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DOMINIQUE E PIERRE DE ROUX. Di Donatello Bellomo.

Dominique de Roux

Dominique e Pierre Guillaume de Roux, padre e figlio morti giovani, derubati di quanto il fato avrebbe desiderato e il destino, rifiutato, affinché restasse di loro un non finito, sorpreso dall’agguato della morte.

Editori per urgenza improcrastinabile, gaullisti a destra del Generale, Dominique postumo pagano di ogni giuramento e Pierre Guillaume cristiano per fede: scelse la chiesa ortodossa come un bizantino dopo l’implosione delle Crociate, prostituite a suk di indulgenze, onorificenze, maneggi con l’Islam.

Editori prosaicamente con poco per fare ma molto per creare, una prateria di idee e coraggio, non per épater les bourgeois ma per non conferire cuore e cervello all’ammasso dell’enclave con la sartriana puzza al naso degli sventolanti libretti rossi del Grande (?!) Timoniere.

Robert Levrac-Tournières li avrebbe ritratti al meglio, prima della sala della pallacorda e dei deliri di Voltaire, perché la Grandeur va cercata nella storia e nel qui e ora. Quando l’orgoglio d’essere conservatori è un valore auto ed etero percettivo non negoziabile, ecco i de Roux, che hanno guardato a un mondo da scuotere il capo ma hanno tirato diritto.

Pierre de Roux

Non fosse per i termini ad quem, in ordine cronologico, 1977, a 41 anni e 2021, a 58, potrebbero essere stati intercambiabili nei ruoli. Dominique chiude l’abbecedario a diciassette anni: non c’è un solo seduttore in cattedra, al più impiegati con registro e matita rossa e blu. La famiglia antica e per bene della Languedoc – il nonno Marie De Roux era stato l’avvocato di Charles Maurras e di Action Française- sa che il ragazzo è in credito di vita: paga il dazio di un padre bancario a Londra, lavora per poco nella City-vista l’età, da commesso-, poi la Germania in una fabbrica di feltro e già a vent’anni ciclostila l’Herne, che trasformerà, affiancato dalla moglie Jacqueline Brusset, nella collana dei Cahiers de l’Herne, monografie sulle figure più significative della letteratura del secolo. Pubblica a ventisette anni il suo primo romanzo, Mademoiselle Anicet e decine di saggi; è l’anima delle edizioni Christian Bourgois, di Exil,della collezione 10/18; gli amici sono i suoi autori: la convenienza non sa cosa sia. Consulente di Presse de la Cité, difensore di Céline, Pound, Abellio e di tutti gli scomodi, gli appestati e i rimossi, attacca il futuro inquilino dell’Eliseo, Georges Pompidou, che succederà a De Gaulle, definendolo un veterinario…e due dei più intoccabili, Maurice Genevoix e Roland Barthes. Il potere reagisce, Eliseo o Académie, sempre, con l’embargo: collaborazioni troncate, silenzio stampa sul Gavroche delle pagine scritte. Carbonaro senza esserlo, postumo volontario di sé stesso, impiccato per suo dire, ogni giorno a Norimberga, mestatore che mai nasconde il braccio, ha messo insieme, con i Cahiers, i punti nave di rotte lossodromiche della cultura a testa alta, fuori dal potere che controlla la stampa, la televisione, l’editoria, il cinema, la scuola. Chi mai ha intrattenuto un rapporto altrettanto profondo con Witold Gombrowitz, lo scrittore più barocco del secolo, insieme a Emilio Gadda, forse, se non Dominique de Roux? Chi mai ha realizzato quanto gli deve la letteratura au déhors delle accademie, delle mattanze dei premi letterari, degli scherzucci di dozzina delle mediocrità elette a demiurgo? Sarebbe uno scomodo conto economico per i parvenus di questa “cosa” pronta e prona alla delegittimazione. Andarsene: gli ultimi anni brevi, 1973-1976, sono tutti nel romanzo Le cinquième empire, pubblicato due settimane dopo la morte. Il Portogallo e l’Africa australe, gli eventi politici e la fedeltà narrativa che perviene ad essere essa stessa, l’evento. Come gli aforismi di Immediatement, al netto di qualche benvenuta sbavatura. Molti di coloro che avrebbero dovuto leggerli, hanno voltato la faccia verso il muro.

Pierre Guillaume, fronte alta da matematico puro e mani per un Notturno di Chopin, è stato all’altezza del padre, non un segmento di vita ma questa vita, senza soluzione di continuità. Il dedalo di Rue Richelieu era una trincea tra libri raccolti, letti, pubblicati e manoscritti in fiduciosa attesa, in un tempo sospeso e condiviso con Balzac e Nerval e con i tanti sconosciuti che avevano messo insieme duecento cartelle in corpo dodici. Non è stato facile passare sopra le vigliaccherie sulla memoria del padre né sulle critiche al catalogo della sua casa editrice- il logo sono le sue iniziali- ché doveva pur farlo, qualche sacrificio qualitativo per finanziare le pubblicazioni “necessarie”, le uscite, magnifiche! difficilmente compatibili con un saldo in attivo. Le style est l’homme même, scriveva George- Louis Leclerc de Bouffon. A diciannove anni lavora per l’editore Christian Bourgois, costola della Presse de la Cité e indipendente dal 1992, a ventuno, è direttore editoriale della Table Ronde e poi Juillard, Bartillat, Rocher, Criterion, Les Syrtes e infine la PGDR acronimo delle sue iniziali. Il presente per il futuro, il libro come sfida, da guerriero se non da vincitore che sa delle conventicole e non se ne cura. Ecco, tra i tanti, François Billot de Lochner e l’analisi della doppia deriva della banlieu con la mezzaluna, inclusiva solo del disastro sociale, Tarr dell’incatalogabile pittore-romanziere Windham Lewis – splendida biografia, quella di Stenio Solinas!- e Roger Nimier, il genio sceneggiatore di Ascenseur pou l’echafaud di Louis Malle e romanziere di primo livello, Ezra Pound, e, per non farsi mancare nulla, il deflagrante Éloge littéraire d’Anders Breivik di Richard Millet, sull’assassino di settantasette persone, frutto, secondo l’autore, del multiculturalismo, dell’abbandono delle radici cristiane, dell’islamizzazione. Quattro anni prima del Bataclan, aggiungiamo per dovere di cronaca. Le rare apparizioni televisive hanno smontato il paradigma di una coltissima intelligenza confinata al ruolo di curiosità pericolosa ma l’insieme sapeva di excusatio non petita, di atto dovuto. Lo stacco culturale tra intervistatore e intervistato era declinato a verbo difettivo e dunque honny soit qui mal y pense.

Donatello Bellomo.

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