azioni militari dirette, quanto piuttosto attraverso agenti di influenza, introdotti in tempi diversi e secondo diversi scenari nella società sovietica e successivamente russa. La rete di influenza atlantista aveva il compito di creare un’atmosfera sociale conciliante verso tutti i cambiamenti introdotti, neutralizzando la possibile reazione delle masse eurasiatiche. Come risultato, gli atlantisti avrebbero ottenuto esattamente ciò che stavano anelando e da tempo preparando: il dominio mondiale della Civiltà del Mare.

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