Lista per girare un film: soggetto, sceneggiatura, dialoghi, scenografia, colonna sonora, cast, doppiaggio, montaggio, regia, un produttore e cinque minuti di titoli di coda. Sempre?
Parigi, 1974. Cineprese 16 millimetri, teleobiettivi e grandangolo, registratore Nagra, fonico con le cuffie, i microfoni. Dieci giorni sui marciapiedi che confluiscono e defluiscono da Place de la République. Un fiotto in un senso e nel suo inverso, magma di folla che va a spasso, che si affretta verso qualcuno e qualcosa.
Zona né ricca né povera, con la Marianna, il ramo d’ulivo e le Tavole della Legge.
Mattine e pomeriggi a riprendere gente che rumina i fatti propri, a cui porre domande. Lui, nessuno lo riconosce, nessuno gli chiede chi siete, cosa volete voi tutti, e chi è lei che di questi impiccioni sembra il capo?
Se gliel’avessero posta, la question, come e cosa avrebbe risposto, lui, una volta spento il sorriso? Spettinato, più basso che alto, malvestito- giubbotto di jeans, camicia spiegazzata, pantaloni stazzonati e scarpe scalcagnate- non si faceva gli affari suoi. Voleva attaccare bottone.
Les citoyens non sapevano. Chi gli avesse risposto con un filo di garbo, accennando alla cronaca di una vita, la propria, sarebbe tornato a casa passando per l’androne della storia del cinema. Il quarantenne che faceva domande era il regista Louis Malle, una delle intelligenze di Francia; quello che prendeva forma, nel ronzio della camera, sarà uno dei più intensi documentari di sempre, Place de la République, voci e volti della manciata di esistenze disposte a mostrare le cicatrici e le ustioni dell’aver vissuto come una calza bucata o un dente cariato, a dire di solitudini affollate, di anticorpi esistenziali, di tecniche elementari di sopravvivenza, di mimetismi comportamentali. Di lutti e delitti, del futuro che non importa nulla.
Altroché la ville lumière.
Per dirla alla Marcel Aymé, sulle pagine del marciapiede si scrivevano parole di celluloide, senza le lungaggini di Balzac, sul palco dell’urbana comédie humaine dei diari minimi, vinta la ritrosia iniziale, come se, chi li aveva scritti, i diari, avesse atteso proprio quell’occasione per dirla tutta a tutti, la verità.
Louis Malle, con l’oceanografo Jacques Cousteau aveva vinto nel 1956 la Palma d’Oro a Cannes per il documentario Il mondo del silenzio, premio Oscar nel 1957. Aiuto regista di Bresson per il notevole Un condannato a morte è fuggito, aveva debuttato alla regia con un capolavoro, Ascensore per il patibolo, tratto dal romanzo di Nöel Calef, sceneggiato da Roger Nimier con la colonna sonora di Miles Davis. L’anno dopo, aveva girato Les Amants, Leone d’Argento a Venezia.
E fino al 1974, altri otto eccellenti lungometraggi, due cortometraggi e due documentari. Ricco di famiglia, antiborghese senza la puzza al naso dei virtuali tesserati di tanta gauche, per i passanti era uno di quelli che erano lì ieri e anche l’altro giorno, che maneggiavano aggeggi strani e dicevano di girare un film.
Pure quell’oggi è un altro oggi che coagula i curiosi, intercambiabili con gli intervistati che parlano di biografie, rimescolate come carte da gioco in un mazzo unto e consunto, ormai neppure tanto misterioso. Ammiccano, occhieggiano, sorridono, abbozzano cenni d’intesa e di puntualizzazione. Affermano e negano.
La curiosità di finire nell’oculare di una macchina da presa è forte. Perché proprio io? Perché non io?
Cinquant’anni fa la memoria di quanto aspra possa essere la sopravvivenza, era quotidiana. Arrivare a fine mese. Un paio di scarpe. L’affitto. Le bollette. Una messa in piega. Mai un complimento. Il sogno della casetta di tre stanze in campagna, la rétraite per allontanarsi dai prezzi insostenibili e dal piano inclinato della città che scivola verso le banlieu da cui non si ritorna.
Starsene senza appello nella propria categoria può essere disperante. Ma un domani…
Lo stampatore di calendari è certo che l’anno a venire sarà migliore. Forse.
La signora dell’edicola vende biglietti della lotteria e raccoglie ipotesi di progetti, tenuti a bagnomaria se quel tagliando sarà estratto. Raccatta confidenze che potrebbero virare con l’aiuto della fortuna. Dicono la loro. Magari, comprano cento biglietti ma non vincono un franco. Non ho mai sentito dire: sono felice.
Non lo erano neppure prima. La memoria dell’occupazione. Sono di sangue polacco, ho sempre fatto il sarto qui, a Parigi Mi sono cucito io stesso, sulla giacca, la gialla Stella di Davide. Allora, in Polonia gli ebrei erano tre milioni. Oggi poche migliaia. Così funziona la storia. Ho risparmiato, vivo con mia figlia.
Inurbati. La memoria di essere figli di un vacheron che la domenica indossava il vestito buono per la messa e i funerali. Le scuole erano occupate dai tedeschi. Dopo sei mesi, mi hanno tenuto a casa. Le vacche… fino ai diciotto anni, ho avuto per me si e no quattro ore al giorno. Il resto era per le bestie. Poi sono venuto qui. Faccio l’operaio. Non mi importa dello smog, del rumore e delle malattie. Ho un orario, comincio e finisco; torno a casa e mi sbraco sul divano. Ne ho per altri vent’anni almeno. Poi me ne andrò all’Île d’Oléron, a guardare l’oceano.
Fuori tempo massimo. Piccioni zoppi, gli anziani giocano a domino e a carte nel plateatico di un bistro. La signora con un occhio solo ha novant’anni. Si sorregge a un bastone da non vedente. Siamo amici finché smazziamo le carte. Poi basta. Nessuno sa il nome degli altri. O non lo ha chiesto o lo ha dimenticato. Ho imparato a memoria la strada per tornare a casa. Vie, semafori, passaggi pedonali. Tutto. Chiudo la porta con il chiavistello e non apro a nessuno mai.
Il drappello di vedove e vedovi s’ingrossa. Il cancro si è dato da fare. La carta buona da calare per vincere la mano a Piquet è il tempo passato da quando la solitudine è la coinquilina. Io tre mesi fa. Io otto. Io, quattro anni ma sembra ieri. Ha sofferto come un cane. Lei no, dormiva, non se n’è accorta.
Cento metri più in là, Madame canta con la sensuale dolenza di Frehel. Una vita nei tabarin. Ma contavano più le gambe della voce. La sua risata sovrasta i claxon innervositi. Mio marito è morto in fretta. Era un dirigente. La sua pensione non basta e così…batto il marciapiede. Rido perché una puttana triste non la vuole nessuno. Piango quando sono a casa, di schiena alla porta d’ingresso.
Cos’è la felicità, a trent’anni? È sposare un uomo che provveda a tutto, per non essere obbligata a lavorare per uno stipendio miserabile. È umiliante sentirsi una schiava. Spero di tornare in Normandia. Lì è tutto più semplice.
E a sessanta? Si fa ogni giorno con quello che si ha. Non per me ma per mio figlio e mio nipote. Sono stata orafa per tanti anni…Mi vedo per quella che sono, non ho sogni né illusioni, non potrei averne.
Et pour vous? Ho sempre fatto la domestica. Ho cinquantasette anni e sarei felice di non smettere mai di lavorare. Non la infastidisce la cinepresa? No. Davvero mi state filmando? Certo. Ditemi quando e dove potrò vederlo…non ho la televisione…
Anzianità e solitudine, abbarbicate a una missione. Porto il mangime ai miei compagni del cielo, i passerotti e i piccioni. Mi aspettano, io arrivo anche quando piove.
Certezze. Dio ti ascolta se lo cerchi quando hai bisogno di lui. La gente deve sapere che non è sola. Ho distribuito più di centomila volantini, sa ? Sono un invito a cercare Cristo.
Verità o fantasia. Una mia parente è un’attrice famosa. La più famosa di tutte. Non vi dico chi è proprio perché è la prima donna.
Gli uomini escono, fino a ora di pranzo almeno. Per non intristirsi, perché il cardiologo ha prescritto una camminata di un’ora, tutti i giorni. Sono in pensione, che ci faccio, a casa?
Lui, almeno, la pensione ce l’ha. Io no, sono il re degli imbecilli. Ho combattuto in Indocina, sono stato in Algeria… e non l’ho mai chiesta. Me ne sono andato e basta. E adesso sono nei guai. Mia moglie beve. Ho una figlia che non vedo mai.
Ancora la percezione della precarietà. Ho cinquantuno anni, ho perso il lavoro e non ne trovo un altro. Ogni giorno leggo le offerte su due quotidiani, telefono, scrivo, mi presento e mi rispondono che sono vecchio. Tra poco neanche i medici, neanche gli infermieri, nessuno avrà un lavoro stabile. Tutti precari per sempre.
Pensione sociale e pastis. Dopo undici anni di catena di montaggio alla Panhard, il mio sistema nervoso è andato a ramengo. Dentro e fuori da Ville Juif… Non starei male se non bevessi. Anche mia moglie beve…ci beviamo tutto!
Ci vuole ordine. Berretto e divisa neri, l’uomo scrive su un taccuino. Credono di fare i comodi loro. Parcheggiano in seconda fila, intralciano il traffico e i lavori in corso. Passo i numeri di targa alla Prefettura, che fa le multe e le manda a casa. Una sorpresa! Così imparano! Sono un collaboratore dell’autorità, io! Lo dico sempre a mia moglie!
Alto e massiccio, petto villoso. Ha doppiato da un po’ la mezza età. Tutti a dire che i bretoni sono i più forti. Non sono bretone ma ho avuto millecinquecento donne, ho preso cinque volte lo scolo e anche la sifilide e sono qui, sempre pronto!
Età incerta, strabica, zoppicante, spinge una vecchia bicicletta Peugeot. Legati al manubrio, informi pacchi incellophanati. Pare che debba raggiungere una località dal nome comprensibile solo a lei. Dice di aver fretta.
La bella ragazza è nata in Israele. Ma non sono ebrea. Vivo qui da dieci anni. Vende parrucche. Capelli sintetici, di tutte le tinte e le pettinature. Da donna e da uomo. Chi le compra? Dipende da quanto manca a fine mese; certi giorni va bene, certi no. Donne. Anche gli uomini le comprano. Non le sembrano imbarazzati? Neanche un po’. Se la calcano in testa, pagano e via! E i travestiti ne prendono anche tre per volta.
I fanali gialli delle auto si accendono. Dire che la nuit se lève fa il verso a un titolo di Marcel Carné con Jean Gabin. La ragazza ripone le parrucche negli scatoloni; ha raccolto i capelli in un foulard turchese. À demain!
Il marciapiede sembra deserto. Nello sgabuzzino, nel comò, nell’armadio, sono riposte le pieghe di un’esistenza sospesa, dietro le finestre che occhieggiano al primo buio. Arriveranno i piccioni, i clochard, gli spazzini, i primi impiegati, la folla.
Ho la sensazione di aver rubato un qualcosa che non restituirò, domani.
È l’effetto collaterale di un grande cinema fatto di inconsapevoli storie qualunque.