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LA PATRIA SOCIALE. Di Luigi Copertino

Un dato inoppugnabile

Nel nostro precedente contributo “Il mondo al bivio: sovranismo economico o globalizzazione?”, su www.domus_europa.eu del 18.02.2025, concludevamo osservando che il dato storico inoppugnabile dal quale bisogna partire è quello per il quale le classi lavoratrici hanno migliorato le proprie sorti, sociali ed economiche, soltanto all’interno della struttura politica dello Stato nazionale. Il Patto sociale sul quale si fondava lo Stato nazionale ha consentito, in un quadro produttivista, l’ascesa del lavoro perché lo Stato, onde impedire la deflagrazione dell’unità politica della nazione, ha imposto al capitale il riconoscimento dei diritti delle classi popolari. Al contrario, il ceto medio e le classi lavoratrici a causa della globalizzazione, avviatasi alla fine del XX secolo, hanno perso molto del terreno conquistato. Quinn Slobodian ha dimostrato che il capitalismo si è globalizzato attraverso la frammentazione dello Stato nazionale (1). Non più Stati-nazione ma tanti piccoli territori, senza tassazione, senza welfare, senza regole, senza democrazia, in concorrenza spietata tra loro. La globalizzazione ha bisogno del localismo. È una glocalizzazione. In questo scenario il tradizionalismo delle piccole patrie e i federalismi transnazionali sono funzionali al disegno del capitalismo volto alla mondializzazione. I tradizionalisti religiosi e gli identitari che innalzano bandiere crociate e i simboli storici della heimat, credendo di vendicarsi dello Stato giacobino in crisi, in realtà stanno favorendo l’esito ultimo di un processo storico che ha usato lo Stato, quale forma politica della modernità, per chiudere la via verso l’Alto, ossia abbattere le Auctoritas universalistiche medioevali – Chiesa e Impero –, per poi superare lo stesso Stato onde raggiungere un nuovo universalismo senza Trascendenza, del tutto orizzontale. Ciò che oggi chiamiamo globalizzazione e che è una parodia, una scimmiottatura, dell’Universalità tradizionale.

Quelle pre-globalizzazione, nonostante il commercio internazionale non fosse certo assente, erano economie auto-centriche imperniate sulla nazione e, quindi, sul primato della domanda interna. L’imprenditoria in un quadro del genere era indotta a farsi carico, con spirito di responsabilità sociale e in chiave nazionale, dei problemi dei lavoratori il cui reddito costituiva, per l’appunto, la domanda necessaria allo sbocco delle merci prodotte. Aumentare quel reddito – e calmierare il conflitto distributivo, attraverso l’intervento statuale e forme di partecipazione organica di tutte le componenti della produzione al governo politico della nazione e, talvolta, a quello delle aziende – era l’unica via per evitare il blocco della produzione e, per lo Stato, la dissoluzione dell’unità nazionale. Nel corso della formazione e del consolidamento degli Stati nazionali, i ceti dirigenti, tanto conservatori quanto democratici, sin dall’ottocento compresero che quella dell’integrazione capitale-lavoro era l’unica possibile strada. Nel momento in cui la produzione ha trovato invece il suo sbocco primario nei mercati esteri, sostenuta in prevalenza dalla domanda esterna, quel patto sociale gradualmente formatosi nel quadro della nazione, organizzatasi poi in Stato sociale, è venuto meno a tutto vantaggio del capitale e a danno del lavoro.

A trent’anni dall’affermarsi del processo di globalizzazione possiamo constatare che il progetto occidentale della reductio ad unum del mondo, nella forma del liberismo a trazione statunitense sancito, a suo tempo, dal Washington Consensus, è in forte difficoltà e mostra tutti i suoi punti deboli. La pretesa del globalismo di eliminare la nazione, quale forma del Politico, e di fare dello Stato nazionale soltanto l’esecutore amministrativo delle decisioni prese dagli organismi tecnocratici transnazionali non poteva non provocare la inevitabile reazione che va manifestandosi nella rivolta populista e nella tendenza multipolare la quale punta a riorganizzare il mondo attraverso accordi inter-statuali, come quello dei Brics, piuttosto che continuare a delegare sovranità agli enti transnazionali.

Senza dubbio non assisteremo nell’immediato, in Occidente, ad un ritorno dello Stato nazionale quale principale attore politico ed economico. Persistono ancora troppe remore, in particolare culturali, soprattutto a sinistra, verso l’idea di nazione, di patria, di terra dei padri, che, poi, è anche terra delle madri ossia madrepatria, di Stato nazionale riunificatore delle patrie locali intorno ad un livello, quello nazionale, oltre il quale non può esserci, orizzontalmente, il mercato globale ma soltanto, verticalmente, la Trascendenza incarnata dalle forme istituzionali e sociali che storicamente hanno assunto le religioni tradizionali. Ma, indubbiamente, una politica fondata sull’appartenenza e l’identità è l’unica possibilità che hanno i popoli per sfuggire all’omologazione mondialista alla quale conduce la finanziarizzazione dell’economia. Il rischio della chiusura “tribalista” e “neopagana” dell’identitarismo va accuratamente evitato con una apertura spirituale verso l’Alto, verso la Trascendenza, assicurata dalle Tradizioni universali, come il Cristianesimo o l’Islam, in modo da ungere, senza eliminarle, con la discesa dello Spirito le plurime identità dei popoli, organizzati in Stati, ordinandole organicamente, in forma confederali, secondo il modello ideale dell’Imperium tradizionale. Un auspicio, questo, che ha certamente bisogno di un intervento provvidenziale nella storia e non può essere solo opera umana.

L’idea di nazione tra destra e sinistra

Nel XX secolo la nazione è apparsa come un elemento di conservazione. Al contrario, tuttavia, nella sua genesi storica l’idea di nazione ha un carattere originariamente rivoluzionario. La nazione, organizzata in Stato nella forma delle monarchie assolute, sulla scorta della filosofia contrattualista antropocentrica che andava surrogando la concezione teocentrica del diritto naturale classico-cristiano, nasce tra XVI e XVIII secolo quale fattore rivoluzionario di contestazione dell’universalismo romano-cristiano medioevale. In tale quadro essa assunse più tardi, nella linea di continuità tra assolutismo monarchico e moto rivoluzionario giacobino del 1789, un ruolo cardine nella concezione politica progressista lungo i sentieri della modernizzazione. Nel corso del XIX secolo l’idea di nazione subì, però, una prima trasformazione. Essa infatti scivolò verso la destra organicista, di ascendenze tradizionaliste, consentendo a quest’ultima di superare le nostalgie dell’Ancien Règime e offrendole la possibilità di reinserirsi nel dibattito pubblico con nuove e moderne concezioni politiche. Da questa assunzione di categorie moderne, con contestuale abbandono delle nostalgie premoderne, nacque quella che, più tardi, è stata chiamata “Destra sociale”.

Per meglio comprendere questa dinamica è opportuno richiamare il concetto tradizionale di patria come espresso dal generale vandeano François-Athanase de Charette de La Contrie il quale per distinguerla dall’idea giacobina di nazione ne sottolineava il radicamento nella identità e nella cultura dei popoli contro l’astrazione rivoluzionaria

«La nostra patria per noi sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. (…). Ma la loro patria cos’è per loro? … Loro l’hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i nostri piedi».

Questo richiamo alla “terra” lo ritroveremo, alla fine del XIX secolo, nel nazionalismo bonapartista e popolare del boulangista Maurice Barrès ma in un contesto spirituale del tutto diverso giacché, a differenza del tradizionalismo, nel nazionalismo moderno non c’è più alcun richiamo alla Metafisica, al Sovra-razionale. Si attinge, invece, a piene mani alla Sub-fisica, alla psicologia sub-razionale, del profondo, e in tal modo la concezione giacobina della nazione, romanticizzata con apporti occultistici e vitalistici, viene innestata sul tronco dell’idea tradizionale di patria superando la dicotomia destra-sinistra.

Una cosa tuttavia è certa. Nonostante l’inversione spirituale – fatto comunque di non poco conto –, con l’avanzare della modernità si registra una convergenza politica tra la patria tradizionale e la nazione volontaria di matrice rousseviana. Intuì questa possibilità, già alla fine del XVIII secolo, l’ex generale cisalpino e bonapartista Giuseppe Lahoz Ortiz (1766-1799) che, deluso dai francesi dimostratisi arroganti e nient’affatto liberatori, passò dalla parte delle insorgenze popolari antifrancesi, guidando le truppe ribelli – da lui organizzate in un esercito che significativamente si proclamava nazionale ma al tempo stesso “imperiale, regio e cattolico” – fino a mettere in seria difficoltà gli invasori. Lahoz si era convinto che l’unità nazionale italiana, per la quale egli aveva inizialmente aderito al giacobinismo, non fosse possibile senza l’appoggio delle masse popolari ovvero senza l’apporto della Tradizione cattolica che era sostanza e forza della identità delle popolazioni italiane.

La sinistra sorge, alla fine del XVIII secolo, intorno all’idea di nazione ma si trattava della nazione intesa non come tradizione ma al modo costruttivista proprio del giacobinismo. La nazione giacobina rivendicava a proprio fondamento la volontà popolare scaturente da un supposto contratto sociale, che in realtà era soltanto un filosofema del tutto artificiale e irreale. Questa concezione della nazione si caratterizzava per l’astrattezza propria del razionalismo illuminista. Ad essa le insorgenze popolari antirivoluzionarie opponevano la patria intesa, appunto, come tradizione e identità. L’idea di nazione, nella storia della sinistra, è stata l’istanza della emancipazione dalla Tradizione, quindi l’istanza della modernizzazione. Nel contesto del dominio colonialista la nazione è stata poi, per la sinistra, la chiave dei movimenti di liberazione dallo sfruttamento straniero. In generale, la sinistra ha riconosciuto nella nazione il fattore rivoluzionario sul quale fare perno per l’avanzamento sociale delle classi più deboli. Non è dunque vero, se non per la corrente marxista, che la sinistra sia intrinsecamente internazionalista. In Italia, ad esempio, il processo unitario è stato idealmente condotto in base alle istanze democratiche del mazzinianesimo e a quelle socialiste dei mazziniani più oltranzisti come Giuseppe Ferrari e i fratelli Pisacane. Benché per lo stesso Mazzini la nazione appariva come un gradino verso l’Umanità, verso cioè il Globale – dunque un tassello necessario alla più vasta costruzione di una Europa federale di nazioni repubblicane, e poi di un mondo interamente fondato su repubbliche democratiche presunte sorelle – essa restava per il rivoluzionario italiano comunque una realtà imprescindibile.

Dalla nazione giacobina, democratica e rivoluzionaria, discende, persino nel simbolo del fascio romano, quella particolare forma di socialismo nazionale che in Europa è stato il fascismo. Nato dalla sinistra rivoluzionaria, il fascismo, alla ricerca di un socialismo non viziato dall’internazionalismo marxista, finì per integrare nella sua parabola il patriottismo tradizionalista, allorché, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, oltrepassando i confini, storicamente permeabili, sussistenti tra destra e sinistra, le due concezioni della nazione, quella tradizionale e quella rivoluzionaria, inevitabilmente si incrociarono. Con il fascismo anche la sinistra comunista ebbe contatti non superficiali: si pensi alla parabola di Nicolino Bombacci cofondatore del PCd’I che poi avrebbe aderito alla Repubblica Sociale fascista o alla lettera ai “fratelli in camicia nera” che Togliatti scrisse nel 1936 da Parigi ai fascisti di sinistra o ancora alle intese, nell’immediato dopoguerra, tra il Pci e i “fascisti rossi” di Stanis Ruinas. La sconfitta militare dei fascismi ha costretto la sinistra a ripudiare il concetto di nazione amplificando invece l’internazionalismo di matrice marxista.

Il più grande errore della sinistra

Per nascondere i suoi stretti rapporti con il fascismo, che della sua vicenda politica è stato parte integrante, la sinistra si è mostrata incapace di fare i conti con la propria storia e questa incapacità ha finito per esporla al più grande errore che mai essa poteva fare, quello dell’internazionalismo, agevolando di conseguenza la dinamica mondiale del dominio del capitale cosmopolita. L’unificazione del mondo, al contrario di ciò che pensava Marx, non è stata realizzata dai proletari, che non hanno mai conseguito alcuna unità al di là delle differenze nazionali, ma dal capitale. In particolare dal capitale finanziario che, immateriale, fluido, denazionalizzato, grazie anche alla tecnologia digitale e cibernetica, è riuscito a emanciparsi da ogni legame con il territorio e con la dimensione produttiva dell’economia, rendendosi indipendente da qualsiasi progetto di sviluppo nazionale, auto-centrico, dell’economia.

Il più grande errore della sinistra è stato quello di non accorgersi che, storicamente, le classi popolari hanno migliorato le proprie condizioni socio-economiche esclusivamente nel quadro di una economia protetta dai confini statuali e coordinata dalla politica nella cornice dello Stato nazionale. Economia auto-centrica benché non in assoluto autarchica. Questo dato storico è riscontrabile sia nel caso in cui lo Stato nazionale ha assunto la forma della “dittatura di sviluppo” monopartitica, come appunto nel fascismo, sia nel caso nel quale esso ha, invece, assunto, conservato o ampliato la forma democratica pluripartitica.

Nonostante i conflitti bellici che lo hanno caratterizzato, il periodo che va dagli anni ’30 fino agli anni ’80 del secolo scorso è stato un periodo nel quale, parallelamente alla maggior presenza dello Stato nell’economia, crebbe un più diffuso benessere tra tutti i ceti sociali. In quell’epoca le classi lavoratrici ottennero i maggiori ampliamenti e riconoscimenti in termini di diritti e di tutele, in una misura mai prima conosciuta nella storia. A dire il vero, si è trattato di una dinamica di “lungo periodo” dato che la socializzazione dello Stato nazionale, quindi di conseguenza anche del capitalismo ancora nella sua fase patrimoniale, ebbe i suoi prodomi già nel XIX secolo, allorché le classi politiche dirigenti compresero che bisognava affrontare e risolvere la questione sociale, pena la sopravvivenza stessa degli Stati nazionali, attraverso politiche di integrazione organica tra capitale e lavoro volte alla graduale redistribuzione della ricchezza. Politiche le quali avviate in forme ancora “paternalistiche” ebbero successivi sviluppi su basi nazionali e democratiche. Si pensi a Disraeli in Inghilterra e a Bismarck in Germania ma anche a Giolitti in Italia. Senza dimenticare gli sforzi, in tal senso, dell’Austro-Ungheria nonostante il suo carattere plurinazionale e nonostante il dottrinarismo marginalista che imperversava nelle università di economia dell’impero osteggiato, tuttavia, dall’“austro–socialismo” della cattedra.

Globalizzazione e auto-centrismo

Con gli anni ’90 del XX secolo il progetto della globalizzazione, finanziaria più che reale, dell’economia, già teoricamente ed istituzionalmente impostato nei circoli delle élite mondialiste dalla fine degli anni ’70 ma rimasto al palo finché ha retto il muro di Berlino, ha trovato modo di essere implementato senza più effettive resistenze. È iniziato così il sempre più accelerato declino delle conquiste politiche e sociali ottenute dalle classi popolari nei due secoli precedenti. Un declino che è stato determinato, con tutta evidenza, dal venir meno dello Stato nazionale che nel frattempo era diventato Stato sociale. Lo Stato nazionale, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, insieme alla sovranità monetaria ha perso la sua capacità di controllo delle dinamiche economiche onde dirigerle, come l’auriga con i cavalli riottosi secondo il mito platonico della biga, verso scopi e obiettivi di interesse, utilità e coesione nazionale.

La globalizzazione ha messo in crisi il paradigma sul quale si reggeva l’economia keynesiana affermatasi nell’ultima fase della modernità, precedente il passaggio al post-moderno, quella ricompresa tra gli anni ’30 e ’80 del XX secolo. Si trattava del primato della domanda interna sulla domanda estera con la conseguente indipedenza tendenziale delle economie nazionali da troppo costringenti forme di vincolo esterno. Il keynesismo infatti non può sussistere che nel quadro di una economia nazionale auto-centrica. Ce ne dà conferma Enrico Grazzini laddove ci spiega che John Maynard Keynes era a favore della autosufficienza nazionale e contrario all’internazionalizzazione del capitale (2). Invece, il suo storico avversario, ossia Friedrich von Hayek, auspicava la denazionalizzazione della moneta e la libera circolazione dei capitali. Hayek era un globalista, Keynes un sovranista.

Dobbiamo tuttavia riscontrare che, nel suo contributo, Grazzini continua a pagare il dazio al conformismo politico corrente laddove afferma che l’autosufficienza nazionale di Keynes sarebbe cosa diversa dall’autarchia fascista. Che sul piano delle concrete circostanze storiche si possano riscontrare differenze, ad esempio l’assenza nel pensiero di Keynes di elementi “imperialisti”, è indubbio. Ma il punto sta nel verificare se quegli elementi differenziali sono da ritenersi essenziali o se, invece, appartenevano in modo accessorio all’ideologia del fascismo, che – ribadiamo – ha origini nella sinistra sindacalista e nel mazzinianesimo risorgimentale. Keynes ha elaborato le sue dottrine economiche nel periodo del massimo consenso e trionfo, non solo in Italia, del fascismo. Il suo “Trattato” è del 1936 e raccoglie idee molto diffuse all’epoca, Idee che egli aveva sviluppato e sistematizzato scientificamente nel decennio precedente, anche attraverso contatti con grandi intellettuali eterodossi come Ezra Pound il quale, non a caso, avrebbe aderito alla speranza della “terza via” fascista. L’economista inglese, pertanto, è perfettamente inserito nella sua epoca che fu l’epoca della “statualità” dell’economia.

Che l’economia, negli anni in cui Keynes consegnava al mondo le sue riflessioni, avesse assunto un carattere nazional-statuale è un dato oggettivo e poco importa che tale statualità economica si esprimesse nel corporativismo del fascismo – il quale nonostante i compromessi del regime con le classi conservatrici conteneva i germi, che iniziarono a maturare negli anni ’30, di uno sviluppo verso lo Stato sociale e verso una socializzazione del sistema capitalistico, pur senza abolirlo – o nel New Deal dell’America rooseveltiana, che uno storico come Ludovico Garruccio ha definito «la dose massima di fascismo che una società democratica come quella americana poteva assorbire» (3). In un caso come nell’altro si trattava di forme analoghe di dirigismo economico e i reciproci elogi intercorsi tra il “signor Roosevelt” e “mister Mussolini”, negli anni trenta del secolo scorso – allorché il dittatore fascista scriveva con entusiasmo del New Deal su “Il Popolo d’Italia” e il presidente degli Stati Uniti inviava Rexford Tugwell, l’uomo più a sinistra del suo staff, in Italia per studiare il dirigismo economico del regime – stanno lì a documentarlo. Le idee di Keynes rispecchiavano lo stesso clima culturale dal quale traeva linfa l’autarchia del socialismo nazionale fascista. Storicamente questo è indiscutibile. Poi, certamente, è meglio la democrazia che la dittatura. Ma una democrazia sociale, nazionale, sovrana e indipendente da vincoli esterni (leggasi, oggi, Nato e Ue) che, non a caso, era l’originaria piattaforma politica del primo, ed anche dell’ultimo, fascismo, quello repubblicano, socialista e rivoluzionario.

Un mondo pensato e organizzato secondo il parametro dell’auto-centrismo economico nazionale non sarebbe, d’altro canto, costituito da aree chiuse ed impenetrabili. Al contrario sarebbe un mondo nel quale ciascuna economia nazionale si relazionerebbe attraverso rapporti bi-plurilaterali, coordinabili pariteticamente da organi internazionali – ma non sovranazionali né transnazionali – come, appunto, aveva ipotizzato Keynes, e come, benché fondati sulla egemonia del dollaro statunitense, furono creati a Bretton Woods nel 1944 (prima che essi diventassero da inter-statuali a globali ossia transnazionali). Nonostante in quel consesso non fosse stata accettata l’idea, proposta dall’economista inglese, di una unità di conto monetaria internazionale, in quanto gli Stati Uniti imposero come moneta standard – l’unica coperta da oro (“gold exchange standard”) – il dollaro, il sistema di cambi monetari fissi ma aggiustabili, in termini di razionale flessibilità, stabilito a Bretton Woods, era fondato sul concetto, perorato appunto da Keynes, del mantenimento da parte degli Stati della maggior possibile autonomia nella politica economica nazionale, che presumeva un forte controllo statale sulla politica monetaria e fiscale

«In termini generali, infatti, seppur nei limiti degli equilibri internazionali emersi dal conflitto mondiale e dei vincoli imposti dal sistema di cambi fissi (ma aggiustabili) di Bretton Woods, c’era … un sostanziale accordo … sull’importanza di una conduzione il più possibile autonoma della politica economica nazionale, in linea con la visione di John Maynard Keynes, secondo cui l’assetto economico-monetario del dopoguerra si sarebbe dovuto basare sulla “minor interferenza possibile con le politiche economiche nazionali”. Questo presupponeva il controllo da parte degli Stati delle principali leve di politica economica, in primo luogo la politica monetaria e di bilancio. Fino alla fine degli anni Settanta … una separazione della politica monetaria dalla politica economica generale dei governi sarebbe apparsa semplicemente inconcepibile. La consapevolezza diffusa che la moneta e i fenomeni monetari hanno effetti reali – ossia effetti sulla distribuzione del reddito, i livelli occupazionali e il benessere sociale – portava a guardare alla politica monetaria come a una componente importante della politica economica generale, di cui i governi in carica dovessero assumersi per intero la responsabilità. (…). È dunque compito dello Stato intervenire nell’economia – attraverso una politica monetaria, fiscale e di bilancio (e, all’occorrenza, la spesa in disavanzo, secondo la logica per cui è la spesa a generare la capacità di risparmio e non viceversa), e altre forme di regolazione pubblica, anche sostitutive, dell’attività economica privata – per sopperire ai problemi generati dal mercato, in primis la disoccupazione, e assicurare così il benessere collettivo e livelli adeguati di domanda aggregata, mitigando oltretutto gli effetti negativi delle recessioni e delle depressioni economiche. A questo proposito, molti hanno parlato dello Stato come “datore di lavoro di ultima istanza”» (4).

Ma, appunto, una politica economica di tal genere, che non è stata inventata da Keynes e casomai da lui soltanto sistematizzata teoricamente, può essere concepita esclusivamente nel quadro istituzionale dello Stato nazionale e in quello culturale di un consapevole patriottismo. Solo laddove sussiste la coesione consentita dalla nazione organizzata a Stato è possibile arrivare all’intervento pubblico in economia inteso a fare dello Stato nazionale anche uno Stato sociale e della Patria per appartenenza storico-culturale anche una Nazione sociale. Fu questa la via intrapresa, e poi interrotta per l’intervento della trasformazione finanziaria e globalista del capitalismo, sia nelle democrazie sia nei regimi autoritari di socialismo nazionale.

Globalizzazione e dominio del capitale

In contesto di globalizzazione economica a trazione finanziaria, è il capitale a dominare perché, venuto meno lo Stato sociale nazionale, cade ogni freno etico, ogni dovere e responsabilità sociale come anche ogni controllo nazionale e democratico. In un tale contesto a prevalere è, inevitabilmente, la domanda estera e le economie nazionali finiscono per dipendere dai vincoli esterni, organizzati e imposti da entità sovranazionali controllate da tecnocrazie finanziarie che, benché spesso siano espressioni dei circoli capitalistici degli Stati più forti, restano essenzialmente, intrinsecamente per cultura, apolidi e cosmopolite. Infatti dette tecnocrazie non si sentono legate o subordinate a nessuno Stato, neanche a quelli, più forti, nel territorio dei quali stabiliscono i loro centri di potere. Verso gli Stati esse non assumono alcuna responsabilità politica e piuttosto, sottraendo ad essi il controllo della moneta e dell’economia, li trasformano, da agenti di redistribuzione sociale della ricchezza nazionale capitalisticamente prodotta, in strumenti al servizio del dominio mondiale delle multinazionali, in particolare in funzione del perseguimento militare della espansione finanziaria laddove emergessero resistenze alla globalizzazione.

Se il gioco economico viene diretto dalla preminenza della domanda estera su quella interna, perché mai l’imprenditore, che a sua volta dipende finanziariamente dal banchiere transnazionale, dovrebbe preoccuparsi delle condizioni salariali e sociali dei lavoratori, dato che gli alti salari, incidendo sul prezzo finale, sono un ostacolo nella concorrenza internazionale e dato che la redistribuzione sociale della ricchezza limita gli eccessi oltremisura – eticamente e socialmente ingiusti – nella accumulazione del capitale, il quale nel passaggio dal suo stato patrimoniale a quello finanziario è inevitabilmente portato alla massimizzazione dei profitti a brevissimo termine senza alcuna attenzione per la progettualità produttiva a medio-lungo termine? In regime di libero-scambio, caratterizzato dalla produzione in funzione della domanda estera, soltanto una dimensione paritetica di tipo “confederale” – quindi ancora una volta soltanto la forte presenza dello Stato benché nella forma della Confederazione di Stati – potrebbe garantire, attraverso l’intermediazione pubblica, la simmetria dei rapporti “incrociati” tra capitale e lavoro facendo leva sul fatto che gli imprenditori di ciascuna nazione confederata sarebbero reciprocamente interessati all’aumento del livello del reddito dei lavoratori delle nazioni partner che, per essi, costituirebbe la domanda di sbocco della produzione interna.

I processi di globalizzazione sono, invece, tendenzialmente asimmetrici e funzionano secondo lo schema “coloniale” definito dall’inevitabile costituirsi, in assenza di Stato, dell’egemonia tra il centro e la periferia del sistema globale. Ossia l’egemonia delle economie più forti sulle economie più deboli. Una egemonia agevolata dal credito facile che le banche delle economie più forti offrono ai consumatori-lavoratori delle economie più deboli in modo da sostenere, a debito però e non per aumento del reddito, la domanda estera di sbocco della produzione delle industrie delle economie egemoni. Un gioco rischioso che funziona fino a quando, per un qualsiasi motivo, esso si inceppa aprendo, anche per le economie egemoni, il baratro deflattivo della depressione per crollo della domanda.

Questo è quanto è accaduto, ad esempio, nella crisi del 2008 dell’eurozona – una area monetaria nient’affatto ottimale per mancanza di sovranità ossia di un bilancio confederale ad inquadramento statuale della moneta unica – allorché le banche tedesche, che alimentavano a debito la domanda dei Paesi mediterranei onde garantire sbocchi alla produzione germanica, sono state travolte dalla crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti per gli azzardi bancari del credito facile, basati sulla cartolarizzazione dei mutui spazzatura come i sub-prime, con conseguente formazione di bolle speculative alla lunga insostenibili. Costrette, dalla crisi apertasi negli Stati Uniti, a recuperare le esposizioni “allegre” verso le economie del sud Europa, le banche dell’Europa del nord, chiudendo il rubinetto, hanno all’improvviso prosciugato la liquidità dei mercati mediterranei contraendo il reddito, che era un reddito a debito ossia un indebitamento, dei popoli euro-meridionali. Le tecnocrazie bancarie nordiche, dopo aver indebitato a proprio vantaggio le economie mediterranee, hanno inoltre alimentato, con una orchestrata campagna mediatica, l’odio tra europei del nord e europei del sud accusando questi ultimi di essere i responsabili della crisi dell’eurozona per aver vissuto al di sopra delle loro possibilità.

Poi, dato che lo speculatore non paga quasi mai pegno, ma anzi lo fa pagare alle sue vittime, le banche tedesche hanno preteso e ottenuto, attraverso la costituzione del Mes – un fondo europeo, alimentato dalle contribuzioni pubbliche degli Stati aderenti, ipocritamente chiamato “salva Stati” ma in realtà “salva banche” –, la pubblicizzazione del default privato, e non originariamente pubblico, da esse causato. Il Mes si è accollato le esposizioni bancarie del nord Europa verso le economie mediterranee, garantendo con soldi pubblici alle banche speculatrici tedesche, e in parte francesi, il rientro da quelle esposizioni diventate inesigibili, per poi, onde recuperare le risorse usate per salvare le banche nordiche, spellare vive le economie meridionali titolari del debito che, travolte dalla crisi, non erano più in grado di farvi fronte. In particolare quella greca. Lo Stato ellenico fu commissariato e sottoposto al monitoraggio finanziario e di bilancio della cosiddetta “Troika” (FMI, UE, BCE). Ai greci, per il rimborso in nome e per conto loro delle esposizioni debitorie saldate dal Mes, fu imposta la più omicida delle austerità, con tagli draconiani alla spesa pubblica e privata tali da ridurre in estrema povertà la maggior parte del popolo ellenico.

Domanda interna quale presupposto dell’ascesa del lavoro

L’ascesa sociale del lavoro è strettamente correlata alla domanda interna. A condizione, naturalmente, che non si crei, neanche all’interno di una economia nazionale auto-centrica, l’iniqua alleanza tra industria e banca affinché i salari vengano mantenuti bassi e la domanda interna, ovvero la spesa dei lavoratori, sia sostenuta attraverso il credito bancario, quindi mediante l’indebitamento dei lavoratori medesimi. La crescita del reddito deve essere reale e non creditizia. Il credito bancario in una economia sana è solo strumentale, servente, di mero supporto alla produzione e non può assurgere ad elemento centrale e direttivo del sistema. In generale, allorché la domanda interna non è più il perno del sistema economico – e questo accade sempre laddove si smantella lo Stato nazionale – il peggioramento, nei diritti e nelle tutele, della situazione dei lavoratori è l’inevitabile conseguenza. Il capitale, quello finanziario più di quello industriale, è per sua natura tendenzialmente cosmopolita, deradicato. I lavoratori, ma anche gli imprenditori reali, in quanto persone umane, sono invece tendenzialmente radicati ad una terra, ad una comunità natia o acquisita, ad una patria, ad un ceto professionale. In quanto uomini, i lavoratori, anche quando sono costretti ad emigrare – l’emigrazione non è mai un desiderio (cosa diversa è il viaggiare per conoscere il mondo o per cultura) ed è sempre una costrizione o una triste necessità –, tendono a tornare alle radici o, comunque, a mettere radici altrove riproponendo il bisogno dell’identità radicale anche nel nuovo luogo di adozione. Il capitale, soprattutto se si tratta del capitale anonimo e finanziario, quindi irresponsabile, è naturalmente apolide perché mosso soltanto dal lucro, senza obblighi verso progetti industriali a medio-lungo termine, ed è quindi “volatile”. Esso è disposto a permanere su un territorio soltanto fino a quando ne ha convenienza. La sinistra neoliberale, filosoficamente anarco-individualista, di matrice libertaria, eticamente libertina, socialmente anti-comunitaria, transnazionale e “no borders”, sprezzante nel suo snobismo tutto ciò che è popolare, è lo strumento più utile per la realizzazione dei disegni di egemonia mondiale del capitale anonimo.

La presenza dello Stato, quindi l’intervento pubblico, è una componente intrinseca ed imprescindibile, come rilevava Federico Caffè, per una economia socialmente giusta, perché libera il capitalismo dal suo principale e connaturato limite che è quello dell’incapacità di assicurare autonomamente l’equa redistribuzione della ricchezza che lo stesso capitalismo, invece, è capace di produrre meglio di altri tipi di sistemi. Il mercato non è di per sé in grado di assicurare una redistribuzione equa. Il suo equilibrio “spontaneo” sovente si traduce in una polarizzazione tra vincitori e vinti anziché in una distribuzione se non meccanicamente egalitaria quantomeno equa ossia tale da garantire che tutti siano, chi più chi meno, vincitori e nessun sia un vinto. La presenza dello Stato nell’economia è, non a caso, sancita dalla nostra Costituzione del 1948 che ereditava democratizzandola – di solito i laudatori di sinistra del testo costituzionale non lo sottolineano o per ignoranza o per faziosità – l’esperienza dirigista del fascismo negli anni ’30 del secolo scorso. Molti dei cosiddetti “padri costituenti” erano cresciuti nell’ambito di quella esperienza e ne avevano apprezzato, nonostante la dittatura, i caratteri di socialità nazionale che essa perseguiva.

Tra essi molti nomi storicamente autorevoli. Amintore Fanfani, elaboratore di fondamentali articoli della Costituzione ad iniziare dall’articolo 1 che sancisce esplicitamente la “sovranità laburista”, era stato un attento studioso del corporativismo fascista. Gli aveva dedicato un’opera importante negli anni trenta. Aldo Moro fu un cattolico vicino culturalmente all’organicismo fascista. Il costituzionalista che più di ogni altro contribuì a dare alla Costituzione repubblicana un carattere sostanziale, ossia democratico-popolare, superando i limiti del formalismo liberale, Costantino Mortati, era un allievo di Sergio Panunzio. Quest’ultimo, tra i più noti sindacalisti rivoluzionari del primo novecento, aveva seguito un itinerario simile a quello del suo amico socialista Benito Mussolini fino ad approdare al sindacalismo nazionale per elaborare una chiave di lettura del corporativismo tale da esaltare, in un quadro di organicismo nazionale, il fondamento sindacale dello Stato moderno. Per Sergio Panunzio ogni testo giuridico cela una sostanza etico-sociale che informa e dà senso e significato alla norma la quale, pertanto, non può ridursi soltanto alla mera forma esteriore. Partendo dalla lezione panunziana, Mortati elaborò la sua teoria della “Costituzione sostanziale”. Sulla scia di Panunzio e in concordanza con i cattolici Fanfani e Moro, sottolineando la sostanza piuttosto che la forma della Costituzione, egli intese evidenziare il “connotato personalistico” della nostra legge fondamentale. Un connotato che superava il mero egalitarismo formalistico e pan-contrattualistico della visuale liberale.

I padri costituenti accolsero l’approccio sostanzialista quale sola strada che, conferendo sostanza reale alla sovranità nazionale, era in grado di far uscire dalla marginalizzazione la classe lavoratrice. Un concetto, quello di “classe lavoratrice”, nel quale essi ricomprendevano, produttivisticamente, non solo l’operaio ma anche il tecnico, l’impiegato, il piccolo e medio imprenditore, l’artigiano, il coltivatore diretto, il libero professionista. Insomma tutti coloro che producono ricchezza reale, distinti da coloro che invece lucrano profitti speculativi come accade nel capitalismo anonimo guidato dalla finanza apolide. Alla luce di tale visione, i padri costituenti sancirono, nel testo normativo fondamentale della Repubblica, la funzione centrale dello Stato intesa come esercizio della sovranità nazionale democratica volta alla redistribuzione della ricchezza, lasciando però il giusto e legittimo spazio all’economia capitalista che riesce a crearla efficientemente meglio di altri metodi di produzione. Nello spirito, autentico e originario, di tale cornice costituzionale il capitalismo reale non era ripudiato ma socializzato attraverso l’azione statuale finalizzata ad assicurare l’equilibrio sociale tra domanda ed offerta. I padri costituenti, benché non ne fossero pienamente consapevoli, seguivano una lettura keynesiana dell’economia in termini di aggregati macroeconomici.

Nell’articolo 3 della Costituzione si prescrive la “rimozione degli ostacoli all’eguaglianza sostanziale”, che inficiano la libertà formale. É, in esso, evidente l’influsso del sostanzialismo di Mortati, Fanfani e Moro, e, alla lontana, di Sergio Panunzio. Implicitamente, in detto articolo costituzionale, è contenuto un limite al liberoscambismo, generico e astratto, che non tiene conto innanzitutto degli interessi della comunità nazionale, ovvero della sua emancipazione da vincoli esterni. Cosa che, per restare al panorama mondiale attuale, equivale a una chiara preferenza per un sistema di relazioni politiche ed economiche internazionali basato sul multipolarismo e il rifiuto di ogni egemonica astrazione unipolare. Quel che è certo è che nella Costituzione del 1948 non c’è traccia di disposizioni favorevoli al “vincolo esterno”. L’articolo 11 – un articolo nella stesura del quale ebbe grande influsso Meuccio Ruini il cui partito demosociale godeva delle simpatie di Federico Caffè – condiziona i rapporti internazionali al limite imprescindibile della parità con gli altri Stati. La questione è che, a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, la Costituzione, già imperfettamente applicata in molte sue parti, è stata tradita svuotandola nella sostanza pur mantenendone la parvenza di un rispetto formale.

Il primo obiettivo che una forza politica sovranista dovrebbe perseguire oggi è quello di tornare alla Costituzione. Ma, più che nella lettera, tornarvi nello spirito dei padri costituenti senza tacere – è molto importante! – che quello spirito nasce dalla cultura organicista critica del liberismo. Una cultura critica dalla storia molto complessa e che appartiene a molte famiglie politiche di diverso segno, cattoliche, socialiste, nazionaliste, persino in certi casi “liberali”, ma tutte accomunate dal rifiuto dell’individualismo e dell’astrattezza irrealistica di matrice illuminista. Non basta però, per l’auspicato recupero, il mero patriottismo senza declinarlo in patriottismo sociale. Patria sociale, per l’appunto.

Luigi Copertino

 

NOTE

  • Quinn Slobodian “Il capitalismo della frammentazione – gli integralisti del mercato e il sogno di un mondo senza democrazia”, Einaudi, 2023. Eccone la presentazione come appare sul sito delle edizioni Einaudi: «Basta uno sguardo alle mappe del mondo degli ultimi decenni. È dagli anni Novanta che la globalizzazione ha mandato in frantumi la geografia degli Stati-nazione creandone altri e immensamente più piccoli: paradisi fiscali, porti franchi, città-Stato, enclaves blindate e zone economiche a statuto speciale. Queste nuove zone sono esonerate dalle tasse e dalle regolamentazioni dei comuni mortali. E grazie a queste zone gli ultracapitalisti credono che sia finalmente possibile ciò che sembrava impensabile fino a qualche decennio fa: sfuggire ai vincoli e alle restrizioni dei governi democratici. Lo storico Quinn Slobodian si mette simbolicamente alle calcagna dei più noti e radicali neoliberali – da Milton Friedman a Peter Thiel – in giro per il mondo cercando la residenza perfetta per le loro fantasie da mercato libero. La caccia porta dalla Hong Kong degli anni Settanta al Sudafrica degli ultimi giorni dell’apartheid, dalle neoconfederazioni al modello medievale della città di Londra. Per arrivare infine alle zone di guerra e agli oceani, tracciando la disperata e instancabile rotta per un territorio vergine dove poter liberare il capitalismo dalla morsa della democrazia». Nella chiosa il solo riferimento alla democrazia però non rende a sufficienza la questione centrale del problema giacché la democrazia moderna non avrebbe mai potuto svilupparsi se non all’interno dello Stato nazionale e senza di esso non sarebbe mai nata. Quello della democrazia mondiale, della Repubblica universale, è il sogno massonico umanitario dietro il quale si muove la potenza internazionale del denaro.
  • Enrico Grazzinihttps://www.lafionda.org/2024/03/13/keynes-sovranista-contro-linternazionalizzazione-della-finanza-e-per-lautosufficienza-nazionale/ .
  • Ludovico Garruccio “Le tre età del fascismo”, in Il Mulino, rivista, n. 1/1971.
  • Thomas Fazi “Una civiltà possibile – la lezione dimenticata di Federico Caffè”, Meltemi, Milano, 2022, pp. 30-31.

 

 

 

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