“Teoderico in Appennino”, il più recente libro di Paolo Poponessi, edito nell’ottobre 2022 dall’editrice riminese “Il Cerchio”, è un ulteriore, brillante esempio della capacità di questo Autore di unire nella sua narrazione la Grande Storia a quella dei piccoli eventi, dei luoghi modesti, dei personaggi non per questo necessariamente meno degni, ma comunque dimenticati o accantonati e da lui riscoperti per farli recitare, non di rado in un ruolo tutt’altro che da comprimario anzi, a volte, decisivo, al fianco dei grandi protagonisti. Con grandissima frequenza questi luoghi e questi personaggi appartengono, per un titolo o per l’altro, alla terra di Romagna.
In questo nuovo libro, il ruolo del comprimario, comprimario sì, ma determinante per l’ispirazione dell’Autore, è un piccolo comune della valle del Bidente, il cui aggancio alla Grande Storia è dato dalla presenza delle rovine di un’antica costruzione, alla quale remote memorie, recenti scavi ed indagini hanno consentito di legittimamente attribuire fin d’ora (in attesa che l’archeologia dia la definitiva e irrefutabile conferma) il titolo di “Palazzo di Teoderico”: residenza estiva per sottrarsi alle soffocanti calure di Ravenna, o, come pure è stato definito (lo si riporta anche se gli studi più recenti tendono ad escludere questa destinazione) ”castello di caccia” per l’intera corte teodericiana in occasione delle battute venatorie (nelle colline intorno la fauna selvatica è ancora oggi abbondante e, grazie alle vicine montagne, nemmeno mancano gli ungulati). Certamente un grande e fastoso edificio con parti destinate ad abitazione privata ed altre a cerimonie e pubblici incontri. Comunque, a differenza di quanto avviene in altri libri di Poponessi, questa volta non si parte dal piccolo per arrivare al grande, ma viceversa, con una inversione dei ruoli che, a ben guardare, favorisce il locale. Difatti, in primo piano si trova nelle pagine iniziali e fino al quarto capitolo incluso, Theodericus Rex, il “barbaro imperatore”, quel Teoderico “tiranno di nome, ma di fatto un vero e proprio imperatore, in nulla inferiore a nessuno di quanti in quella dignità nei primi tempi di essa si distinsero” come lo descrive Procopio da Cesarea. Il protagonista della Grande Storia, da tutti conosciuto, e che tuttavia da questa inedita collocazione in una vallata appenninica acquisisce qualcosa di nuovo ed è avvicinato a noi anche temporalmente da ricerche che per un certo tratto hanno mescolato archeologia, politica da tempi di guerra e cattiva ideologia.
Con buona pace del Carducci, che nella ballata a lui dedicata (Poponessi ne riporta parecchie strofe) lo definisce “da Verona”, per ragioni di rima con “sacra corona” , basterebbe Teoderico, per quanto re degli Ostrogoti e patricius romanus, ad assicurare il collegamento con la Romagna per avere scelto (o, più esattamente, confermato) Ravenna quale sua capitale, per avere di lì governato quanto restava dell’Impero d’Occidente e avervi fatto erigere la grandiosa tomba, nella quale avrebbe voluto dormire, entro una rossa vasca di porfido, il sonno eterno. Non per questo viene meno la convinzione che la prima fonte ispiratrice di Poponessi sia stato il piccolo comune di Galeata, collocato circa a metà della vallata percorsa dal fiume Bidente ed erede di Mevaniola, un abitato di epoca romana reso florido per secoli dalle sue attività artigianali e commerciali fino alla finale decadenza e al totale abbandono. Di questo antico insediamento sono conservati nel locale museo Brandolini reperti che offrono all’Autore l’occasione, più che di una digressione, di arricchimento di un’indagine che gli consente di collocare il “Palazzo di Teodorico” nel tessuto storico di un territorio come quello galeatese, che reca segni della presenza umana già in età preromana (sembra trattarsi di uno degli avamposti più a nord delle antiche popolazioni umbre). Ulteriore arricchimento della vicenda di un edificio, indubbiamente di rilievo poco più che locale anche nei momenti di massimo splendore (nel V e VI secolo in Italia e in particolare a Ravenna non mancavano le costruzioni fastose, pubbliche e private) e tuttavia già di per sé, indipendentemente dalla luce riflessa del gran Re, degna di attenzione, perché, nel suo percorso attraverso i secoli, ha coinvolto santi e demoni. I primi alla nascita, i secondi al suo recupero agli onori del mondo.
A Galeata, fra quinto e sesto secolo dell’era cristiana, visse, prima in una grotta della sovrastante collina, poi nel cenobio da lui fondato, Sant’Ellero, un santo non molto conosciuto fuori dalla Romagna (anche qui, in alcune località, il suo nome è stato alterato in Ilaro), perché il suo ruolo nella storia del monachesimo occidentale è stato in gran parte oscurato da quello del contemporaneo San Benedetto da Norcia, forse di cinque anni più giovane. Non così nel libro di Poponessi, nel quale la sua anonima biografia di età alto-medievale, Vita Hilari, attraverso la narrazione di un incontro-scontro (ovviamente di parole) del santo monaco cattolico col Re, seguace come tutti i Goti dell’eresia ariana, rappresenta il Baedeker che ha garantito attraverso i secoli l’attribuzione dell’edificio o dei pochi resti emergenti dal terreno a Teoderico e al quale nel ‘900 si è fatto riferimento per riportare alla luce una pasrte più consistente dell’edificio (“palatium” lo definisce l’autore della “Vita”) collocato, appunto, sotto il monte in quel momento abitazione del Santo e “sopra il fiume Bidente”. I primi a utilizzare questa guida proveniente dal medioevo per scavi finalizzati ad una ben precisa ricerca furono i componenti di una spedizione organizzata, dietro ordine di Berlino, che inviò in Italia una equipe di scienziati, dall’Istituto Archeologico Germanico di Roma. Una spedizione che il 5 ottobre 1942 , nel pieno infuriare della guerra, diede inizio agli scavi “in un terreno della proprietà della Parrocchia di San Pietro in Bosco ove si suppone esistano i resti di un palazzo di Teodorico” (così una informativa dei carabinieri di Galeata al prefetto di Forlì). Il responsabile scientifico, professor Friedrich Krischen, era un noto archeologo, ma la presenza nell’equipe di Siegfried Fuchs, vice-direttore dell’Istituto Archeologico, ma anche capitano delle Allgemeine SS (unità – precisa Poponessi – non militari e non combattenti, ma pur sempre SS) e informatore del governo di Berlino sui fatti italiani, lascia supporre che la spedizione non avesse solo finalità storico-archeologiche, ma si collocasse nel quadro ideologico proprio del partito nazista. Un quadro nel quale Teoderico “veniva considerato un grande eroe germanico, un campione della germanicità, con i goti come progenitori della nuova Germania razzialmente pura di Hitler”, il tutto condito da richiami agli antichi culti nordici e la conseguente esaltazione di “figure mitologiche, come Odino e Thor, propri dell’epica dei barbari germani in contrapposizione al monoteismo ebreo-cristiano che li aveva oscurati”. Insomma, una presenza che legittima illazioni che gettano sulla spedizione le cupe ombre esoteriche del nazismo magico. Va detto comunque, a commento delle osservazioni dell’Autore, che ancora oggi la cultura tedesca, a torto o a ragione, ama fare indossare a Teoderico le vesti dell’eroe germanico sicché il suo mausoleo a Ravenna, piantato come una pallida roccia sullo sfondo di lecci e prati (per non parlare dei binari della ferrovia Bologna-Rimini) rappresenta per i turisti di quel paese una tappa imperdibile e obbligatoria ancor prima e più del luminoso, aureo splendore dei celeberrimi mosaici delle basiliche ravennati,
Sperando di averlo invogliato a dedicare un po’ della sua attenzione alle 90 pagine (foto a parte) fi questo bel libro, lascio qui il potenziale lettore, che potrà seguire nel capitolo VI i particolari delle operazioni di scavo e i risultati, certamente non conformi alle aspettative di Berlino, ma comunque preziosi come punto di partenza per ulteriori ricerche, della spedizione archeologica-esoterica tedesca, che levò le tende il 3 novembre, dopo un mesetto scarso di lavoro. Ugualmente nel capitolo successivo il lettore verrà informato sulla ripresa degli scavi, avvenuta in due tempi. Il primo, dopo un lungo intervallo, nel 1968 per iniziativa del governo italiano, purtroppo in maniera così poco brillante da consigliare la loro interruzione e il re-interramento di quanto era stato portato, oltre che alla luce del sole, alla portata degli sgraffignatori dei reperti lasciati per un paio d’anni à la belle étoile e affidati, per il loro rispetto, a uno spirito civico che non ha risposto all’appello. Il secondo, dopo un ulteriore trentennio, ad opera dell’Università di Bologna, che, come si addice all’Alma Mater Studiorum, li riprese in modo metodologicamente corretto. All’Università di Bologna si è poi aggiunta quella di Parma con il contributo di Riccardo Villicich, docente di Metodologia della Ricerca Archeologia presso quell’ateneo. Il Villicich, che da oltre vent’anni segue gli scavi nell’area della villa di Teodorico ed è autore di scritti sull’argomento, ha arricchito il libro con una prefazione nella quale ne ripercorre le vicende (in maniera molto critica per la spedizione tedesca del 1942 e le sue poco scientifiche conclusioni), descrive quanto dei resti è stato riportato alla luce, in gran parte nel più recente periodo di scavi, ma comunque in tutto, a suo avviso, non più del 60% del Palazzo, e risponde alla domanda di un ipotetico disturbatore di una sua ipotetica conferenza che gli chiedesse: ”Perché lei è convinto che il proprietario della villa fosse proprio Teoderico?”.
Di mio aggiungo (e chiudo) che posso rendermi garante per esperienza diretta della grande capacità di guida di Paolo Poponessi, che qualche anno fa mi ha condotto a visitare le aule, le sale, il peristilio, le torrette di protezione, il piano rialzato, insomma quanto della villa già allora era stato recuperato.
Francesco Mario Agnoli