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L'ATEISMO DEL BUDDHISMO TIBETANO. Di Madame Janus

Il Dalai Lama afferma che “secondo il buddhismo la natura del rapporto fra mente e corpo è la dottrina anatman (non sé), che nega l’identità concreta della persona. Secondo questo principio, a parte gli aggregati psicofisici (skandhas) che costituiscono l’essere umano, non esiste alcuna anima originaria distinta, autonoma e che permane per sempre. Tutta la visione del mondo buddhista si basa su un sistema filosofico in cui il fondamento centrale è il principio di interdipendenza, il modo in cui tutte le cose e gli eventi pervengono all’esistenza unicamente come risultato dell’interazione di cause e condizioni. All’interno di questa visione del mondo, è quasi impossibile immettere una verità eterna e assoluta. Quando i buddhisti parlano della natura definitiva della realtà, si riferiscono alla dottrina di “sunyata”, la vacuità”.

Ci si potrebbe chiedere se questa affermazione non sia la riduzione del termine anima alla nozione logica di soggetto. La parola anima deriva etimologicamente da anemos, il vento, inteso come “soffio”, principio organizzatore della vita, ed assimilabile al respiro; non differentemente la parola greca psyche significa respiro. L’anima quindi è il principio presente in tutti gli esseri viventi che venne intesa ricorrendo all’idea del vento, la cui presenza è provata dagli effetti che provoca: l’agire, il pensare, la memoria. Ma l’anima è identificabile con quel che pensiamo di essere nella condizione dicotomica della coscienza nello stato di veglia? E in quale misura l’anima è il corpo che siamo in questa vita?

Nel buddhismo è concepita una continuità dell’esistenza in successive reincarnazioni attraverso la legge del Karma, ma non è insegnato che esiste un’identità che trasmigra da un mondo ad un’altro rimanendo uguale a se stessa. Karma è parola sanscrita che significa azione: evidentemente ogni azione porta con sé degli effetti che a loro volta generano altre condizioni, in un continuum di cause ed effetti, di cui anche la morte è parte. L’aggregato psicofisico si forma intorno ad un nucleo di spinte e tensioni egocentriche, o desiderio dell’esistenza. Questo nucleo permane fino a quando vi sia desiderio di una forma, ma per quante incarnazioni conosca nel tempo, per quanti corpi possa assumere, rimane pur sempre per i buddhisti un fenomeno transitorio, e quindi illusorio. Nel buddhismo la parola “anima” potrebbe forse essere tradotta con “mente”: se esiste la nostra mente privata, la coscienza nello stato di veglia, esiste una mente illuminata, sovrapersonale, onnicomprensiva, che è latente nel subconscio.

Nel buddhismo l’esperienza che squarcia il velo dell’illusione è una potenzialità inerente ciascun essere umano, e dove questa possibilità di illuminazione (bodhicitta) diviene una forza cosciente nasce un Bodhisattva; ma il Bodhisattva è anche la figura forse più commovente del buddhismo, l’essere che raggiunta la realizzazione metafisica, la liberazione da ogni vincolo, per compassione rimane incarnato in una forma per essere guida dell’umanità. In questo senso viene detto che le reincarnazioni del Buddha sono innumerevoli, sia nel passato, sia nel futuro. Quando si parla di anatman si vuole determinare un orientamento interiore, quello grazie al quale diventerà possibile l’ascesi. Fin dalla sua origine il buddhismo è stato refrattario a creare un impianto metafisico che potesse soddisfare l’intelletto, piuttosto ha sempre posto l’accento sull’esperienza diretta di ciò che non può essere definito o etichettato a parole, e richiesto a ciascuno di perseverare nello sforzo personale della pratica. L’ascesi ha però portato a continue nuove esperienze oltre l’usuale mondo percepito dai sensi, arricchendo le metodologie contemplative e meditative che evidentemente non sono cristallizzate una volta per tutte nel tempo. Gli insegnamenti attribuiti al Buddha sono tali e tanti che alcuni di essi a volte appaiono persino contraddittori, per cui è difficile cadere nel dogmatismo. Tutti questi diversi insegnamenti si rivolgono agli esseri senzienti, con esigenze e inclinazioni diverse fra loro, ed hanno generato, sia in Tibet che altrove, scuole o correnti dalle prerogative peculiari ed in apparenza inconciliabili.

Vi sono studiosi occidentali, teologi cristiani, orientalisti, che hanno voluto vedere nel buddhismo tibetano una forma di ateismo, affermazione espressa anche dal pontefice

Giovanni Paolo II. Il giudizio di ateismo, se preso alla lettera, è corretto, ovvero è palese la mancanza nella dottrina di una volontà creatrice divina, selettiva, e che possiede attributi. Come afferma il Dalai Lama, un parallelo tra cristianesimo e buddhismo è possibile ma solo fino ad un certo punto. Ad ogni modo è lecito domandarsi a quale realtà corrisponda la parola Dio, e se corrisponda all’Assoluto non-qualificabile e indicibile. “Sunyata” è la “vacuità” al di là di ogni intendimento, non essendo né Nirvana (l’estinzione) né Samsara (la corrente delle forme), ma essendo anche Nirvana e Samsara; la “vacuità” trascende le categorie speculative del pensiero e del linguaggio, è al di là di ogni possibile rappresentazione, quindi anche le iconografie allegoriche delle differenti divinità buddhiste vanno intese non come realtà ultime, ma come stadi dell’ascesi mistica e gnostica. Lama Anagarika Govinda così si esprime: “la mente umana non può fermarsi in alcun punto che porta alla conoscenza, così ogni ulteriore estensione dell’orizzonte spirituale porta a nuove precedentemente inimmaginabili dimensioni di coscienza. Il fatto che ogni esperienza non possa essere definita come qualcosa di esistente in sé, ma solo in relazione ad altre esperienze è presente nel termine “sunyata”, la relazione infinita di ogni esperienza. Questa super-relatività contiene l’elemento unificante dell’Universo vivente, poiché la relazione infinita è la relazione del tutto, una grandezza metafisica che non può essere descritta come “essere” né come “non essere”. Il paradosso sta proprio nella simultaneità del tutto e della parte, dell’eterno e del temporale, della nostra superficiale coscienza e della sovrapersonale coscienza profonda(…) il salto dell’abisso tra queste polarità è la spinta estatica verso la realizzazione della totalità”.

Lama Anagarika Govinda spiega anche l’iconografia di Avalokitesvara, il Buddha della Pietà e dell’Amore, nell’allegoria della Ruota della Vita: tra gli Dèi (deva) egli compare con il liuto per ridestarli dal loro autocompiacimento e indicare loro una superiore realtà; nel regno dei Titani guerrieri (asura) compare con una spada fiammeggiante per insegnare la nobile lotta per la conoscenza e l’assenza dei desideri; nel regno animale compare con un libro in mano, per indicare l’articolazione del linguaggio e del pensiero riflessivo che potrebbe liberarli dalle pulsioni elementari; tra gli uomini compare con la scodella per le elemosina ed il bastone, indicanti la Via dell’ascetismo; agli inferi, regno dei Preta, spiriti fatti di passioni insoddisfatte in perpetuo movimento, porta un recipiente colmo di tesori invitandoli a trasformare il kama-chanda, desiderio dei sensi, in dharma-chanda, il desiderio di verità e conoscenza.

Che la “Ruota della Vita” tibetana possa essere considerata simbolo della compresenza simultanea nell’essere umano dei differenti mondi o modalità d’esistenza è evidente. Ma come esprime l’allegoria, il buddhismo insegna anche che esiste la possibilità della realizzazione metafisica che abolisce il karma, e che l’individuo può divenire egli stesso un essere pienamente risvegliato come il Buddha. Quindi è a causa di un fraintendimento terminologico, di un mancato approfondimento, se definendo il buddhismo tibetano ateismo si è voluto negarne la prospettiva eminentemente metafisica.

Madame Janus

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