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LEGGE DI DOLORE E MORTE. Di Francesco Mario Agnoli.

  La partecipazione a un recente incontro di studi organizzato dai Giuristi  per la Vita (Loreto 1-2 settembre 2018) mi suggerisce alcune riflessioni sulla legge n. 219 del 22/12/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che, pur senza trascurarlo, vanno oltre lo stretto ambito della tecnica giuridica come certamente non giuridico, ma (si confida di dimostrarlo) profondamente vero è il titolo di questo articolo, che la definisce legge di dolore e morte.

  A farne una legge di morte basterebbero, senza necessità di ulteriore dimostrazione, le finalità apertamente proclamate dai suoi promotori e dallo stesso legislatore, che hanno voluto  legittimare, garantendo anche la collaborazione e l’assistenza del medico e della sanità pubblica, le scelte a favore della propria morte, che morte rimane anche se rivestita, come recita un mantra ossessivamente ripetuto,   con il mantello di una supposta  dignità.

  In realtà la scelta a favore della morte era già potenzialmente presente nella normativa che condiziona ogni trattamento sanitario al consenso del paziente, espressamente richiamata e perfezionata nell’art. 1 della legge (“nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”). Tuttavia il legislatore è andato molto oltre. Difatti, purché non si sorpassi troppo apertamente il confine oltre il quale si trovano l’aiuto al suicidio e l’eutanasia attiva, il medico è sempre incondizionatamente tenuto ad attenersi alla decisione dell’interessato,  espressa sul momento  o anticipata, quando questa è a favore della morte. Assai meno, nonostante l’apparente  contraria affermazione dello stesso art. 1 (“la presente legge tutela il diritto alla vita”) quando l’opzione è per cure dirette  al prolungamento dell’esistenza.

  Significativo al riguardo il disposto dell’art. 1/ comma 6 (“Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”), che in apertura sembra prendere  in considerazione esclusivamente la situazione  del paziente  che rifiuta  il trattamento o  vi rinuncia e che viene garantito sul rispetto di tale sua volontà. Invece il paziente di cui alla seconda parte non è necessariamente quello che rinuncia o rifiuta, ma qualunque paziente, anzi principalmente quello che vorrebbe essere curato. Difatti se il primo non può pretendere  (almeno per il momento)  pratiche di eutanasia attiva o di assistenza al suicidio, perché contrarie a norme di legge, nessun’ altra obiezione può essergli mossa dal medico  dal momento che ha rifiutato il trattamento sanitario e, di conseguenza, le buone pratiche clinico-assistenziali dirette alla guarigione o comunque al mantenimento in vita che vi sono connesse (restano quelle destinate ad alleviarne le sofferenze, che gli sono comunque garantite). Al contrario è a chi vorrebbe essere curato  che il medico può opporre che le cure richieste non sono conformi  alla “nuova” deontologia medica  e comunque alle buone pratiche, ad esempio assumendo (sono ipotesi di larghissima applicabilità stante l’indefinitezza dei loro confini) che si tratta di accanimento terapeutico, di ostinazione irragionevole  o di mancato rispetto della dignità della persona nella fase finale della vita, come da divieto di cui all’art. 2. I casi di Charlie Gard e Alfie Evans (inglesi, ma perfettamente riproducibili in Italia, tanto che i medici e gli avvocati britannici si sono mostrati stupiti con i colleghi italiani che episodi analoghi non si siano  ancora verificati nel nostro paese) sono appena la punta di un iceberg.

   Il dolore rappresenta la spinta emozionale che ha giustificato presso l’opinione pubblica l’approvazione di una legge che, consente la rinuncia a cure destinate a prolungare un’esistenza considerata dal suo titolare causa di inutili e non più sopportabili sofferenze fisiche e/o psichiche. Tuttavia accanto ai dolori per i quali la legge intende offrire con la morte la possibilità di una soluzione non troppo remota e definitiva, ve ne sono altri determinati proprio dall’applicazione di una legge che considera “trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici”. E’ noto a tutti, fin dal caso americano di Terry Schiavo, che la morte  per fame e disidratazione è lenta e estremamente dolorosa. Tuttavia, al contrario di quanto è accaduto negli USA alla povera Terry, il pietoso legislatore italiano ha predisposto il rimedio disponendo che “Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico” (art. 2/comma 1). Quando poi si tratta di prognosi infausta a breve termine  o di imminenza di morte e si sia in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari (e nessuno è più in imminenza di morte di  chi è già stato privato della nutrizione e dell’idratazione) il medico, a norma dell’art. 2/comma 2,  “può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente.”. Consenso  che, ovviamente, a procedimento letale in corso, se non è stato prestato in precedenza, verrà rilasciato dai parenti o dal “fiduciario” di cui all’art. 4 della legge, o, in assenza  e nell’impossibilità di consultare  il paziente, verrà pretermesso, lasciando la decisione al medico in quanto tenuto per legge ad  alleviare le sofferenze che, specialmente in assenza di nutrizione e idratazione, accompagnano il già iniziato percorso verso la morte.

  Ho già avuto occasione di scrivere che, pur se la legge non legalizza pleno iure l’eutanasia, il ricorso alla sedazione  profonda introduce una forma di  eutanasia attiva dal momento che i farmaci utilizzati indeboliscono  le resistenze del corpo, così accelerando l’esito letale sicché la differenza coi sistemi  praticati in alcune cliniche svizzere si riduce a quella fra una sostanza  che uccide all’istante e una  che produce l’effetto con maggiore lentezza.

   Le sofferenze conseguenti all’inclusione della nutrizione e dell’idratazione artificiali fra i trattamenti sanitari aprono così la strada alla totale, futura (quanto futura?) legittimazione dell’eutanasia. Un nuovo aspetto dei “trionfi della Morte”, da raffigurare non più, come nel buio medioevo, sui muri di chiese e cappelle, ma sulle pareti degli ospedali.

  Prima di chiudere debbo una precisazione e un quesito in particolare ai tre o quattro giuristi che potrebbero trovarsi fra i miei 24 lettori. Probabilmente sono stato avventato nell’affermare che in caso di rifiuto il medico è sempre incondizionatamente tenuto ad attenersi alla decisione dell’interessato. E’ esatto quando il rifiuto  riguarda l’intero trattamento sanitario. Può però accadere  che, sul momento o nelle dichiarazioni anticipate, il paziente rifiuti le cure che potrebbero guarirlo o prolungarne l’esistenza, ma pretenda  di essere  nutrito e idratato anche artificialmente. Quid juris? Dal momento che la legge ha restituito ai giudici  della Repubblica il potere di vita e di morte nel senso proprio del termine (artt. 3/comma 5 e 4/comma5) probabilmente per la risposta occorrerà attendere una di quelle sentenze destinate, come dicono i giornalisti, a fare giurisprudenza.

 
Francesco Mario Agnoli

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