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CHE STA SUCCEDENDO IN ARMENIA? UNA STORIA DI VERGOGNA EUROPEA. Di Andrea Alberti

Nell’aprile del 2005, a pochi giorni dal 60° anniversario del “Giorno della Vittoria”, Vladimir Putin pronunciò – davanti alla Duma – le seguenti parole: “La dissoluzione dell’Unione sovietica, è stata la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”. Pur considerando le successive precisazioni del presidente russo, il quale 5 anni più tardi affermò che “chi non rimpiange la disgregazione dell’URSS, non ha cuore, chi vuole ricrearla così com’era, non ha cervello.”, l’analisi esposta da Vladimir Vladimirovich 15 anni orsono, appare quanto mai valida.

Questo soprattutto alla luce degli avvenimenti dell’ultimo decennio, nel quale abbiamo assistito ad eventi drammatici in tutto lo spazio post-sovietico, dalle “rivoluzioni colorate” in Georgia e Ucraina, al rinfocolarsi delle tensioni negli “stan” dell’Asia centrale (Kyrgyzstan come recentissimo esempio), passando per il fallito putsch in Bielorussia, fino ad arrivare alla cronaca dell’ultimo mese con la ripresa delle ostilità tra Armenia ed Azerbaijan per la tuttora irrisolta questione del territorio conteso del Nagorno-Karabakh (o Artsakh, che dir si voglia). Tutto perché il disfacimento dell’Unione Sovietica, oltre ai disastrosi risvolti economici (si pensi ai “terribili anni ’90” di Eltsiniana memoria), ha riportato in auge la questione delle “nazionalità” – che fu abilmente risolta agli albori dello stato socialista con il processo di “korenizzazione” (dalla parola russo koren’, ossia “radice”) promulgato da Stalin. Ecco allora che al venir meno dell’autorità centrale verso la fine degli anni ’80, ci siamo trovati di fronte a una “balcanizzazione” dello spazio euroasiatico, con tensioni e scontri che per efferatezza e fanatismo non hanno avuto nulla da invidiare alle guerre civili nella ex Jugoslavia. L’esempio più famoso, per la forte attenzione mediatica riservatagli, fu il conflitto in Cecenia, ma parallelamente sono sorti molti altri conflitti che la stampa ha quasi passato sotto silenzio, probabilmente perché non riguardavano direttamente la Federazione russa… tra questi, anche la guerra del Nagorno-Karabakh.

Combattutasi dal 1988 al 1994 e risoltasi con un’indipendenza de facto del territorio unita ad un “cessate il fuoco” che i recenti fatti di cronaca hanno dimostrato essere particolarmente fragile, la mediazione diplomatica per la risoluzione pacifica di questa guerra ai più sconosciuta, fu affidata al cosiddetto “Gruppo di Minsk” patrocinato dall’OSCE, laddove proposte di mediazione da parte di attori regionali terzi, quali ad esempio l’Iran, non furono accettati sostanzialmente per i forti interessi della Turchia nell’area, che come sappiamo si considera un protettore speciale dell’Azerbaijan, stato a maggioranza mussulmano sunnita. L’irrisolta situazione del 1994 è rimasta silente, come un tizzone infuocato sotto la cenere per ben 26 anni, condita da minacce e scaramucce da ambedue le parti armene e azere, ma le trasformazioni geopolitiche degli ultimi 2 decenni, sono tuttavia, sotto gli occhi di tutti. Basti pensare – non solo – al ritrovato status di “potenza” della Federazione Russa, ma al processo di integrazione europea culminato col trattato di Lisbona (che dovrebbe, in teoria, garantire una politica estera e di cooperazione comune a tutti gli stati membri), o al pseudo isolazionismo degli USA nell’era Trump, fino ad arrivare alla rinascita della Turchia e del panturanesimo espansionista per mezzo di Recep Tayyip Erdogan. I due stati caucasici, si trovano per loro sfortuna, in uno dei gangli vitali della geopolitica globale, in particolare per quanto concerne i settori energetici ed estrattivi. L’Azerbaijan, dopo la cocente perdita del territorio conteso, ha conosciuto negli ultimi 20 anni un “miracolo economico” garantito dagli immensi giacimenti petroliferi del Mar Caspio, sfruttati dalla sapiente apertura all’occidente dettata della dinastia Aliyev (Heydar e Ilham), alla guida della Repubblica dal 1993. L’Armenia, di contro, non ha negli gli occhi degli occidentali che la sua forte identità di territorio montuoso ricco di storia e tradizioni, con un piede e mezzo nella Repubblica del Nagorno Karabakh (dalla quale ha prelevato eminenti uomini politici che hanno ricoperto anche la carica di Primo Ministro). La Repubblica azera, sin dalla sua indipendenza, ha quindi attirato gli appetiti europei (e non solo) ed è diventata punto focale per quanto riguarda la politica energetica occidentale, specie negli ultimi anni: dopo Euromajdan e le sanzioni imposte contro la Russia, il gasdotto Trans-adriatico è stato scelto come valida alternativa al South Stream 2. L’Azerbaijan, si trova quindi, spalleggiato da Bruxelles per quanto riguarda la politica energetica (in chiara funzione antirussa), e da Ankara per quanto riguarda la questione della comune identità turanica, in una sorta di revival neo-ottomano di Erdogan, che sogna di ripetere le gesta di Solimano I il Magnifico. La piccola Repubblica Armena, si trova dall’altro lato della barricata, spalleggiata principalmente dalla Federazione Russa grazie al Trattato di Sicurezza collettiva (una sorta di NATO in salsa euroasiatica). Il comportamento maggiormente deprecabile tra gli attori in gioco è quello dell’Unione Europea; in primis per la conclamata inefficienza della PESC (Politica estera di sicurezza comune), che ha dimostrato le sue mancanze e difetti di fondo sin dalle guerre jugoslave passando per la guerra del Donbass; in secundis per l’ambivalenza nei confronti della Turchia, colpevole di ripetute violazioni del diritto internazionale in materia di diritti umani all’interno e all’esterno (Kurdistan e Siria) dei suoi confini. L’Unione europea, in sostanza, trattiene relazioni amichevoli con la Turchia per meri scopi commerciali (dopo essersi automutilata con l’atteggiamento nei confronti della Federazione Russa dopo il 2014), chiudendo un occhio su varie questioni irrisolte tra cui quella del popolo armeno, un popolo forte che non si è spezzato di fronte ad epurazioni e soprusi perpetrati dalla stessa Turchia non più tardi di un secolo fa. Allargando il discorso in termini più filosofici, e se vogliamo filosofico-politici, le tensioni in Caucaso possono essere inquadrate – citando Samuel Huntington – in un ritrovato scontro di civiltà: da un parte l’Armenia come unico baluardo contro la riunificazione dell’ex spazio ottomano e come bastione degli antichi valori occidentali, dall’altro l’Azerbaijan, che nonostante sbandieri il proprio ancestrale turanesimo è parte integrante del mondo postcapitalistico grazie alle sue immani risorse naturali (sulla scia delle cosiddette monarchie “secolarizzate” del golfo). Ampliando l’orizzonte, troviamo la Federazione Russa (che mediante i suoi mezzi diplomatici è riuscita ad ottenere una sorta di tregua nei giorni scorsi) contrapposta all’Unione Europea (che ha inviato “la bellezza” di 500mila euro di aiuti umanitari, ovverosia la metà di quelli che la star di origine armena Kim Kardashian ha raccolto tramite la sua ONG). Da un lato quindi, uno stato che crede ancora nei valori immateriali e getta sempre un occhio di riguardo a storia e tradizioni dei popoli, dall’altro un organismo sovranazionale mal costruito, che ha come valori fondanti il profitto economico e l’individualismo (da mettere in prima fila rispetto ai diritti umani, con i quali spesso e volentieri la stessa UE si riempie la bocca).

La nostra speranza è questo conflitto si avvii presto ad una conclusione equa e giusta, e che porti anche in dote un ritrovato sentimento di unità di intenti da parte della vecchia Europa, la quale oggi, più che un’unione di popoli e culture, sembra piuttosto una gigantesca società per azioni.

Andrea Alberti

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