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I LABIRINTI DEL POLITICALLY CORRECT. "DIRITTI UMANI" DELL'UE E LEGGE ISLAMICA. Di Francesco Mario Agnoli

Il primo caso risale al febbraio 2003 e riguarda un provvedimento col quale il governo turco aveva messo al bando il partito politico islamista Refah (antecedente di quello dell’attuale presidente turco Erdogan) il cui programma prevedeva l’instaurazione della sharia (la “legge sacra dell’Islam”). La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) respinse il ricorso del disciolto partito, dichiarando la sharia incompatibile con i principi della democrazia e le norme della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Refah Partisi e altri vs Turchia in data 13 febbraio 2003).

Nel secondo caso l’intervento della CEDU è stato sollecitato da una vedova facente parte della comunità musulmana residente in Grecia, privata, a favore delle sorelle del defunto, di 2/3 dell’eredità del marito dai giudici greci, che, ritenendo obbligatoriamente applicabili a tutti i membri dalla comunità musulmana le regole della sharia in materia successoria, avevano annullato il testamento del defunto. La CEDU ha invece accolto il ricorso della vedova in quanto il de cuius, nel disporre dei propri beni, aveva scelto di fare applicazione del diritto civile greco (sentenza Molla Sali vs. Grecia del 18 dicembre 2018). Con questa decisione la CEDU, consentendo libertà di scelta agli interessati, ha escluso l’obbligatorietà delle regole della sharia, affermata invece dai giudici greci sulla base dei Trattati di Sèvres (1920) e di Lausanne (1923), che avevano attribuito alle minoranze dei territori assegnati alla Grecia o alla Turchia alla fine della prima guerra mondiale il diritto di continuare a vivere secondo le proprie usanze. Fra questi territori la Tracia occidentale (ex-provincia dell’impero ottomano assegnata alla Grecia), dove risiede la vedova Sali.

I giudici della CEDU, che avrebbero potuto giungere a questo risultato col semplice richiamo alla decisione del 2003, hanno seguito un percorso diverso, che in sostanza rinnega o, quanto meno, grandemente indebolisce la sostanza di quella pronuncia. La CEDU ha stabilito che uno Stato può, se lo desidera, “creare un determinato quadro giuridico per accordare alle comunità religiose uno statuto speciale comportante particolari privilegi”. Per la validità di tale scelta occorre che siano rispettati tanto la volontà degli interessati, liberi, quindi, di avvalersi o no dei “particolari privilegi”, quanto non meglio precisati “interessi pubblici importanti”. Per la prima condizione è per la Corte essenziale che agli interessati sia riconosciuto il “diritto di scegliere di non essere trattato come persona appartenente ad una minoranza”, tanto dallo Stato quanto dagli altri membri della minoranza. Il rispetto da parte dello Stato dell’identità di un gruppo minoritario non può pregiudicare “il diritto di libera identificazione” come viene definito il diritto degli appartenenti alla minoranza “di optare per la non appartenenza” o “di non seguirne le pratiche e le regole”. “Lo Stato in una parola – commenta su FigaroVox del 26 dicembre 2018 il giurista Grégor Puppink – deve rispettare le minoranze evitando al contempo di imprigionarvi i loro membri. Quando lo Stato accetta l’applicazione della sharia sul suo territorio, questa deve essere opzionale”.

Quanto ai non meglio precisati “interessi pubblici importanti” non sacrificabili alla protezione delle minoranze, in mancanza di un criterio generale fissato dalla Corte non resterebbe che procedere all’accertamento della loro importanza e incompatibilità con la sharia caso per caso.

Ai toni critici usati dal Puppink nel dare notizia della sentenza, adombrando la tesi che la facoltà della comunità musulmana di amministrarsi, almeno in alcune materie, secondo le regole della sharia sia stata trasformata in “diritto umano” ha replicato (“No, la CEDU non ha eretto la sharia in diritto umano!” su FigaroVox del 28 dicembre) il giurista Nicolas Hervieu, sostenendo che la Corte di Strasburgo si è limitata, come deve fare ogni giudice, a giudicare del caso sottopostole e, nel farlo, ha disapplicato la sharia: l’esatto contrario della tesi del Puppink. Quanto agli “interessi pubblici importanti” non occorreva darne espressa indicazione dal momento che dalla giurisprudenza CEDU emerge un nutrito elenco (principio di non discriminazione sessuale o razziale, diritto all’equo processo, libertà di stampa), che consente di ben comprendere cosa s’intende quando si menzionano questi “interessi”. E’ ben vero che la CEDU non ha ribadito l’incompatibilità della sharia con i principi della Convenzione come nella sentenza del 2003, ma allora si trattava di “determinare se uno Stato, la Turchia, poteva dissolvere un partito politico del quale alcuni esponenti avevano chiamato all’instaurazione di un regime teocratico e islamico, al bisogno con la forza. Per consentire questo scioglimento la Corte doveva sottolineare l’incompatibilità di un simile progetto politico globale con la Convenzione Europea”. Nel 2018 era in ballo solo l’applicazione di alcune regole religiose in materia successoria “per ragioni puramente storiche proprie della Grecia, senza altre finalità politiche”. A preoccupare il Puppink non sarebbero, quindi, “i nostri diritti e le nostre libertà, ma unicamente la lotta contro una religione in particolare”. In ogni caso – conclude – la Corte europea “si opporrà necessariamente a ogni legge religiosa che si scontri frontalmente con i diritti e le libertà garantite dalla Convenzione”.

Argomenti di peso in punto di stretto diritto (anche se le decisioni CEDU, ad esempio in tema di libertà di espressione, non sono così solide e univoche come sembra credere), ma l’Hervieu non si avvede che al contempo giustificano la parte “politica” della critica del Puppink in quanto provano la natura ugualmente “politica” della sentenza. Dal momento che si trattava semplicemente di decidere su alcune regole religiose in materia successoria vigenti in Grecia fin dagli anni ’20 del secolo scorso in applicazione di due Trattati internazionali (per altro già modificate dalla Grecia stessa proprio nel senso della facoltatività con legge del 15 gennaio 2018), non vi era, ai fini della decisione, alcuna necessità di attribuire agli Stati la facoltà di “creare un determinato quadro giuridico per accordare alle comunità religiose uno statuto speciale comportante particolari privilegi”. Un di più dovuto a considerazioni politiche. Può essere che il Puppink sbagli nel parlare di sentenza dettata dalla paura dei musulmani, ma ha ragione nel ritenere che non per caso la CEDU abbia colto l’occasione non solo per eliminare l’incompatibilità fra sharia e Convenzione affermata nel 2003, ma anzi per attribuire agli Stati la facoltà di riconoscerne l’applicabilità, così ulteriormente sviluppando l’indirizzo, alla base della sentenza “austriaca” del precedente mese di ottobre (E.S. vs Austria), per cui la Corte, anche nel decidere del rispetto dei diritti umani, deve tenere conto dell’esigenza “di assicurare la coesistenza pacifica di tutte le religioni e dei senza religione, garantendo la reciproca tolleranza”.

Ugualmente fondato il timore del Puppink che questa sentenza metta gli Stati nella difficile situazione di doversi giustificare quando intendano negare l’applicazione di questa o di quella norma della sharia richiesta dai musulmani non solo in tema di successione o di alimentazione “halal”, ma, per esempio, di finanza, dal momento che si tratta di un sistema giuridico che riguarda tutti gli aspetti della vita.

Francesco Mario Agnoli

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