Il marchese Alessandro Guiccioli (Venezia, 5 marzo 1843-Roma, 3 ottobre 1922) è stato un parlamentare e diplomatico dell’Italia postunitaria. Discendente di un’antica famiglia romagnola, visse la sua esistenza a cavallo tra due secoli densi di cambiamenti. Fu testimone di eventi cruciali: nacque a Venezia quando la Penisola era ancora divisa in una decina di stati, ma divenuto addetto diplomatico del generale Raffaele Cadorna, il 20 settembre 1870, fu tra i primi ad entrare a Roma dopo la breccia di Porta Pia, e, molti anni più tardi, poté assistere anche al trionfo italiano nella prima guerra mondiale.
Compì i suoi primi studi nella città di San Marco e si laureò in giurisprudenza a Bologna nel 1864, il 3 febbraio del 1866 fu nominato volontario effettivo nella carriera diplomatica presso il Ministero degli Esteri.
Dopo parecchi impegni diplomatici venne richiamato in patria dove divenne segretario particolare del ministro Menabrea; nel settembre del 1870 fu poi segretario particolare del generale Ponza di San Martino quando questi fu incaricato di portare a termine una delicata missione diplomatica presso Pio IX. La consapevolezza di aver avuto parte attiva negli eventi che condussero il Regno d’Italia a conquistare la città eterna rimase sempre un motivo di grande orgoglio per Guiccioli. Quattro anni più tardi abbandonò la carriera diplomatica, si candidò alle elezioni politiche e venne eletto deputato; dal 1874 al 1882 prese parte alle battaglie della destra storica accanto a Sella e Minghetti.
Nel 1882 decise di dedicarsi alla politica di Roma, fu eletto consigliere comunale e, nel 1887, divenne assessore alla Pubblica Istruzione. Dall’ottobre del 1888 al novembre del 1889 fu sindaco della capitale e durante il suo mandato si tenne la discussa inaugurazione del monumento a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, un episodio che fu al centro di accese polemiche. Le numerose critiche ricevute nel corso degli anni convinsero Guiccioli ad abbandonare la politica per tornare in diplomazia, ricoprì tuttavia la carica di prefetto a Firenze (dal 1890 al 1893), a Roma (dal 1894 al 1896) e a Torino (tra il 1898 e il 1904). Nel 1900 fu nominato senatore del Regno d’Italia.
Nell’arco della sua vita il nobiluomo appuntò i suoi ricordi in ventuno quaderni: dei documenti eccezionali che contengono molti elementi importanti per studiare la classe politica del suo tempo, basti pensare che il marchese fu intimo amico della regina Margherita. Inoltre egli frequentò alcuni tra i più illustri salotti d’Italia, amò la letteratura, il teatro e la musica e annotò una considerevole quantità di appunti che spaziano dall’arte, alla politica sino alla vita mondana.
Il testo del suo diario fu pubblicato per la prima volta sulle pagine della Nuova Antologia, durante la seconda guerra mondiale, quando la rivista era diretta da Federzoni, e nel 1973 venne stampato in volume dalle Edizioni del Borghese con il titolo Diario di un conservatore.
Ciò che è subito evidente in questi scritti privati del Guiccioli è che egli maturò una profonda avversione per il parlamentarismo. Il veneziano non nascose mai il suo disgusto per la maggioranza degli uomini politici che lo circondavano, affermò addirittura che: «Se nella vita pubblica italiana si dovessero avvicinare soltanto le persone degne di stima, si sarebbe ridotti presso che all’isolamento».
Avendo assistito alle maggiori tappe del Risorgimento e al suo esito, Guiccioli valutò positivamente il processo di unificazione; non fu certo un nostalgico dei vecchi stati preunitari, ma anzi riconobbe nelle debolezze di quei governi il prodotto della lunga decadenza della civiltà italiana. La creazione dello stato unitario, secondo il pensiero del diarista, fu un passaggio fondamentale nel percorso di rinascita del paese. Ciononostante, il politico non provò alcuna attrazione verso le nuove “libertà” portate dai regimi moderni. Espresse valutazioni lapidarie riguardo la sua era e confidò nell’avvento dei “nuovi italiani”: «Il carattere si formerà col tempo» annotò il veneto, «quando la generazione che ricorda il bastone del caporale austriaco sarà sparita».
Seppur contrario al regionalismo, Guccioli intuì che vi fosse la necessità di adottare delle leggi speciali adeguate ai bisogni peculiari di alcune zone dell’Italia e negò l’esistenza di una forma di ordinamento politico “universale” applicabile indistintamente a ogni popolo, il nobile riteneva anzi che tutti i governi dovessero necessariamente fondarsi sulla geografia e sulle tradizioni storiche delle diverse culture.
Si deve dunque ribadire che l’aristocratico non ebbe mai in odio i particolarismi locali e le tradizioni che contraddistinguono le città italiane. Ad esempio, leggendo le parole con cui descrisse il tragico crollo del campanile di San Marco, avvenuto il 14 luglio del 1902, si può intuire quanto profondamente egli fosse legato al suo luogo di nascita:
« – Un’orribile notizia: stamane alle 9,35 è crollato, finito per sempre, il campanile di San Marco. È come un sogno d’incubo, che mi turba profondamente. La mia Venezia! I miei ricordi! Mai più, mai più! Perché morire prima di me? Era già vissuto tanti secoli; perché non aspettare ancora un poco?»
Nato nella città lagunare e cresciuto leggendo la storia del suo patriziato, Guiccioli si persuase che la borghesia fosse incapace di prendere il posto della nobiltà e profetizzò l’insostituibilità dell’aristocrazia nella guida delle nazioni:
«la società sarà sempre governata da una oligarchia; e fuori di essa non vi è posto se non per i comunisti e gli Eliogabali, cioè la rovina dell’ordine morale e sociale»
Tra le sue riflessioni ammise che il suo rifiuto della democrazia non era un pregiudizio di ceto o un sentimento istintivo, bensì il risultato dell’esperienza maturata studiando criticamente la realtà e le lezioni offerte dal passato, poiché «soltanto i Paesi oligarchici hanno avuto il sentimento elevato dalla grandezza e dalla dignità della Patria: Roma, Venezia, Inghilterra».
Attraverso le taglienti osservazioni dell’autore emergono continuamente – con toni quasi ossessivi – le sue opinioni antidemocratiche: «Quale è l’avvenire della democrazia? Io temo che esso sarà infelice. Credo la democrazia una forza disgregatrice», l’ideologia democratica per il diarista «è in opposizione diretta con le grandi leggi della filosofia e della psicologia sociale». Le dispute tra i partiti politici sono un altro argomento che ricorre spesso nel diario, queste lotte faziose vengono paragonate all’anarchia che si diffuse nelle città italiane con le faide tra casate rivali durante il Medioevo.
Lo statista fu un uomo di vasta erudizione ed ebbe innumerevoli interessi, nel suo diario abbozzò riflessioni sulla poesia, sulla drammaturgia e sull’arte in generale. Apprezzò le opere di D’Annunzio e lo elogiò apertamente, equiparandolo a Carducci, ma disapprovò «i principî immorali» di cui il Vate si fece banditore e giudicò assurda e grottesca la «teoria del superuomo».
Tra le brevi notizie giornaliere che fornisce il politico spiccano i riferimenti a vari celebri fatti di cronaca, come la morte di Luigi II di Baviera il 13 giugno 1886 o il suicidio di Rodolfo d’Asburgo il 30 gennaio 1889; nondimeno lo stile della scrittura è spesso telegrafico e rende il testo più simile a una raccolta di lacerti di discorsi rimasti incompiuti che a una serie di resoconti esaustivi.
Una recensione apparsa nel 1942 ne La Critica, rivista di letteratura, storia e filosofia diretta da Benedetto Croce, stroncò il diario e lo presentò come un testo che «alla conoscenza storica […] non apporta, di certo, nè contributo rilevante di testimonianze, nè, molto meno, gravità di giudizii».
Eppure Diario di un conservatore è un libro che può riservare molte sorprese ad appassionati e studiosi, esso costituisce una piccola miniera di informazioni sulla vita politica e culturale di un’epoca. Quest’opera può aiutare perlomeno a capire la mentalità diffusa in una parte dell’aristocrazia in un’età di transizione. Si può affermare che il vero protagonista di questo diario è l’Italia attraversata dai mutamenti storici.