L’11 febbraio scorso la regione Toscana ha approvato una legge finalizzata a dare attuazione nell’ambito del servizio sanitario regionale al “suicidio assistito” nei limiti stabiliti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 242/2019. Una decisione, quest’ultima, inclusa dalla dottrina nella categoria delle cosiddette ”sentenze delega”, con le quali, per prassi consolidata, la Corte nel sollecitare l’intervento del Parlamento gli indica anche quali dovrebbero essere, alla luce del dettato costituzionale, le linee generali della normativa della materia. Nonostante pendano da tempo in Senato almeno quattro progetti di legge questo intervento del legislatore nazionale non si è fino ad oggi concretizzato. Di qui l’occasione per i legislatori regionali di proprie iniziative che – come nel caso toscano – cercherebbero legittimità costituzionale con l’attribuire al cosiddetto “fine vita” natura “sanitaria” un modo da farlo rientrare fra le materie affidate alla concorrente competenza di Staro e Regioni. Forse sull’esempio (non solo regionale, ma a livello mondiale) dell’aborto, nascosto sotto la maschera della “salute sessuale e riproduttiva”.
Politicamente l’iniziativa toscana ha avuto valutazioni opposte a seconda degli schieramenti politici di appartenenza, ma ha comunque conseguito lo scopo di spingere altre regioni (anche di opposto segno – in particolare Veneto, Lombardia e Liguria -) a prendere in considerazione analoghi percorsi e di smuovere le acque, sollecitando la maggioranza di governo al varo di una legge nazionale.
Giuridicamente invece l’opinione di gran lunga prevalente è che solo una legge dello Stato possa regolamentare una materia che eccede l’ambito della “sanità” e per la quale risulta inammissibile una normativa differenziata e a macchia di leopardo riguardo alle modalità con cui vengano (o non vengano) recepite le indicazioni della Corte costituzionale. (che ha, difatti, delegato il Parlamento). Rischio tanto più elevato se si considera che possono esservi dissensi anche sull’esatta portata di una decisione, che secondo una corretta lettura non ha affatto riconosciuto il diritto a ricevere una prestazione “suicidiaria” dal Servizio Sanitario Nazionale e, men che meno, il diritto a morire. In effetti la Consulta ha sì individuato, a modifica della più ampia previsione penalistica fino a quel momento vigente, uno spazio di non punibilità nei confronti del soggetto che in presenza di condizioni analiticamente indicate contribuisca alla realizzazione di un proposito suicidario, ma precisando, come si legge in motivazione (ed è stato poi ribadito dalle successive sentenze n.ri 50/2022 e 135/2024) che “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito)” .
In ogni caso per quanto riguarda la competenza esclusiva in materia del legislatore nazionale, basti ricordare che l’art. 117, co. 2, lett. l) e m), della Costituzione riserva allo Stato la competenza legislativa in materia sia di ordinamento penale sia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, senza disparità di trattamento per casi analoghi. Anche poi a volere spingere al massimo la ricomprensione (per altro più che dubbia) di un provvedimento del genere nell’ambito sanitario (a competenza concorrente) non verrebbe comunque meno l’esigenza della preminente legislazione statale in quanto “il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica deve essere garantito in condizioni di eguaglianza in tutto il Paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale” (sentenza Corte costituzionale n. 5/2018).
La legge toscana è quindi affetta, per contrarietà al dettato costituzionale, da una nullità che il governo dovrebbe far valere davanti alla Consulta anche se al momento sembra avere preso la strada di superarla attraverso il varo di una legge nazionale. In realtà le due strade non si escludono, tutt’altro, ma la sopravvivenza giuridica nel nostro ordinamento della legge regionale toscana, anche se di fatto superata, sarebbe fonte di problemi in quanto con la forza del fatto compiuto potrebbe fornire argomenti sia a chi volesse ampliare la sfera delle competenze regionali a campi oggi interdetti, sia a sostegno della tesi della cosiddetta “cedevolezza invertita”, che attribuisce alle Regioni il potere di intervenire a colmare una lacuna legislativa statale (tesi bocciata, con riferimento ad una legge della Regione Friuli-Venezia Giulia, dalla sentenza della Corte n. 1/2019 quanto meno per “i profili che attengano alla competenza esclusiva del legislatore statale”).
Un’ultima osservazione (politica?) sulla contraddittorietà di una iniziativa che tende di fatto a realizzare nel paese una situazione differenziata a macchia di leopardo da parte di una regione come la Toscana, fra le più accanite a contestare in nome dell’uniformità il progetto governativo dell’autonomia differenziata.
Francesco Mario Agnoli