[segue dalla seconda parte…]
Oblio della domanda ed indebitamento
In una economia egemonizzata dalla finanza non c’è posto per il problema della domanda. Non a caso il processo di finanziarizzazione dell’economia si è sviluppato in parallelo al contemporaneo ritorno, dopo la parentesi keynesiana tra anni ’30 e ’80 del XX secolo, delle dottrine e delle politiche economiche di segno offertista, che cioè non guardano alla domanda ma soltanto all’offerta. Nell’economia capitalista tradizionale il problema era quello di trovare sbocchi di mercato alla produzione e quindi quello di un congruo livello della domanda. Ci sono voluti un paio di secoli, a partire dal XVIII, per comprenderlo. Grazie a John Maynard Keynes venne abbandonata la fiducia scientifica nella legge del Say, secondo la quale l’offerta trova sempre spontaneamente il suo sbocco, e l’intero paradigma economico venne riformulato a partire dalla priorità della domanda rispetto all’offerta. Nel mondo pre-globale, non ancora interdipendente come l’attuale, nel quale quindi prevaleva la domanda interna, piuttosto che quella esterna, gli Stati praticavano politiche di sostegno della domanda tramite il conseguimento di adeguati livelli salariali e il diretto intervento pubblico anticiclico attraverso la spesa statuale di investimento in deficit. Il ritorno a politiche di contenimento della spesa pubblica e dei salari, inaugurate da Reagan e dalla Thatcher, ha gradualmente consentito al capitale finanziario di imporre la sua egemonia sulla produzione. Vediamo più da vicino come.
La fallace narrazione che fossero state la spesa pubblica e il costo del lavoro troppo alto ad aver innescato l’inflazione degli anni settanta, la quale era invece dovuta all’impennata dei costi del greggio sul mercato internazionale, favorì la reintroduzione delle politiche d’austerità neoliberiste. Mentre l’inflazione durante gli anni ’80 andava scemando contestualmente al risolversi del blocco petrolifero, la pretestuosa azione antinflattiva, condotta su salari e spesa pubblica, alla medio-lunga, come sappiamo, si è tradotta in deflazione ossia in un nuovo crollo della domanda reso manifesto dalla crisi del 2007. Che la retrocessione della mano pubblica, quale guida degli animals spirits del capitalismo finanziario e strumento di contenimento delle pulsioni speculative, comportasse il rischio di un nuovo crollo della domanda mondiale era ben chiaro agli “incappucciati della finanza”, come li chiamava Federico Caffè, i quali avevano appreso la lezione del Grande Crash del 1929. Il crollo delle quotazioni azionarie, dopo anni di fittizio aumento del loro valore sempre più lontano dai valori reali della sottostante economia produttiva, intervenne nella settimana tra giovedì 24 e martedì 29 ottobre 1929 (rimasti alla storia come il giovedì ed il martedì “neri”). La sua causa principale fu la flessione della domanda che negli anni precedenti aveva seguito il tipico andamento di un graduale smottamento fino alla fragorosa ed improvvisa accelerazione della caduta dell’intera struttura economica del tempo.
Per questo gli “incappucciati”, negli anni ’80 e ’90, non volevano ripetere l’errore per poi ritrovarsi di nuovo addosso il fiato controllore dello Stato che imprigionasse nuovamente le loro, avide ed omicide, pulsioni al nichilismo economico. Le spinte capitalistiche verso l’interdipendenza dei mercati andavano mettendo in evidenza la difficoltà sempre crescente per gli Stati nazionali, a partire dagli anni ’80, a controllare la circolazione dei capitali. Le innovazioni tecnologiche dell’informatica stavano gradualmente consentendo al capitale di sottrarsi al vincolo della territorializzazione e quindi di denazionalizzarsi, fino a virtualizzarsi. L’interdipendenza economica, infatti, togliendo centralità alla domanda interna e conferendola a quella estera, consentiva il rafforzamento del “vincolo esterno” che oggi grava pesantemente sugli Stati. Se, infatti, le industrie nazionali traggono profitto principalmente dalle esportazioni, e non più dal mercato interno, è evidente che i sindacati, per difendere l’occupazione, sono costretti ad accettare politiche di contenimento salariale onde mantenere bassi i costi di produzione e spiazzare la concorrenza estera sul mercato globale (1).
La globalizzazione in atto dei mercati, dunque, anche con l’aiuto culturale della nuova sinistra “No Borders” ed “arcobaleno”, offriva al capitale finanziario il modo per tornare a dominare dopo che, nel XX secolo, esso aveva dovuto segnare una battuta d’arresto nella sua secolare corsa verso l’egemonia assoluta da sempre agognata. Ma il problema era quello di conciliare le politiche di contenimento dei livelli salariali e della spesa pubblica con la necessità di evitare la contrazione della domanda e non ricadere in un nuovo 1929. Come sostenere la domanda senza intervento pubblico ed invece praticando il contenimento dei salari, dato che la concorrenza internazionale, imponendo detto contenimento, finiva per contrarla? La reciprocità delle politiche mercantiliste, allo scopo di battere la concorrenza sui mercati internazionali in via di unificazione, comportava che ciascuno praticasse in casa propria la medesima ricetta di contenimento dei salari e di depressione della domanda interna. Ponendo così seri problemi di sbocco alla reciproca offerta sui mercati, pur interdipendenti. Come, infatti, sarebbe stato possibile trovare sbocchi alla produzione nazionale sul mercato estero se anche gli altri Stati praticavano il contenimento salariale per mantenere bassi i prezzi delle merci esportate? Come avrebbero i lavoratori/consumatori esteri comprato le merci nazionali, prodotte a costo del lavoro interno ridotto, se essi a loro volta vedevano al ribasso i propri trattamenti salariali?
Verso il Mondo Nuovo
Ed è qui, in questo dilemma, che la finanza è riuscita ad incunearsi trovando un nuovo cavallo di Troia per sconfiggere lo Stato e tornare egemone. Retrocessa la mano pubblica, nello scenario globale, il sostegno alla domanda è stato realizzato mediante il ricorso al facile indebitamento dei privati e degli stessi Stati. A rendere la strategia ancora più efficace intervennero le unificazioni monetarie sovranazionali sullo stile dello Sme e dell’euro che, eliminando il rischio del cambio tra valute diverse, consentirono alle merci di trovare sbocchi all’estero attraverso una domanda alimentata dai prestiti che le banche d’affari globali, affiancate nell’operazione all’industria multinazionale, offrivano alle popolazioni indebitandole. Si venne così a creare un rapporto di dipendenza, basato sull’indebitamento, delle economie più deboli nei confronti di quelle più forti e prestatrici. Un modello di economia fondata sulla finanziarizzazione della domanda a debito che, come è noto, ha funzionato fino alla crisi del 2007-2015.
Detta crisi ha costretto ad una parziale revisione delle politiche economiche restituendo un minimo margine all’intervento pubblico ma – beffa aggiunta alla beffa! – al solo scopo di salvare le banche globali improvvisamente spiazzate dall’insolvibilità privata e dal rischio dei default statali. Strumenti come il Mes sono stati inventati al solo scopo di salvare le banche private addossando sui bilanci pubblici le loro perdite. La finanza mondiale, riunitasi in conclave nel cosiddetto Financial Stabilty Board, si è data tra il 2012 ed il 2015 una regolazione di pura facciata, senza tuttavia cambiare realmente il paradigma che l’ha resa egemone. La successiva pandemia, attualmente in atto, ha quindi posto le basi, come si diceva, per una ristrutturazione globale dell’economia mondiale che, nelle intenzioni degli “incappucciati”, dovrà portare l’umanità in un Mondo Nuovo, dal distopico sapore huxleyano ed orwelliano, facendo leva sulla paura della morte che attanaglia l’uomo post-moderno ateizzato da secoli di modernità irreligiosa ed ormai privato, oltre che di qualsiasi capacità di resistenza spirituale, anche di ogni certezza ed aspettativa di bene oltremondano.
Ecco perché, laddove non l’avete ancora capito, sappiate che il regno dell’Iniquo, annunciato dalle profezie escatologiche di tutte le tradizioni religiose, è già tra noi ed ha il volto del capitalismo finanziario globale.
Luigi Copertino
NOTE
- Perfino uno strumento di per sé eticamente giusto, perché inteso alla condivisione della ricchezza, ovvero il “salario di produttività” o “partecipazione agli utili” che dir si voglia, anche se teoricamente non si tratta esattamente della stessa cosa, è stato utilizzato allo scopo, distorcendone il fine autentico per piegarlo alle esigenze del mercantilismo. Al contenimento salariale, volto alla riduzione dei costi, si è fatto corrispondere un maggior ricorso a forme variegate di salario di produttività nell’intesa che, vincitrice l’azienda sui mercati esteri, i lavoratori si sarebbero ritrovati in busta paga migliori retribuzioni per la redistribuzione in loro favore di una quota dell’utile derivante dall’aumentata redditività aziendale ottenuta dalle esportazioni. Il punto dolente però è che il salario di produttività, in un tale contesto, non si atteggia più come, appunto, partecipazione redistributiva agli utili ma come compensazione dei mancati aumenti salariali di base onde rendere possibili aggressive politiche mercantilistiche volte ad egemonizzare le economie altrui in modo che le imprese possano conseguire all’estero, attraverso le esportazioni, quella redditività, da redistribuire, non più ottenibile dalla domanda interna. Nel contesto della guerra commerciale innescata dalla politica mercantilistica, la quota di utile redistribuita ai lavoratori, non più dipendente in via principale dalla domanda interna, deriva inevitabilmente dalla colonizzazione del mercato estero e quindi dalla subordinazione dei lavoratori degli Stati più deboli. In un contesto di asimmetrica interdipendenza globale, i maggiori guadagni, in termini di salario di produttività, conseguiti dai lavoratori dei sistemi economici più aggressivi vengono realizzati sulla pelle e le sofferenze dei lavoratori dei sistemi economici più esposti, per loro debolezza, all’aggressività dei primi.