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DECISIONI GIUDIZIARIE E FAKE NEWS. Di F.M. Agnoli

Quasi tutti i telegiornali  hanno dato notizia con un certo rilievo della decisione del Tribunale di Belluno  in data 19 marzo 2021, utilizzata -inutile dirlo –  a sostegno della campagna  vaccinale cui partecipano con entusiasmo tutte le maggiori emittenti nazionali, senza darsi troppa cura di accertarsi della fondatezza degli argomenti a favore, mentre sono pignolissimi nell’invalidare quelli contro (chi scrive è tutt’altro che “no vax” e, avendone diritto per ragioni d’età, si è appena vaccinato, ma nutre una forte antipatia  per le fake news, specialmente se utilizzate, a favore del potere, da chi fa professione di rigore e trasparenza). Come molti ricorderanno, la sentenza bellunese è stata, difatti, utilizzata, per fare intendere  che nemmeno i giudici avranno pietà per chi perde la retribuzione e il lavoro per avere rifiutato il salvifico vaccino

  Purtroppo non dispongo del verbale di trattazione scritta  dell’udienza del 16 marzo, ma la pur scarna motivazione della decisione è sufficiente a far comprendere quale fosse la materia del contendere e quale il vero risultato del processo.  A monte del procedimento il provvedimento  della direzione di una RSA veneta, che ha imposto  l’immediata fruizione del periodo feriale loro spettante  ad alcuni componenti del proprio personale sanitario che avevano rifiutato  la vaccinazione  anti-Covid.  Gli interessati, ritenendo  di avere diritto  alla scelta del momento in cui fruire delle ferie e timorosi che il provvedimento dell’azienda preludesse a più gravi interventi, quali la sospensione del lavoro senza corresponsione dello stipendio o il licenziamento,  si erano rivolti al giudice  per ottenere, nei confronti dell’azienda, un provvedimento d’urgenza ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile. La domanda è stata respinta con compensazione delle spese processuali. Il giudice bellunese, è partito  dalla premessa (in realtà da molti contestata) della “notoria efficacia dei vaccini nell’impedire  l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus SARS-COV-2”, e dal dato di fatto che le mansioni cui nella specie erano addetti i ricorrenti  comportavano contatti con le persone che accedevano al loro luogo di lavoro (gli ospiti delle RSA) con rischio di contagio direttamente  collegabili  con tali  loro mansioni.

  Ne discende, ad avviso del giudice,  che, attraverso l’indicato utilizzo del periodo feriale,  l’azienda non ha fatto altro che adeguarsi al disposto dell’art. 2087 del codice civile, che impone all’imprenditore di “ adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Difatti – ragiona il giudice – dal momento che i dipendenti in questione si sono avvalsi del loro diritto  (allo stato incoercibile) di rifiutare il vaccino, che pure sarebbe stato idoneo ad evitare il rischio di contagio, bene ha fatto la RSA ad allontanarli dal luogo di lavoro a rischio con uno strumento ritenuto adeguato e non pregiudizievole per i dipendenti stessi quale è, appunto,  il periodo annuale di ferie  retribuito cui i  lavoratori hanno diritto “nel tempo che l’imprenditore  stabilisce, tenuto conto delle esigenze  dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro” (art. 2019 codice civile). Nella fattispecie son stati sì sacrificati alcuni minori  interessi dei prestatori di lavoro, come da loro evidenziati, ma è evidente che l’esigenza dell’imprenditore di osservare il disposto dell’art. 2087 prevale, in quanto mette direttamente in gioco la salute,  sull’eventuale interesse del lavoratore ad usufruire in un momento diverso delle  ferie (anche queste sono in rapporto con la salute, tuttavia più minacciata dal rischio di contagio che dalla fruizione delle ferie in un periodo piuttosto che in un altro)

   Miglior sorte ai fini dell’accoglimento non hanno avuto gli altri motivi  accampati dai ricorrenti per la semplice ragione che non è “stato allegato alcun  elemento da cui poter desumere l’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento”.

  Come si vede,  la decisione è motivata: 1) col rischio Covid per la salute non  degli ospiti della RSA,  ma del personale sanitario non protetto dalla vaccinazione; 2) col fatto che i ricorrenti non hanno fornito la prova che  il provvedimento aziendale fosse prodromico alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento.

  Quindi l’esatto contrario della notizia fornita  dai telegiornali e ripresa  da molti talk-show televisivi,  che hanno dato per certa, se non il licenziamento, l’avvenuta sospensione dal lavoro senza retribuzione.

   Sul primo punto è evidente che il giudice bellunese non si è affatto disinteressato del rischio corso anche dagli ospiti della RSA, ma  si è avvalso, come di un tutt’altro che riprovevole marchingegno,  dell’unica norma a sua disposizione che gli consentiva di tenere  agevolmente  conto, di fatto, dei rischi per la salute di tutte le parti interessate. Sul secondo la motivazione lascia intravedere che il ricorso sarebbe stato probabilmente accolto se i ricorrenti avessero  fornito quanto meno un principio di prova   dell’intenzione della RSA di procedere alla loro sospensione dal lavoro senza retribuzione o addirittura al licenziamento.

   Ne consegue che allo  stato, al contrario di quanto è stato detto, nessun tribunale della  Repubblica ha dato il via libera alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e tanto meno al licenziamento del personale sanitario che rifiuta il vaccino.

   Ci si può comunque chiedere (è verosimile che il problema si ripresenti presto in termini concreti) quale sia la soluzione corretta (cioè conforme a legge) una volta esaurito il godimento del periodo feriale quanto meno in quelle strutture che per le loro dimensioni non consentono l’utilizzo del personale non vaccinato  in occupazioni che non comportino contatti con gli ospiti. Ovviamente vi sono interessi in conflitto, tutti giuridicamente rilevanti,  che rendono tutt’altro che sicura e incontrovertibile la risposta. E’ però certo che, in assenza di una legge o, quanto meno, di una espressa clausola contrattuale al riguardo, non sarebbe per nulla agevole addivenire al licenziamento, o anche alla sospensione della retribuzione, di un dipendente che si sia avvalso del proprio diritto (oltre tutto costituzionalmente garantito) di non sottoporsi ad un trattamento sanitario. Probabilmente la soluzione di compromesso, che consentirebbe di tutelare i due maggiori interessi in gioco (diritto alla salute e libertà di scelta) sarebbe quello della sospensione dal lavoro del personale non vaccinato e non adibibile ad altra occupazione, ma proseguendo la corresponsione della retribuzione  pur in mancanza della prestazione. Verrebbe così sacrificato “soltanto” il diritto dell’imprenditore, che trova sì un riscontro nell’art. 41 della Costituzione  sull’iniziativa economica privata, ma risulta indubbiamente meno rilevante rispetto agli altri diritti in gioco.

 Francesco Mario Agnoli

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