La fantasia è mera finzione, mera invenzione? L’Autore fin dalle prime brillanti quanto scorrevoli pagine prepara l’orientamento: la fantasia è capacità immaginativa che rende intellegibile la bellezza, modalità di apparire dell’invisibile. Tolkien, non privo della tipica ironia britannica, affermava che «la fantasia è l’evasione del prigioniero e non la fuga del disertore». La fuga invero coinvolge appieno la fantasia, a patto di toglierle di dosso l’alone d’irresponsabilità. Se la fantasia può essere evasione dalle circostanze della vita, mai concreta fuga è possibile: la fuga si rivela sempre come atto ricreativo. Ludico, per quanto a volte inizialmente tormentato, e quindi nuovamente creativo. In qualsiasi misura accada, la fuga incontra il mondo, lo rielabora. La fuga non è la morte. Vana che possa esser giudicata, la fuga è una Penelope che “rifila la tela”, senza tralasciare che “inventare”, dal latino inventus, significa etimologicamente “scoprire” e “trovare”, rinvio alla filosofia platonica per cui ogni cosa è preesistente nel mondo sovrasensibile delle idee. Che la realtà non sia mai interamente visibile agli occhi è verità perpetuata nelle più diverse civiltà. Che l’uomo sia costituito della medesima sostanza dei sogni, già Shakespeare lo ha insegnato. Nel pensiero oggi dominante quel che passa come ragionevolmente certo è il reale in quanto osservabile e quantificabile, in quanto circoscritto alla condizione di veglia della coscienza, in quanto corrispondente all’agire umano di cui è possibile riscontrare l’effetto. Questo modo d’intendere ciò che è reale ha invaso ogni campo e retrocesso l’orizzonte umano.
Il tema centrale da cui il libro prende le mosse è quello delle leggende che hanno per scenario i Monti Sibillini, racconti su fate, folletti o mazzamurelli, e sopratutto sulla Grotta della Sibilla, luogo in voga nel XV secolo quando cavalieri, pellegrini, e maghi, non mancavano di arrivare alle colline marchigiane. Un luogo tratteggiato dalla fantasia popolare e dalla letteratura dell’epoca come meraviglioso e terribile a un tempo, celeste quanto infernale, Giano bifronte. La sete di mistero, il bisogno di un contatto con ciò che trascende l’intelletto umano, ha portato individui di ogni ceto sociale su un percorso periglioso.
Tra le immagini dell’immaginario compare il cavaliere Guerrin detto il Meschino, dall’opera di Andrea da Barberino, letteratura tra le più celebri in Italia, e non solo, a partire dal Quattrocento. Una fortuna che non ha mancato di attirare l’attenzione censoria delle autorità ecclesiali, «per cui si ebbe a correggere e corrompere il testo a partire dall’edizione veneziana del 1595, cui seguirà la versione pesantemente emandata del 1785». Fortuna che fu dovuta, come scrive l’Autore, ad «un registro stilistico multiforme che risponde, al contempo, al romanzo cavalleresco, agli stilemi dei bestiari, all’epica, alla novella d’amore, alle cronache di viaggio allegorico, ispirato a mitologie eterogenee e a personali reinvenzioni». L’incontro con la Sibilla è il fulcro narrativo del racconto, eppure per Guerrin non è ancora l’approdo ultimo: non insensibile al richiamo del mondo, sottraendosi alla Grotta, invoca il perdono del Papa. Da quel momento il suo cammino viene delineato come penitenziale, per il peccato di lussuria con la fatale Sibilla, o meno alla lettera per l’essersi lasciato sedurre da una condizione “paradisiaca”, nell’ottica ecclesiale, nella dimenticanza del sacrificio di Cristo per l’umanità. E’ indubbio che l’incontro con la Sibilla potesse rientrare nelle categorie di eresia della Chiesa, l’incontro dell’eroe mortale con una Dea, o con una fanciulla abitata da un potere misterioso che le concede la veggenza, o con una maga dalla doppia natura, saggezza-potenza celeste e al contempo perturbante e demoniaca. Quel che è evidente è una giustapposizione di elementi e significati cristiani e rimandi a tradizioni misteriche più antiche, come appare dalle capacità metamorfiche della Sibilla, dalle prove per accedere alle profondità della Grotta, o dalla rivelazione del rapporto strutturale tra il corpo umano, l’anima, gli astri, e le costellazioni. Parole allusive ad una celata legge atemporale.
Dopo la necessariamente sintetica presentazione delle avventure del Meschino – detto tale perché senza nome, nell’oblio delle proprie origini – l’Autore vaglia interessanti interpretazioni, tra le quali quella di «eroe che vincendo le avversità fonda il proprio destino (…) colui che reperendo nella propria anima il mistero della felicità non viene sottomesso dalle forze irrazionali del Fato». Le peripezie esteriori sono un riflesso di quelle interiori. La vera identità che Guerrin va cercando nell’incontro con la Sibilla non si esaurisce nella scoperta delle sue origini terrene, nel venire a conoscenza di esser figlio del Re di Durazzo. Guerrin «riscoprirà nelle trame complicatissime del suo destino, il sentiero che conduce al centro immobile dell’universo». Interpretazione che viene riproposta in una chiave psicanalitica, sul solco di Jung e Hillman, che innerva il libro e su cui indugia l’Autore, che sottolinea «sono simboli della nostra maturazione e della nostra realizzazione personale».
Al lettore il piacere di valutare i paralleli proposti da Cesare Catà con Tannhäuser, con il mito celtico del cavaliere Oisìn, con l’Odisseo omerico, con il personaggio di Aragorn del ciclo tolkieniano – a cui è dedicata una comparazione finale con il mito della Sibilla Appenninica – con la Materia di Bretagna che si sarebbe mescolata con i preesistenti racconti del folklore marchigiano per dar vita alla vicenda di Guerrin. Il tema che si ritrova, tipicamente eroico e cavalleresco, è quello di “trovare una meta, nel focalizzarla come il proprio fine costitutivo (…) l’assunzione della vera identità del soggetto, chiamato a realizzare sé medesimo oltre quelle che sono le sue ordinarie previsioni e le sue apparenti limitazioni».
(P.A.)