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CIO’ CHE I CATTO-LIBERALI NON VEDONO (MA IL PAPA SÌ). Di L. Copertino

Il prof. Flavio Felice, un giovane e brillante docente di formazione catto-liberale molto accreditato presso le gerarchie ecclesiastiche e le istituzioni universitarie pontificie di tendenze “conservative”, in un suo articolo circolante sul web (1) si è lamentato che «In un discorso commemorativo della figura di Margaret Thatcher, il sindaco di Londra Boris Johnson ha riproposto, in modo provocatorio e efficace, una certa vulgata “liberista” che normalmente si attribuisce – non senza una buona dose di approssimazione – alla coppia politica più significativa degli anno ’80: Ronald Reagan-Margaret Thatcher».

Secondo il nostro docente, il sindaco Johnson avrebbe riproposto una posizione tutt’altro che originale, ossia quella che avidità e ineguaglianza sarebbero il motore dell’economia, assegnando a tali caratteri una valenza evidentemente positiva. Il prof. Felice invece nega che la logica del profitto a tutti i costi e a qualsiasi prezzo sia un’esclusiva dell’economia, né tanto meno di quella speciale forma di organizzazione economica che egli chiama “economia di mercato” o “economia libera”, in quanto una tale logica appartiene anche ad altri ambiti, quello imprenditoriale, finanziario, politico, accademico e via dicendo. Se il Felice si dice non scandalizzato da tale constatazione, non saremmo noi a dircene scandalizzati, memori del fatto che l’umana natura è ferita dal peccato originale.

Ma il Felice, scandali a parte, è preoccupato piuttosto di scansare una obiezione che è quella secondo la quale: “Johnson non si riferiva a situazioni illecite, ma al sano egoismo di smithiana memoria: quella del macellaio e del birraio, per intenderci”. Ed è qui che il catto-liberale si scandalizza, per davvero, e scende in campo a difesa di Adam Smith che però cattolico non era e che anzi nutriva per il Cattolicesimo tutta l’avversione “antipapista” ed il pregiudizio del mondo anglosassone. Indifferente a tale retaggio, il Felice protesta che per Adam Smith l’interesse personale “non assurge all’alto e tutt’altro che nobile rango di egoismo, né tanto meno di avidità, perché il noto moralista inglese ha al contrario assunto come virtù che qualifica il libero mercato la “ympathy”, evidenziando in tal modo il carattere empatico della dimensione relazionale, dove l’altro non è uno strumento-utensile da utilizzare, non è un limone da spremere. Il fatto di dilettarsi a filosofare sui delicati sentimenti morali dell’essere umano non impediva però ad Adam Smith in qualità di funzionario della Compagnia delle Indie – il Felice è su questo corto di memoria – di prendersi a cura gli affari colonialistici dell’Impero britannico sulla pelle degli indiani e delle altre popolazioni soggette a Sua Maestà Britannica come manodopera a basso costo per l’accumulazione capitalistica e finanziaria presso la City londinese, molto attiva anche nel XVIII secolo.

«La nota espressione – ci ricorda il Felice – con la quale il filosofo morale conclude il passaggio dedicato all’interesse individuale come motore dei processi di mercato: “la mano invisibile”, evidenzia una prospettiva epistemologica piuttosto che morale. Non avanza alcuna pretesa in ordine a come dovremmo comportarci all’interno dei processi di mercato, non coinvolge la dimensione normativa, non è prescrittiva. Piuttosto, quella espressione ci dice che i fenomeni sociali sono il più delle volte, se non sempre, l’esito inintenzionale (irriflesso, per dirla con Carl Menger) delle azioni umane volontarie, queste sì intenzionali».

Sicché: « … in questa prospettiva – egli continua – appellarsi all’avidità e all’egoismo non significa minimamente collocarsi nella tradizione del liberalismo smithiano, anzi, semmai, significa prenderne fortemente le distanze e avventurarsi in tradizioni e prassi che con la storia di tale liberalismo hanno poco o nulla a che fare. A ben vedere, però, l’appello a simili sentimenti morali non ha molto a che fare neppure con i teorici di quel capitalismo che va sotto il nome di reaganismo o di thatcherismo, al quale ha fatto appello il sindaco Johnson».

Onde dimostrare il suo assunto “chiarificatore”, il nostro cerca di trovare appoggio, alle sue affermazioni, nella riflessione di un esponente di spicco della cosiddetta reaganeconomics, lo studioso americano George Gilder, il quale si è sempre detto convinto che un sistema come quello capitalistico necessiti di una “cultura del dono” e di una forza morale improntata ai valori della tradizione ebraico-cristiana e che, di conseguenza, non possa far leva sul mero self-interest utilitaristicamente inteso.

Sono decenni che la Teologia del Capitalismo, speculare e dialetticamente complementare alla Teologia della Liberazione, cerca di convincere, nell’inavvertenza del pericolo da parte dei nostri Vescovi, che il liberismo sarebbe giustificato da una presunta “tradizione ebraico-cristiana” senza alcuna altra specificazione, ossia senza alcun rilievo posto all’interno non della “tradizione” – perché la Tradizione è solo una la cui trasmissione è garantita soltanto dall’apostolicità della Chiesa (sicché i protestanti sono out!) – quanto piuttosto dalle “culture” con più o meno un riferimento cristiano formatesi nel corso dei secoli. Infatti, benché i catto-liberali, da anni, abbiano tentato una troppo facile svalutazione di Max Weber, adducendo una sicura origine medioevale e cattolica del capitalismo liberistico (ma Jacques Le Goff non era affatto d’accordo ritenendo, da storico di vaglia quale egli era, quello medioevale, perché comunitario ed evangelico-caritativo, un clima assolutamente sfavorevole all’individualismo di cui si nutre e di cui ha assolutamente necessità il liberismo moderno), resta il fatto, storico ed inconfutabile, che l’approccio all’economia è assolutamente diverso tra i popoli di fede apostolica, cattolica ed ortodossa, e quelli di cultura protestante. Solidaristico nel primo caso, individualistico e cinico nel secondo.

Ci sono però altre questioni che le osservazioni del Felice pongono ad una coscienza cattolica. Ma è davvero possibile prendere atto, con indifferenza, in tema di “mano invisibile”, della presunta valenza esclusivamente epistemologica, e non anche morale, dell’interesse individuale nei processi economici? È davvero lecito, cattolicamente parlando affermare, in tema di “mano invisibile” e di processi di mercato, che la filosofia smithiana non avanza pretese normative e prescrittive?

A noi sembra piuttosto che in questo “indifferentismo” stia tutta la difficoltà del cattolico liberale – al quale da correligionari guardiamo fraternamente con tutta la comprensione necessaria ma anche richiamandolo ad un maggior disincanto basato sul realismo che la nostra fede ci dona – che cerca di far quadrare il cerchio tra etica cristiana e liberismo. Perché, al contrario, lunghi dall’essere solo uno strumento epistemologico, non normativo o prescrittivo, la “mano invisibile” ha alle sue radici una ben precisa connotazione teologica, che certamente non è cattolica, quanto piuttosto – e lo vedremo subito – gnostica, e se viene assunta come un oggettivo dato di natura, quindi come una scoperta dalla scienza economica moderna, è evidente che essa non può che diventare prescrittiva e normativa. Tutta la Scuola di Vienna (Hayek e Mises) ha contestato qualsiasi interferenza con le “spontanee” e “libere” dinamiche del mercato come una violazione di presunte “leggi naturali”. E non solo le interferenze politiche e giuridiche, quindi dello Stato, ma anche – cattolici badate bene! – quelle morali, quelle che, come nel caso del Felice, vorrebbero immettere nel mercato elementi di solidarietà. Il fatto è che per il liberismo, per ogni liberismo, l’orizzonte è, alla fine, inevitabilmente riduttivistico ed immanentistico. Il “libero mercato” è una costruzione ideale, un assunto, al pari del totalitarismo (non a caso Augusto Del Noce parlava, per l’Occidente liberale trionfante post ’89, di massima realizzazione della reificazione totale dell’uomo), dal tremendo carattere “costruttivistico” perché un mercato perfetto come immaginato dai liberisti non è mai esistito né mai esisterà (ed in proposito diamo onestamente atto che il Felice, come si noterà da una citazione riportato di seguito, sembra consapevole di questa “costruttività” del concetto liberista di mercato).

Un’altra questione che dovrebbe interrogare la coscienza cattolica è quella per la quale l’orizzonte immanentistico e riduzionista dell’approccio liberista al mercato nasconde un presupposto di “a-politicità” se non addirittura di “anti-politicità” che fa a pugni con la socialità naturale dell’uomo, quale fondamento non contrattualista del Politico. La naturale socievolezza dell’uomo è affermazione costante del pensiero cattolico che a partire dallo stesso Vangelo, passando perAgostino e Tommaso, rielaboratori cristiani delle intuizioni di Platone ed Aristotele, giunge fino al Magistero recente e recentissimo. Quando diciamo “naturalità del Politico”, del vivere sociale in comunità, non intendiamo con approccio invero riduttivo indicare soltanto l’orizzonte della relazionalità interpersonale – che può essere sinallagmatico, ossia utilitarista, o reciprocamente “donativo” (anche se la scuola antiutilitarista di Marcel Mauss non se ne rende conto, anche l’ambito “donativo” resta comunque nell’alveo dell’utilità, benché reciproca ossia simmetrica, e non ha del tutto a che fare con la gratuità cristiana: se si dona per consuetudine o per reciprocità non si dona mai del tutto gratuitamente ossia senza attese di contropartite) – ma intendiamo indicare anche, e soprattutto, la dimensione verticale propria della Polis, della Comunità Politica con i suoi rapporti tra Autorità Politica e cittadini.

Una dimensione verticale che resta sempre fondata, che lo si voglia o meno (e l’uomo è comunque libero di riconoscerlo o negarlo traendone tutte le debite conseguenze in termini di bene o male), sull’analogicità del rapporto tra Trascendenza ed immanenza, tra Teologia ed antropologia. Ora se c’è un aspetto che accomuna liberismo e marxismo è esattamente la loro “anti-politicità”, il loro avversare ogni dimensione del Politico presentendo che è questa la via per avversare il nemico ultimo, finale ed autentico: il Dio della Rivelazione ebraico-cristiana e della Tradizione Apostolica, il Quale – rivolgendosi innanzitutto a coloro che detengono il potere affinché siano giusti nel suo esercizio – nello stesso passo biblico nel quale è lodata la Sapienza creatrice, ovvero il Verbo di Dio, ammonisce “Per Me reges regnant” (Pv 8,15).

Una avversione che la modernità ha conosciuto prima nella sua forma “contrattualista” e poi in quella “mercantilista”. Se un Hobbes poteva parlare della Comunità Politica come di un Leviatano, come di un “dio mortale”, era perché in lui, benché nello sviamento di una visione del mondo meccanicista e razionalista, ancora agiva l’eredità culturale per la quale al fondo del Politico si trova sempre una teologia di un tipo o di un’altra, come riconobbe tre secoli dopo anche un Juan Donoso Cortés. L’antipoliticità antiteologica del liberismo è palese proprio nell’esaltazione della “esoterica” mano invisibile che tutto muove senza alcun bisogno di orizzonti trascendenti ed etero-fondati, prefigurando in tal modo esattamente lo stesso scenario a-politico ed a-teologico proprio della società comunista compiuta, senza Dio e senza Stato, come immaginata ed auspicata da Marx in chiusura di Das Kapital, nella quale a fronte del libero apporto di ciascuno al lavoro sociale avverrebbe spontaneamente la redistribuzione del reddito collettivo, al di fuori di ogni ormai non più necessaria direzione politica.

Sono troppi coloro che annoverano Adam Smith tra gli ottimisti “cristiani”, tutto intento a indicare all’umanità le vie per la crescita della ricchezza e la sconfitta della povertà. Ettore Gotti Tedeschi, ad esempio, banchiere di lustri vaticani, ritiene il pensiero di Adam Smith un esempio di fiducia “cristiana”, nell’operosità dell’uomo secondo il dettato biblico del “crescete e moltiplicatevi”(2). Anche il nostro Felice sembra condividere questa convinzione ed infatti egli scrive, pur con accenti critici al “costruttivismo” liberista, citando il reaganiano Gilder: «“È impossibile, a partire dal meccanismo di razionalità del self-interest, dar vita ad un sistema regolato e sicuro che non finisca per indebolire le fonti della volontà e limitarne il potenziale rispetto al pericolo e alla lotta, che non impoverisca lo spontaneo flusso di doni e di sperimentazioni che estendono le dimensioni del mondo e i circoli dell’umana simpatia”. Gilder, dunque, giudica in modo estremamente negativo la volgarizzazione utilitaristica del principio smithiano del self-interest che prelude alla teoria di un “capitalismo senza capitalisti”, ad una concorrenza senza concorrenti e ad un mercato di beni omogenei, con operatori in possesso di una conoscenza perfetta: un luogo nel quale gli interessi di uomini onniscienti tenderebbero verso un equilibrio perfetto mossi, appunto, da una “mano invisibile”. Di contro, egli è convinto che non esista altra via per rispondere concretamente al dramma della povertà che non passi per l’espansione del “circolo creativo del dare”, che non contemperi l’aumento esponenziale di coloro che con coraggio si assumono il ragionevole rischio dell’investimento imprenditoriale; persone fiduciose del futuro, aperte alla Provvidenza, innamorate della vita e del proprio prossimo».

Qui, tuttavia, si dimentica, o si sottace, che Adam Smith non pensava a “persone fiduciose nel futuro, aperte alla Provvidenza e innamorate della vita e del prossimo”, quando faceva notare che il fornaio non ci procura il pane per filantropia ma mosso dal suo utile, dal suo bisogno di procacciarsi i mezzi di sostentamento. Se, certamente, la radicalità evangelica del «Nihil mutuum date inde sperantes» (Lc. 6,34) è orizzonte che richiede un apporto di Grazia e santità quale sono i santi, come Francesco, sono stati capaci di praticare pienamente, restando a noi altri uomini di “minore santità” comunque il dovere di almeno tendere a tale vetta per quanto è nelle nostre possibilità concrete e personali, mitigando il momento egocentrico con quello altrui-centrico, entrambi presenti nella coscienza e nell’agire umano, è altrettanto certo che Adam Smith ragionasse, al contrario, in un orizzonte culturale che risentiva della sfiducia ontologica, quindi del pessimismo antropologico, di matrice luterana e più in generale protestante.

È evidente la contraddizione in termini della pretesa – epistemologia o non epistemologia – del sorgere del bene dal male, del bene universale dal comportamento utilitario che ha per obiettivo il proprio egoistico interesse. Qui risuona, altisonante anche se il nostro Felice non se ne accorge, il luterano “peccato salutare”, il “simul justus et peccator”, il “pecca fortiter, sed crede fortius”, che nell’accezione del monaco tedesco non era affatto solo un riconoscimento della debolezza umana, sempre bisognosa della Misericordia Divina, ma una vera e propria negazione della Grazia ritenuta incapace, in tale prospettiva, di cambiare davvero e fino in fondo il cuore umano, il quale pertanto resta sempre malvagio, limitandosi la Grazia, dall’esterno e senza operare in interiore homine, soltanto a “coprire” agli occhi di Dio la natura umana essenzialmente del tutto corrotta (non soltanto “ferita” come nel dogma tridentino) dal peccato e che tale rimane anche nel “giusto”. Dietro queste asserzioni luterane si cela una teologia, erroneamente ritenuta di matrice agostiniana, dipendente, come ha dimostrato Theobald Beer, dal riemergere nell’età umanistico-rinascimentale di posizioni culturali neo-platoniche le quali, a differenza di quanto riuscirono a fare i Padri della Chiesa con il platonismo dei loro tempi, furono mal digerite da Lutero. Posizioni invero intrise di ermetismo e gnosticismo spurio che, per tale via, riproponevano una svalutazione, fino alla dichiarazione della negatività, dell’essere, il quale al contrario per la teologia cattolica in quanto creazione di Dio porta sempre l’impronta di una bontà originaria (“Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” Gen 1,31) senza che la ferita del peccato possa del tutto corromperla.

Affermare che dalla concorrenza – al di là dell’etimologia della parola che nel “cum/currere” può indicare sia la convergenza nella solidarietà sia, appunto, la gara del “mors tua, vita mea” – possa nascere la cooperazione nel benessere e nella pace universale, come pretendono i liberisti, è, a ben vedere, una applicazione del concetto teologico luterano per il quale il “peccato è salutare”.

Adam Smith, lunghi dall’essere un pensatore che avrebbe tratto il proprio pensiero dalla fecondità dell’eredità culturale ebraico-cristiana, ha invece attinto a piene mani, per la mediazione luterana di cui sopra, da fonti spurie. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che egli fosse anche un “moralista” perché la sua era la morale dell’umanitarismo, di matrice protestante, la quale sostiene che il massimo di eticità e di razionalità del comportamento umano coincidono con la massimizzazione dell’utile individuale e che dalla costante ripetizione, da parte di tutti, di tale comportamento di “virtuoso egoismo”, ritenuto secondo “natura”, nasce il bene generale.

Adam Smith, come è noto, giunse a questa convinzione non tanto per una oggettiva analisi della realtà umana e sociale quanto piuttosto per una profonda introiezione della “morale” sottesa ad un racconto letterario, La Favole delle Api del Mandeville, un altro autore protestante e di esoterici interessi filosofici. In tale favola la laboriosità delle api è presa come emblema dello sforzo comune che ciascun individuo fa per il bene generale e tuttavia tale sforzo non è effettuato che esclusivamente per la propria individuale affermazione, ossia per il proprio fine egoistico, e soltanto fino a quando lo sforzo è funzionale all’affermazione del proprio ego. Ora – affermava Mandeville e sulla sua scia Smith – ciò che le api fanno per istinto, gli uomini devono farlo con razionale consapevolezza e comprendere che solo il virtuoso egoismo di ciascuno produce l’esistenza stessa del vivere associato. Adam Smith si inserisce pienamente nell’alveo della filosofia politica contrattualista e, come per Rousseau, Locke ed Hobbes, nonostante le differenze tra le loro reciproche posizioni particolari, anche per il nostro pensatore inglese la convivenza sociale è soltanto un contratto che gli individui stipulano nel reciproco ed esclusivo interesse egoistico. Un contratto valido soltanto fino a che si dimostra utile ai reciproci interessi e quindi risolvibile in qualsiasi momento dagli stessi contraenti.

Come nella favola di Mandeville, anche nella filosofia morale utilitaria di Adam Smith i “vizi privati” – il lusso, la lussuria, la ghiottoneria, l’usura et similia – diventano, se non contrastati (in questo sta tutto il senso profondo della parola “liberismo”), il fondamento stesso delle “pubbliche virtù” ed, in ultima analisi, della prosperità generale dal momento che, per fabbricare oggetti di lusso, preparare cibi ghiotti e soddisfare usure e lussurie, lavorano operai, si accumulano capitali, funzionano macchine e si producono profitti. Un minimo di cattolico realismo e di comune buon senso suggerisce invece che interessi e vizi lungi da unire gli uomini li dividono. Nella gnosi di Mandeville e di Smith la “mano invisibile” è per l’appunto l’occulta ed impersonale anima mundi che celata dietro e dentro il mondo lo agisce a sua insaputa, sicché tutto il resto non sarebbe altro che, per usare un termine marxiano quanto mai appropriato per questo tipo di filosofia sociale, “sovrastruttura” sentimentale incapace di generare vera felicità e prosperità generale. Un cattolico, di fronte a tale filosofia smithiana, non può lasciarsi sfuggire la natura luciferina della suggestione ad abbandonarsi al peccato ed ai vizi per consentire alla “mano invisibile” di dispensare senza sforzo la felicità universale: l’economista liberista ha per padre il libertino nichilista ed, infatti, non è un caso che storicamente il libertinismo – vecchia conoscenza dell’umanità sin dai primordi – ed il liberismo siano diventati gradualmente egemoni a partire dalla Rivoluzione giuscontrattualista ed illuministica del XVII e del XVIII secolo.

Una cosa è certa: i cattolici liberali devono fare i conti con queste criticità di pensiero invece di sorvolare sui problemi di fondo nascondendosi dietro una irenica comune “cristianità” della cultura occidentale euro-americana come se la storia religiosa, di pensiero teologico e filosofico, culturale e sociale di questo presunto unitario “occidente” (che in realtà non è mai esistito), che sarebbe giunto a maturazione finale nell’età del liberismo globale, non fosse invece attraversata da fratture epocali le quali non giustificano affatto tale approccio catto-liberale. La dimostrazione sta proprio nel disagio che il prof. Felice prova di fronte alle affermazione del sindaco Johnson ed è troppo facile nascondersi dietro l’epistemologia per tacere che il pensiero di Adam Smith porta inevitabilmente alle posizioni del Johnson e che, anzi, merito di quest’ultimo è quello di porre la questione nella sua nuda durezza e senza più orpelli “epistemologici” o “moralistici”.

Perché – lo diciamo da cattolici – se ha ragione il Felice a ritenere che:

«… le parole di Johnson stridono terribilmente con quelle che Papa Francesco ha usato nella recente Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Lungi dal negare l’importanza del mercato e la necessità della crescita economica, il Papa afferma l’impossibilità di ridurre in modo meccanico lo sviluppo alla mera crescita, così come di identificare il complesso dinamismo della persona umana con le sole relazioni di scambio, tipiche del mercato. Lo sviluppo, per Papa Francesco e per la tradizione della Dottrina sociale della Chiesa, è una nozione qualitativa e necessita di più dimensioni, quella educativa, culturale, valoriale che il mercato non produce da sé, benché ne necessiti …»

e che:

«I processi di mercato hanno a che fare sempre e comunque con la persona e solo le persone (dunque “non il mercato” aggiungiamo noi, nda), ossia la prospettiva antropologica della quale sono portatrici, sono in grado di implementare le istituzioni politiche, economiche e culturali, in modo da poter confermare ovvero smentire clamorosamente l’urticante, ma non peregrina, prospettiva del sindaco Johnson»,

è necessario da parte catto-liberale fare ammenda e riconoscere che questo richiamo all’antropologia, che è a sua volta un richiamo alla teologia, e dunque alla pluridimensionalità teo-antropologica dell’esistenza umana, è esattamente tutto quello che pensiero e pratica liberale e liberista, nonostante ogni pur sempre parziale accostamento da parte cattolica, alla fine negano recisamente, pena non essere più pensiero e pratica liberal-liberista.

Luigi Copertino

NOTE

1)Cfr. F. Felice “Se il Papa conosce meglio il mercato dei conservatori inglesi” in www.tocqueville-acton.org ed in www.cattolici-liberali.com del 04.12.2013. Le citazioni del Felice sono tratte tutte da questo suo interessante intervento.

2)Si vedano le affermazioni, in proposito, del Gotti Tedeschi nel libro intervista con Rino Cammilleri “Denaro e Paradiso – I cattolici e l’economia globale”, Lindau. Un libro che, nell’ultima edizione, si fregia, come fosse un titolo di accreditamento dottrinale, della prefazione del cardinale Tarcisio Bertone, un ecclesiastico che, pur con tutto il rispetto dovuto, non possiamo citare senza pensare all’attuale decadenza di quella Curia romana la quale, nel corso dei secoli, ha saputo, nel bene come nel male, sempre essere all’altezza dei tempi come invece oggi non sembra più essere.

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