DALLE PASQUE VERONESI AL TRATTATO DI CAMPOFORMIDO. Di Francesco Maffei*

A cura di Riccardo Pasqualin

Le Pasque Veronesi sono un’insorgenza che ha avuto luogo nella città scaligera e nella sua provincia nel 1797 come tentativo di porre fine all’occupazione delle armate napoleoniche che erano penetrate nei territori della Serenissima Repubblica di Venezia. Dei contingenti di soldati francesi si erano stabiliti entro le mura del capoluogo già il 1° giugno 1796, suscitando forti malcontenti popolari, che esplosero definitivamente il 17 aprile 1797. Unita all’esercito veneto, la plebe riuscì a sopraffare gli invasori e a respingerli sino al mezzogiorno del 24 aprile, quando i difensori di Verona trattarono la loro resa. I francesi pagarono la pacificazione con la perdita di 500 uomini e, nel quadro italiano degli episodi di resistenza controrivoluzionaria, le azioni militari dei legittimisti veneti possono essere considerate seconde solo all’impresa dell’Esercito della Santa Fede nel 1799.

I fatti di Verona ricoprono un peso fondamentale nella storia della caduta della Serenissima, ciononostante sono stati spesso completamente ignorati da una parte della storiografia della seconda metà del Novecento.
Ancora nel 2009, lo studioso Gian Paolo Romagnani ha scritto che:

“L’eco dell’insorgenza veronese nella storiografia italiana della Restaurazione – la prima a rielaborare le vicende del quindicennio francese – fu scarsissima: l’unico ad accennarne con tono di condanna fu nel 1824 lo storico piemontese ed ex giacobino Carlo Botta [1766-1837]”.

Tuttavia, in realtà, basta anche solo un rapido giro nelle biblioteche del Nord Italia per reperire decine di titoli di testi pubblicati tra la fine del Settecento e la prima parte dell’Ottocento che citano le Pasque. Si tratta di pamphlet, memorie e saggi facilmente consultabili, ma nel 2005 è stato pubblicato anche un documento che sino ad allora era rimasto inedito: il giornale del nobile veronese Antonio Maffei (1759-1836), che fu protagonista delle vicende. La prima parte della sua narrazione, stampata da il Cerchio, è stata presentata al pubblico col titolo Dalle Pasque Veronesi alla Pace di Campoformido. La fine della dominazione veneziana in Verona (marzo 1797-gennaio 1798) ed è un’opera che per il suo valore meriterebbe di essere presente nella sezione di storia locale di ogni biblioteca comunale del Veneto.

Il Marchese Maffei era membro di un’illustre casata e, seguendo la sua tradizione familiare, fu anch’egli letterato e storico; iniziò la stesura del suo “diario di guerra” dai giorni delle prime sollevazioni e continuò ad annotare le sue osservazioni sino al 21 gennaio 1798, quando le armate austriache entrarono a Verona, meditando già di rielaborare il tutto più tardi in un lavoro di ampio respiro. I soprusi e le ruberie dei rivoluzionari sono documentati anche con il confronto con altre fonti e lo spirito polemico (pur fortemente presente) non fa mai smarrire al narratore il contatto con la realtà.

Il rientro dei francesi venne accompagnato da feroci vendette contro la popolazione civile e i militari di San Marco, tanto che gli imperiali (a cui va la simpatia del diarista), nel gennaio dell’anno successivo, furono accolti come dei liberatori.
Il volume giunge in effetti a una ricostruzione soddisfacente e interessante, che tende a voler dare ai fenomeni descritti una lettura generale e complessiva che possa definirne le cause e le conseguenze.

Nel suo saggio Dalla caduta della Repubblica Veneta all’età napoleonica (in AA. VV., Atlante storico della Bassa padovana. L’Ottocento, Cierre, Verona 2013), lo storico Mauro Vigato afferma che alle municipalità democratiche sorte entro i Dominii Veneti grazie all’intervento degli eserciti d’oltralpe

“si erano però ribellati, nel marzo del 1797, i popolani delle valli bergamasche e della Val Trompia e Val Sabbia, che in questi nuovi organismi di recente formazione e nelle idee che diffondevano, vedevano al contrario un pericolo per i privilegi, soprattutto di natura fiscale, di cui avevano sempre goduto sotto il governo veneto. A promuovere – o quantomeno a favorire – le «insorgenze» delle valli bresciane e bergamasche contro le municipalità «giacobine» delle rispettive città c’era in realtà il governo veneziano. L’organizzazione degli insorti poggiava infatti sulla milizia territoriale veneta, le «cernide», coadiuvate da ufficiali e da reparti regolari dell’esercito veneziano”.

La testimonianza di Maffei mette invece in evidenza il fatto che il governo veneto non intervenne mai in alcun modo, abbandonando le comunità al loro destino, e che le rivolte “antigiacobine” che coinvolsero porzioni dell’esercito regolare e i villici in armi nacquero trasgredendo allo stato di “neutralità disarmata” che la Serenissima si era imposta. Nei piani di Napoleone, questi moti (tanto spontanei quanto prevedibili) erano stati calcolati. Il corso necessitava infatti di un pretesto per porre fine alla Repubblica di Venezia, ma a Verona la situazione gli sfuggì di mano, mettendo seriamente in difficoltà il generale. Pochi furono i patrizi veneti che cercarono di difendere la dignità dello Stato e tra questi il memorialista cita il NH Francesco Pesaro (1740-1799), procuratore di San Marco, le cui proposte per il passaggio a una neutralità armata si scontrarono con la volontà del nobile Francesco Battaglia, che caldeggiava il cambio di governo e (per volontà o per inettitudine) favoriva la sovversione operata da Bonaparte:

“Questo Battaia fu il più forte opponente alla massima del NH Ill.o Pesaro […], uomo amante della sua patria e che possiede tutte le qualità che formano il perfetto uomo pubblico ed amabile privato, ed alla massima di tutti quelli che avrebbero voluto che il Senato, nei timori di una prossima guerra devastatrice in Italia, facesse rispettare la sua neutralità con una potente armata”.

La lettura di queste rimembranze sulla fine di Venezia e le riflessioni sulla sua triste decadenza possono anche far meditare sullo stato dell’Italia nel presente: Cicerone diceva che la storia è maestra di vita, ma nella maggioranza dei casi l’appello del retore è rimasto inascoltato. Il Maffei stesso temeva che nessuno si sarebbe mai curato dei suoi manoscritti e delle parole che aveva speso nel commosso ricordo dell’ordine a cui era rimasto fedele sino all’ultimo, ma chissà che questo libro sia riscoperto dai lettori!

* Tratto dal sito Solo Libri

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