Non si può che plaudire alla ristampa nell’anno corrente di questo quarto libro dedicato allo Yoga dell’insigne storico delle religioni Mircea Eliade. Rispetto al precedente lavoro dello studioso, quel capolavoro che è “Lo Yoga immortalità e libertà” del 1956, e di cui conserva passi analoghi, “Patañjali e lo Yoga”, uscito alle stampe nella prima edizione nel 1962, si presta ad essere opera più sintetica e accessibile anche per coloro che hanno poca o nulla familiarità con lo Yoga.
Non è facile definire lo Yoga, o piuttosto gli Yoga. Esiste uno Yoga classico, esposto da Pantañjali nel suo celebre trattato yoga-sutra, ma al suo fianco esistono innumerevoli forme di Yoga. Anche nella sua accezione religiosa di unio mystica lo Yoga implica un’elaborata ascesi che vuole abolire la dispersione e gli automatismi che caratterizzano la coscienza profana. Sotto le apparenze dell’unità della coscienza individuale si cela un flusso indefinito e disordinato, alimentato dalle sensazioni, dalle emozioni, e dalle associazioni del pensiero legate alla memoria. Quanto all’autore degli yoga-sutra niente si sa, nemmeno se sia vissuto nel II secolo a.C. oppure nel III secolo d.C. ma è chiaro che le tecniche d’ascesi che vengono esposte venivano praticate da tempo immemore. Radice comune del proteiforme pensiero indiano, già formulato secoli prima dal Buddha, è che l’origine della sofferenza, l’impermanenza soggetta ad una durata di qualsiasi vita e fenomeno, non è dovuta a una punizione divina, né a un peccato originale, bensì all’ignoranza della vera natura dello spirito, ignoranza che induce a confondere lo spirito eternamente libero, il vero Sé, con l’esperienza psico-mentale dell’individuo. L’esperienza yogica è un risveglio spirituale impensabile, è trasformazione ad ogni livello, è il Sé che contempla se stesso. La personalità umana non è elemento ultimo, similmente a tutte le modificazioni della sostanza cosmica universale. Lo Yoga classico, in affinità con le speculazioni filosofiche del Samkhya, non ha negato realtà né allo spirito né alla sostanza, differentemente dall’intendimento dello Yoga del Vedanta e di talune tradizioni del Buddhismo. Il fine dello Yoga di Patañjali è l’esperienza enstatica, sovrasensoriale ed extra-razionale, a cui in ogni caso non si può accedere senza l’ascesi. L’esperienza enstatica, il samadhi, è indescrivibile, non univalente, è la contemplazione istantanea senza mediazione delle categorie del pensiero e dell’immaginazione. Le tecniche di questa ascesi sono complesse, Eliade senza entrare troppo in dettaglio tratta in questo libro quelle più importanti come il pranayama il cui fine, ritmando e rallentando la respirazione, è quello d’indurre la sospensione del respiro e di conseguenza dei sensi corporei che vengono ritratti dalla percezione del mondo esterno. Eliade propone un interessante accostamento alla pratica taoista della respirazione embrionale, alla tecnica dell’invocazione del dhikir dei mistici musulmani, alla preghiera esicasta nel Cristianesimo. Il Dio degli yoga-sutra è Isvara (letteralmente il Signore) che di norma non interviene nella Creazione, quest’ultima risultante dalle modificazioni della sostanza cosmica primordiale. Isvara è assolutamente libero e altri non è che “spettatore”, non si lascia attirare dai rituali né dalla semplice devozione anche se può intervenire e collaborare affrettando il processo di affrancamento nell’ascesi yogica. Accanto a una tradizione di uno Yoga determinato dalla volontà e dalle forze personali, esiste un’altra tradizione nella quale le tappe finali della pratica sono accessibili solo grazie alla sincera devozione a Dio. Questo è lo Yoga nella Bhagavad-Gītā dove Krsna è il fine ultimo, e per Grazia Sua il devoto può conseguire l’unione eterna libera dalla sofferenza. Questo karma-yoga, o yoga dell’azione, è pensato sorretto da una profonda empatia e carità, vivendo sia le gioie che i dolori degli altri come propri, sempre consapevoli nella rinuncia ai meriti delle proprie azioni. Le tecniche yogiche di concentrazione e di meditazione rimangono il mezzo fondamentale di perfezionamento, anche se il pranayama non vi svolge più che una funzione marginale. Tutte le volte che l’ordine (il dharma) è sul punto di crollare Krsna si manifesta nel mondo, cioè rivela in modo appropriato al momento storico la saggezza atemporale.
Anche nel Buddhismo viene collegata alla conoscenza liberatrice l’esperienza contemplativa di tipo Yoga. Una notevole innovazione delle tradizioni panindiane, sia inerente le religioni o settaria e più circoscritta, avviene nel IV secolo d.C. con il Tantra, che nel Buddhismo prende il nome di Vajrayana. Quasi tutti i testi tantrici comportano indicazioni di carattere yogico, dove pure emerge una caratteristica comune più o meno velata, l’atteggiamento antiascetico e antispeculativo. Il limite estremo è raggiunto in quelle scuole tantriche della “mano sinistra” in cui vi è il rifiuto di qualsivoglia tecnica meditativa e in cui l’esperienza liberatrice è attinta attraverso la pura spontaneità, per cui non vi è posto per valutazioni etiche e non hanno più alcun valore le norme restrittive relative all’alimentazione e all’amore carnale.
Lo Yoga ha finito per assorbire un mondo variegato e composito di tecniche mistiche, dalle più elementari alle più complesse. Nello Yoga hanno finito per trovar posto non solamente speculazioni filosofiche differenti, ma anche una straordinaria pletora di personaggi, santi e mistici, maghi o pseudo tali, orgiastici, volgari fachiri, all’insegna di multiformi comportamenti di matrice magico-religiosa. L’essenza dello Yoga è comunque nel processo di distacco e trasformazione finale dei contenuti che appartengono ai livelli psico-fisiologici dell’esperienza umana, richiamo al processo della morte, una morte anticipata seguita da una rinascita, uscita paradossale dalle condizioni dell’esistenza che appaiono indisponibili.
Madame Janus