Per quella che può sembrare una singolare coincidenza (ma non è, perché si tratta invece di tentativi di risposta a sempre più forti esigenze della nostra società) sono stati ripubblicati in Italia quasi in contemporanea le opere di due autori cattolici tedeschi risalenti agli anni Trenta-Quaranta del secolo scorso, rispettivamente 1943 e 1935: “La detronizzazione della verità“ del teologo e filosofo Dietrich von Hildebrand (Firenze, 12 ottobre 1889 – New York, 26 gennaio 1977) e “Lo Stato nel pensiero cattolico” del filosofo e giurista Heinrich Rommen (Colonia 21 febbraio 1897- Washington, 19 febbraio 1967).
L’attuale edizione italiana del saggio del von Hildebrand è dell’editore Cantagalli (Daniele Onori lo ha recensito nel Notiziario 8 maggio 2023 del Centro Studi Rosario Livatino,), quella del saggio del Rommen (nella traduzione dell’edizione italiana del 1959 e con mia prefazione) dell’editrice riminese “Il Cerchio”. Alla inevitabile domanda sulle motivazioni che stanno alla base della ripubblicazione di due “vecchi” libri a 80 anni e più di distanza dalla prima edizione ha già risposto per quanto riguarda il von Hildebrand l’Onori attraverso la citazione e il breve commento di quanto scriveva l’Autore nel remoto 1943: “Sebbene la detronizzazione della verità si manifesti nel modo più drastico e radicale nel nazismo e nel bolscevismo, purtroppo molti sintomi di questa malattia dello spirito sono presenti anche nei paesi democratici. Nelle discussioni si sente talvolta la seguente argomentazione: “Perché la sua opinione dovrebbe essere più valida della mia? Siamo uguali e abbiamo gli stessi diritti. Non è democratico fingere che la tua opinione sia preferibile”. Questo atteggiamento è estremamente significativo, perché riafferma la totale assenza della verità come norma per il valore di un’opinione”. Si può aggiungere che la verità è il presupposto della giustizia.
A sua volta, Rommen nel riproporre l’eterno problema, ineludibile per tutti gli Stati, quale che ne sia la forma istituzionale, di quale sia il fondamento, e quindi la giustificazione morale e giuridica, della pretesa d’obbedienza alle proprie leggi, accompagnata dalla minaccia dell’impiego della forza coattiva in caso di inadempienza, riafferma la possibilità di due uniche risposte “la forza è in sé diritto, oppure: vi è un diritto prima dello Stato a cui questo deve il proprio diritto che m’obbliga a servirlo perché la fonte d’ogni diritto è la volontà di Dio”. La prima risposta è quella del positivismo giuridico, della “dottrina pura del diritto” di Hans Kelsen, che considera unica legittima fonte del diritto, senza necessità di agganci superiori, la volontà dello Stato, il quale possiede il monopolio della legislazione. Al contrario l’identificazione fra diritto e ciò che viene comandato ripugna da sempre alla dottrina cristiana, che fonda non solo la potestà di comando dello Stato, ma, respingendo la dottrina contrattualistica, la sua stessa esistenza sul diritto naturale, cioè “su norme che appaiono evidenti dalla natura dell’uomo e dello Stato e riconosciute come date da Dio”. Va precisato che il diritto naturale non è una creazione e nemmeno una scoperta della Chiesa, alla quale preesiste in quanto nozione presente nell’uomo, essere naturalmente sociale, fin dall’inizio, incluso il collegamento alla Divinità. Un diritto la cui presenza, per quanto riguarda la nostra cultura, è avvertita già nell’antica Grecia e in Roma, sicché si può parlare di un “diritto naturale classico” recepito dal “diritto naturale cristiano” (e, più specificamente cattolico), che, senza alterarlo, ne stabilisce chiaramente la derivazione “da un Dio che ne rappresenta la più alta ragione e l’onnipotente volontà”. Quindi, secondo San Tommaso, “riflesso della legge eterna, della più alta legge del mondo, derivante dalla sapienza e dalla volontà di Dio“.
E’ però accaduto che nel corso dei secoli lo sforzo in sé apprezzabile di meglio individuare le divine leggi che compongono il diritto naturale abbia reso più complessa, o, contraddittoriamente, complicata fino al rischio della confusione o addirittura della inintelligibilità la chiarezza greco-romana e, in seguito, cattolica della sua nozione. Difatti “a partire dalla dissoluzione dell’unità del pensiero occidentale, che trasse origine dalla profonda incontentabilità dello spirito umano nella ricerca dell’ultimo fondamento e dell’ultima meta del filosofare, quasi ogni nuova visione e interpretazione del mondo creò un diritto naturale, il calvinismo quanto il puritanesimo, l’illuminismo quanto l’idealismo tedesco. Ai nostri giorni si è visto sorgere persino una specie di diritto naturale proletario da una scuola nemica della metafisica quale il marxismo”. Già negli anni ‘30 del secolo scorso il processo, definiamolo pure evolutivo dal momento che evoluzione non significa di necessità miglioramento o, tanto meno, perfezione, era sfociato nell’affermazione di un diritto naturale essenzialmente politico, qualificato da Rommen come “moderno”, “recente”, “individualistico”. Un diritto che mira, da un lato, ad attribuire, grazie alla qualifica di “naturale”, alle norme del diritto positivo alla Kelsen “tutto lo slancio dell’imprescrittibile, dell’immutabile e di ciò che è necessariamente giusto in sé, così come viene dato dal richiamo alla natura, dalla fondazione di diritti dalla natura”, dall’altro a preservare “il capitalismo e il suo caratteristico diritto di libertà contrattuale, con la propria predilezione per i contratti a breve scadenza e col suo ordine individualistico della proprietà” da ogni attacco irrazionale, da ogni attentato arbitrario dello Stato alle leggi naturali dell’economia, considerate le uniche valide a garantire “l’armonia sociale ed economica della società dei liberi e degli uguali”. Evidente anticipazione della mano, per altro invisibile, del Mercato.
Senza contraddizione (tutt’altro, dal momento che Rommen colloca fra le fasi del processo “il diritto naturale rivoluzionario del democratismo dei padri della costituzione americana e francese”), questo diritto naturale moderno “è anche e sopratutto il padre delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino nella direzione dell’idea liberale dello Stato di diritto”. Dalle quali dichiarazioni si può o si deve dedurre, in aggiunta e in conseguenza degli inalienabili diritti soggettivi espressamente indicati nel testo originario, “tutto un catalogo di diritti naturali esclusivi dell’individuo, la cui semplice garanzia e conservazione costituisce lo scopo e il fine dello Stato”. Diritti dell’individuo ancor più inalienabili di quelli “universali” da cui traggono origine sicché appunto a loro finisce col riferirsi l’obbligo a carico dello Stato, oggi non più soltanto di garanzia e conservazione, ma anche di continuo aggiornamento, se non addirittura di promozione, di un catalogo naturalmente proteso a sempre nuove acquisizioni. Difatti, come puntualmente osservato da Rommen con una perspicacia in anticipo sui tempi a proposito di un fenomeno all’epoca ancora allo stato nascente, di tale catalogo il moderno e individualistico diritto naturale, in quanto privo di agganci metafisici e fondato non sulla ragione, ma esclusivamente sulla volontà, consente, anzi impone, per l’impossibilità di respingere senza contraddirsi le richieste di inserimento di “nuovi diritti” provenienti dalla volontà di singoli gruppi di individui, che se ne pretendono titolari, il massimo ampliamento.
Francesco Mario Agnoli