Modelli economici tra storia e antropologia
La svolta protezionista di Trump nello scenario economico mondiale ha provocato una ridda di polemiche il cui livello si sta dimostrando miserevole e talvolta miserabile. La discussione infatti – guidata dalla sinistra per l’incapacità della destra di impadronirsi della narrazione mediatica – si è focalizzata sulla diatriba “anti-sovranismo” vs “sovranismo” facendo scadere il dibattito su un piano di così basso spessore da non riuscire a dar conto di quale sia la vera posta filosofico-politica in gioco.
Sia l’auto-centrismo nazionale sia il liberoscambismo prima di essere dottrine economiche sono dottrine politiche fondate su diverse visioni filosofiche, non senza richiami teologici. Entrambe le dottrine colgono soltanto un lato della realtà nella complessità del suo darsi e, pertanto, se portate all’estremo rischiano di produrre effetti perniciosi. Se il nazionalismo economico portato all’eccesso rischia di rovesciarsi in autarchia assoluta alla lunga insostenibile – una cosa è però l’auto-centrismo, altra la pretesa di una autarchia solipsista; auto-centrico, ad esempio, e non autarchico, è l’approccio keynesiano ma anche quello della nazional-economia ordoliberale –, il liberoscambismo dogmatico sancito, a suo tempo, dal “Washington consensus”, per supportare la globalizzazione capitalistica, ha aperto la via per un ulteriore accentramento della ricchezza a favore dell’Occidente e al suo interno a favore delle classi ricche dedite alla finanza speculativa.
In una visione politica attenta all’antropologia tradizionale, e non negatrice della spiritualità costitutiva e strutturale dell’uomo, l’auto-centrismo, per il suo richiamo ad un ordine ontologico di ambiti dimensionali dell’esistenza umana, se non si chiude in una idolatria tribale, è più del liberoscambismo in linea con la concezione metafisica del mondo.
Il mercato non può sussistere senza essere inquadrato in un superiore contesto giuridico, politico, etico. Il dato storico ci dice che esso non è mai esistito in forma autonoma ovvero libera. Parlare di “libero mercato” è parlare di una chimera. Storicamente il mercato è sempre stato soggetto, secondo molteplici modalità, al primato del Politico, nelle sue varie forme epocali, ed è sempre stato incorporato in un contesto comunitario perché l’uomo è, per natura, chiamato a vivere in comunità con gli altri suoi simili. Qualsiasi pretesa individualistica e solipsista è contro natura.
È necessario che il mercato, quale componente dell’economia, pur nella giusta considerazione delle leggi a questa proprie, resti all’interno del suo ambito che, nella tripartizione tradizionale dumeziliana, è il terzo, dopo il Sacro e il Politico. Ciò significa che le leggi dell’economia, le quali regolano il mercato e che tuttavia sono dinamiche e non fissate ab aeterno, non possono darsi come indipendenti da quelle proprie delle superiori dimensioni spirituali, etiche, politiche e giuridiche nelle quali si svolge la vita umana e nelle quali l’uomo, essere multidimensionale, esprime sé stesso. “Il mercato dove possibile, lo Stato dove necessario”, per dirla con Giulio Tremonti.
La storia ci dice che l’economia di scambio, il mercato, è apparsa in fasi successive e tardive delle civiltà umane e quando è apparsa, pur modificando in parte le relazioni sociali all’interno dei gruppi umani e tra di essi, non si è mai affermata se non nel quadro ordinamentale ed etico-giuridico dipendente dall’ambito sovra-economico del Politico, a sua volta soggetto al Sacro. Possiamo riscontrare questa evidenza anche nella dinamica di sviluppo del mercato moderno. Esso si differenzia da quello antico perché strettamente connesso al modo di produzione capitalistico a tal punto da non essere più soltanto un sistema di scambio, come nell’età premoderna, ma un sistema, appunto, di produzione, basato sulla tecnica industriale, del quale lo scambio è soltanto una fase di processo. Il capitalismo, e quindi il mercato moderno, nasce all’interno dello Stato nazionale. Quest’ultimo è stato l’esito della razionalizzazione del mondo inaugurata dal razionalismo. Lo Stato nazionale per imporsi ha dovuto negare legittimità alle Autorità Universali premoderne, la Chiesa e l’Impero romano-cristiano, ma, dato che l’uomo è pur sempre homo religiosus, non ha potuto fare a meno di un fondamento religioso che si è costruito da sé attraverso la contraffazione/sostituzione della religione tradizionale a mezzo di religioni civili. Carl Schmitt ha parlato dello Stato moderno come del “primo agente della secolarizzazione”.
La storia del capitalismo, nel suo affermarsi e svilupparsi, è una storia dirigista
Muovendo dalle sue forme proto-capitaliste medioevali fino all’epoca della piena maturità coincisa con la Rivoluzione industriale settecentesca, il capitalismo ha assunto il volto che abbiamo conosciuto, almeno fino al XX secolo, all’interno della forma-Stato del Politico. Di conseguenza l’ambiente originario del capitalismo non è stato affatto il “laissez faire”, o comunque non solo esso, ma il dirigismo protezionista che nella storia dell’economia ha trovato diverse denominazioni: mercantilismo, colbertismo, bismarchismo, new deal, nazionalismo economico, americanismo. Insomma nell’economia capitalista, nell’economia moderna di mercato, lo Stato è una componente essenziale e imprescindibile, benché la sua presenza sia stata variamente modulata a seconda delle fasi storiche e delle scuole economiche prevalenti nei diversi periodi.
Il decollo economico degli Stati Uniti, che ha fatto di essi la più grande potenza nel XX secolo, è avvenuto mediante il dirigismo protezionista. Nell’Ottocento, non a caso, il colbertismo del XVII secolo assunse il nome di “sistema americano” e come tale fu importato, in polemica con il liberismo inglese di Adam Smith, nella Germania bismarchiana da Frederich List padre della scuola economica denominata “sistema di economia nazionale”. Frederich List, avendo soggiornato a lungo negli Stati Uniti d’America, ebbe modo di studiare le modalità dell’irruenta modernizzazione della giovane nazione scoprendo che alla sua fonte vi era il dirigismo protettivo, industriale-finanziario, di Alexander Hamilton. Il dirigismo hamiltoniano utilizzò la prima Banca centrale statunitense – fu suo merito convincere il governo americano a istituirla con mandato ventennale – per finanziare le industrie nascenti, le opere pubbliche e le infrastrutture, principalmente le ferrovie, necessarie, dopo l’acquisto della Louisiana dalla Francia, all’espansione verso ovest, che avvenne a danno dei nativi come degli spagnoli e dei messicani, ponendo così le basi per avviare la modernizzazione.
Hamilton era a capo del partito dei federalisti, che auspicavano un forte potere centrale. Egli trovò una forte opposizione da parte dei confederalisti che all’epoca erano denominati “democratico-repubblicani” (successivamente dalla loro scissione derivarono gli attuali partiti della politica bipolare statunitense). I confederalisti difendevano le prerogative dei singoli Stati ed erano capeggiati da Thomas Jefferson rappresentante di una linea “populista” e “ruralista”. I confederalisti di Jefferson avversavano il modello inglese della Banca centrale in quanto quella britannica, fondata nel 1694, era stato lo strumento della dominazione britannica sulle tredici colonie americane nonché la causa del loro indebitamento pubblico che le costrinse a soggiacere alla forte tassazione imposta dall’Inghilterra, principale motivo, poi, della Rivoluzione americana del 1795-96 che ebbe origine dalla rivolta antifiscale del 1773 ricordata come il “Boston Tea Party”. I Jeffersoniani sono stati gli esponenti di una linea politica anti-bancaria molto forte negli Stati Uniti. Gran parte delle idee in materia finanziaria di Ezra Pound derivano da questa eredità culturale statunitense. Tuttavia se avesse prevalso la linea jeffersoniana gli Stati Uniti non sarebbero mai diventati la grande potenza che sono oggi.
Il dirigismo hamiltoniano, invece, recuperava l’odiato strumento della Banca centrale per sottoporla al primato della sovranità nazionale – infatti la sua era una banca pubblica e non privata come quella inglese – onde farne un mezzo di sviluppo e modernizzazione anziché di speculazione a favore degli azionisti privati. Dopo l’esperimento di Hamilton, tuttavia, nel corso del XIX secolo gli Stati Uniti tornarono a respingere il modello central-bancario affidandosi al sistema privato delle banche pur conservando al governo il potere di emissione monetaria in difesa del quale, allorché si propose di introdurre il monometallismo aureo a copertura del dollaro anziché il precedente bimetallismo aureo-argenteo o di eliminare la banconota di Stato per far spazio a quella bancaria, irruppero sulla scena politica veri e propri movimenti popolari, come quello a favore dei “green backs” (biglietti verdi) coniati durante la guerra civile del 1861-65. La crisi del 1876, quella del 1893 e quella del 1912 misero in chiaro che lasciate a sé stesse le banche speculavano emettendo moneta in misura sovra-proporzionata rispetto ai depositi, provocando in caso di fallimenti bancari la corsa del pubblico agli sportelli per ritirare i propri risparmi. Ciò convinse gli stessi banchieri a chiedere al presidente Wilson la reintroduzione di una Banca centrale, l’attuale Federal Reserve, quale regolatrice dell’attività creditizia e quale supporto alle politiche economiche del governo intese sia alla stabilità dei prezzi sia al sostegno del più ampio possibile livello di occupazione. I liberisti, eredi della tradizione jeffersoniana, che nella forma “populista” sono una componente da sempre molto attiva nella storia statunitense e per i quali la moneta sarebbe esclusivamente una merce di scambio da sottrarre, in nome della libertà individuale o localistica di emissione, al potere di emissione e regolatorio dello Stato centrale, hanno sempre accusato il sistema central-bancario di essere causa dell’inflazione, ossia di essere strumento del complotto del governo e dei banchieri per frodare il popolo con quella tassa “occulta” che sarebbe appunto l’inflazione.
Il sistema di Hamilton, nei vent’anni nei quali la sua Banca nazionale pubblica fu operativa, funzionò molto bene almeno per gli Stati del nord della Federazione americana. Quelli del sud invece, nonostante l’originaria avversione dei democratico-repubblicani di Jefferson al modello finanziario inglese, scelsero di legarsi al libero scambio del cotone con l’Inghilterra. Il fatto era che gli Stati del sud orbitavano, per ragioni commerciali, nel sistema imperiale inglese all’interno del quale svolgevano il ruolo di fornitori di cotone a buon prezzo, possibile grazie alla manodopera schiavistica, in cambio dei prodotti manufatturieri inglesi. Questa fu la causa principale della guerra civile di secessione del 1861-65. Tutta la questione della polemica sulla schiavitù, pur importante, non era a tal punto dirimente da provocare un conflitto intestino come invece lo scontro tra due modelli di economia, quello dirigista–protezionista e quello liberoscambista.
Liberoscambismo e asimmetricità
La stessa Inghilterra, patria della Rivoluzione industriale e alfiera del liberismo, nella fase di avvio della sua modernizzazione ha praticato dirigismo e protezionismo, per difendere l’industria nascente. Ma, poi, forte della posizione dominante acquisita, quale prima nazione industrializzatasi, è passata quasi immediatamente al liberoscambismo. Il quale, pertanto, nel XIX secolo è stato lo strumento ideologico dell’imperialismo britannico – “Rule, Britannia” – facendo dello scambio asimmetrico il pilastro del sistema. Il liberoscambismo, per l’inevitabile diseguaglianza di condizioni tra i popoli del mondo, in qualsiasi sistema di mercato unificato favorisce l’asimmetria di forza e posizioni tra le sue componenti. Così era in quello inglese nell’Ottocento, così è oggi nella Ue, così è per l’odierna globalizzazione.
Nel sistema liberoscambista è imprescindibile la suddivisione del lavoro, con i rispettivi “vantaggi competitivi”, tra il centro e la periferia. Il primo in posizione di egemonia economica e la seconda subalterna. Alla periferia, infatti, è assegnato il ruolo di fornitrice di materie prime e di prodotti agricoli. Per il paradigma liberoscambista la periferia, poco o non industrializzata, ha il suo vantaggio competitivo nel settore primario. Il centro, invece, ovvero il Paese o i Paesi tecnologicamente più avanzati, ha il proprio vantaggio competitivo nella manifattura. Tale vantaggio sta, quindi, nel produrre manufatti da rivendere in periferia la quale li acquista con la liquidità ottenuta dal centro con la fornitura ad esso delle materie prime e dei beni agricoli. In tal modo il flusso monetario che dal centro va verso la periferia ritorna al centro dalla periferia. Il liberoscambismo, in altre parole, dietro la retorica della libertà di commercio, si risolve in uno scambio asimmetrico che, in barba alla presunta reciprocità dei rispettivi vantaggi competitivi, legittima l’egemonia del più forte e la sudditanza del più debole.
Qualsiasi tentativo di creare un apparato produttivo autonomo, in casa, da parte della periferia è bollato come una violazione anti-economica della libertà di commercio fondata sulla legge, presuntamente scientifica, dei reciproci vantaggi competitivi tra i membri del sistema internazionale di scambio senza frontiere. Chi nella periferia del sistema tentasse di intraprendere una via di autonomia economica – oggi diremmo tentasse di liberarsi dai vincoli esterni – diventerebbe ipso facto un criminale, un attentatore del “naturale” ordine economico internazionale. Analogamente al diritto internazionale umanitario transnazionale, l’attuale “ordine mondiale basato sulle regole”, nasconde, e giustifica “moralmente”, una realtà di rapporti di forza. Quella dei vantaggi competitivi, lungi dall’essere una legge naturale, è soltanto la giustificazione, paludata di presunta scientificità, dei rapporti di egemonia sussistenti nelle relazioni economiche internazionali.
Se ai tempi del vecchio impero inglese la divisione internazionale del lavoro era quella tra industria manufatturiera, riservata alla potenza egemone, e agricoltura, lasciata alla periferia subalterna, lo schema oggi, con la globalizzazione finanziaria avviata alla fine del XX secolo, è stato aggiornato. Ora ad essere spazio riservato alle potenze egemoni, quelle occidentali, è il terziario avanzato, in particolare la finanza e la tecnologia digitale, mentre l’industria manufatturiera è delegata ai Paesi in via di sviluppo a motivo del basso costo ivi praticato per la manodopera non specializzata necessaria alla produzione industriale di base. Ma, a distanza di trent’anni dai fasti globalisti, l’Occidente si è accorto di aver provocato in casa una disastrosa deindustrializzazione, con ripercussioni drammatiche sull’occupazione. Una, nel breve termine, irrecuperabile perdita di know how industriale e, insieme, la destabilizzazione dei sistemi di welfare con decrescita del grado di socializzazione del mercato in precedenza raggiunto. Ad aver tratto vantaggio dalla deindustrializzazione sono stati i ceti parassitari – novelle aristocrazie peggiori delle antiche le quali perlomeno svolgevano una funzione guerriera di difesa – che vivono, in luogo di quella terriera, della rendita finanziaria e borsistica a danno dell’economia reale.
Dirigismo e modernizzazione. Il “dirigismo liberista”
Il sistematizzatore sul piano teoretico della dottrina liberoscambista è stato David Ricardo. Egli considerò “ordine naturale” ciò che in realtà era soltanto l’esito di un processo storico che aveva assegnato all’Inghilterra, prima nazione industrializzata, un primato di efficienza economica tale da consentirle di esercitare il proprio vantaggio competitivo su tutti gli altri. Ma il resto del mondo non accettò l’“ordine naturale” né la legge dei vantaggi competitivi sicché il liberoscambismo, giustificazione teoretica dell’imperialismo inglese, fu ben presto contestato, come si è detto, da un lato dagli Stati Uniti – prima che anch’essi diventassero alfieri del liberoscambismo una volta assurti a potenza egemonica mondiale – e dall’altro lato dalla Germania guglielmina la quale invece seguì il sistema di modernizzazione di List e Hamilton. Tra le cause della prima guerra mondiale bisogna annoverare anche questo scontro di modelli economici. La Germania ottocentesca era una potenza emergente e la sua ascesa ricalcava le vie economiche che necessariamente qualsiasi nazione agli inizi della sua modernizzazione deve seguire, ossia liberarsi da vincoli esterni per attrezzarsi a produrre in proprio tutto ciò che le è possibile dotandosi di un apparato industriale. Che vuol dire modernizzarsi anziché restare, come accadeva agli Stati del sud della Federazione americana e alle colonie dell’impero inglese, nazioni arretrate e subalterne alla potenza dominante.
Nessuna nazione è transitata dall’economia agricolo-artigianale, premoderna, all’economia industriale attraverso il presunto spontaneismo del mercato. La modernizzazione è sempre stata attuata mediante politiche dirigiste e protezioniste. In ognuna delle successive fasi di modernizzazione. Non solo durante quella della prima rivoluzione industriale ma anche nella seconda, nella terza ed oggi nella quarta rivoluzione caratterizzata dalla cibernetica. Internet nasce come Arpanet nell’ambito dello sviluppo dei sistemi di comunicazione della difesa americana ossia nell’ambito statale per eccellenza. Anche la Cina ha seguito la strada inevitabile del dirigismo per raggiungere il suo grado attuale di sviluppo. Infatti se è vero che l’economia cinese è decollata allorché si è aperta al mondo, in particolare con il suo ingresso nel WTO, attirando gli investimenti esteri con il suo basso costo del lavoro, è altrettanto inoppugnabile che i leader cinesi hanno implementato, sull’eredità del monopartitismo maoista, un sistema dirigista di controllo e direzione della modernizzazione. Ad esempio imponendo ai capitali stranieri di entrare in join venture, sostenute dallo Stato, con la emergente imprenditoria cinese, in modo da acquisire il know how necessario ad introdurre l’economia capitalista ma sotto il controllo pubblico.
La Cina è diventata una grande potenza industriale attraverso politiche economiche dirette dall’alto che hanno contribuito in modo determinante a creare il mercato interno mentre la globalizzazione rendeva possibile la facile esportazione dei suoi prodotti manufatturieri verso un Occidente che, suicida, aveva intrapreso la strada della deindustrializzazione, nell’illusione, alimentata dalla follia “escatologica” della fine della storia proclamata da Francis Fukuyama, di poter vivere di rendita finanziaria, senza produzione industriale e con una economia specializzata in servizi tecno-digital-finanziari. Una prospettiva corrispondente alla visione del mondo del nuovo capitalismo finanziario volto a fare denaro dal denaro, incurante della desertificazione industriale e occupazionale che veniva a crearsi alla base della piramide resa così instabile dal vuoto sottostante alla sovrastruttura finanziaria che, alla lunga, ha alimentato la rivolta populista dei ceti medi e operai impoveriti. Una rivolta che si esprime nell’ascesa dei leader sovranisti i quali promettono politiche di difesa nazionale auto-centrica.
Esiste tuttavia anche un “dirigismo liberista”. Esso agisce a un livello più ampio con le stesse modalità con le quali, a suo tempo, lo Stato nazionale ha agito per dissolvere l’organicismo tradizionale onde favorire la modernizzazione all’interno delle sue frontiere. Come, infatti, lo Stato nazionale ha liquefatto i legami comunitari tradizionali per mettere di fronte, senza più corpi intermedi, lo Stato e l’individuo, oggi le organizzazioni transnazionali della globalizzazione dissolvono, o manipolano, lo Stato nazionale, che rappresenta nel globale un corpo intermedio, per mettere il singolo, o le comunità minori, in diretto contatto con il mercato mondiale quasi senza più alcuna mediazione statuale. Se la prima modernizzazione ha ricreato nuove forme di organicità, si pensi ai sindacati, oggi non sembra invece darsi, nella fase post-statuale dell’odierna globalizzazione, alcuna riproposizione di aggregazioni comunitarie se non nella esplosione violenta e facilmente dissipabile dei populismi (salvo che essi non assumano una struttura culturalmente più solida, ma in genere si tratta di fenomeni legati ad un leader e quindi suscettibili dei suoi umori e delle sue sorti).
Il “dirigismo liberista” praticato dalle organizzazioni transnazionali, propugnatrici del globalismo mercatista, si appoggia sulla cultura woke-green perché questa mistura di marxismo culturale ed ecologismo deindustrializzante è funzionale allo scopo della denazionalizzazione, destatualizzazione e, soprattutto, della finanziarizzazione dell’economia. Da un lato, in nome di un terzomondismo rousseviano che vede nei popoli extra-occidentali soltanto dei buoni selvaggi sempre per definizione vittime innocenti, l’intera storia euro-occidentale viene tacciata di “suprematismo” e dall’altro viene colpito come anti-ecologico – le icone artificiali alla Greta Thunberg servono a questo scopo – l’apparato industriale in modo da far accettare la sua delocalizzazione secondo lo schema liberoscambista aggiornato. Se il marxismo culturale (nel quale giunge a capolinea l’essenza libertario-individualista del pensiero di Marx) è diventato egemone negli Stati Uniti, l’ecologismo deindustrializzante è diventato la bandiera della tecnocrazia eurocratica di Bruxelles e sta provocando l’esodo della industria europea verso Cina e Stati Uniti. Non a caso questi ultimi, prima con Biden e ora con Trump, hanno introdotto provvedimenti intesi a favorire questo esodo. L’Occidente, e in esso l’Europa per prima (che poi Occidente nel senso inteso oggi, ossia una unica realtà a trazione americana, non è affatto), si va suicidando secondo una molteplice linea di eutanasia culturale, politica, sociale, economica.
Astrattezza del liberoscambismo
Quella sottesa al paradigma liberoscambista è una logica astratta, avulsa da ogni concretezza, che avrebbe un senso e potrebbe trovare un riscontro effettivo nella dinamica storica soltanto se la modernizzazione avesse preso le mosse congiuntamente e contemporaneamente in ogni parte del mondo ed avesse seguito un andamento costante dappertutto. Se così fosse stato lo scambio concorrenziale tra nazioni tutte del medesimo livello di sviluppo e di capacità produttiva sarebbe stato consequenziale e anche inevitabile onde superare lo scenario localistico che è chiaramente un limite al faustismo tecno-produttivo (denominato più cordialmente “crescita”), con la sua spinta all’arricchimento, insito nel capitalismo. Ci sia consentito annotare, incidentalmente, che in un’ottica religiosa, ovvero in una prospettiva che indica quale fine ultimo dell’uomo non quello della conquista del mondo ma del Cielo, un tale limite è giusto ed etico. Non così tuttavia nella prospettiva capitalistica e questo dovrebbe far molto riflettere sui modi e possibilità, sempre precarie, di convivenza tra lo “spirito del capitalismo” – per Amintore Fanfani, grande storico dell’economia, il capitalismo prima di essere un metodo di produzione è una “spirito” – e la spiritualità religiosa, cristiana in particolare.
Il problema è che l’astrattezza del paradigma liberoscambista cozza inevitabilmente con la realtà e con l’effettivo dato storico che parlano invece di non contemporaneità e di diseguaglianze nella dinamica della modernizzazione. Alla fine ci saranno sempre nazioni più forti di altre che finiranno per imporre lo schema “inglese” dello scambio asimmetrico tra centro e periferia. I percorsi storici hanno mostrato che, dopo l’avvio del decollo industriale, le nazioni le quali raggiungono un livello di solida potenza industriale abbandonano il protezionismo dirigista e sposano il liberoscambismo per imporre, con le buone o con le cattive, l’apertura dei mercati esteri alle proprie produzioni senza troppi corrispettivi e reciprocità, per il semplice fatto che la modernizzazione non è mai un fatto contestuale e contemporaneo. Fu, ad esempio, il caso del Giappone che, alla metà del XIX secolo, fu costretto manu militari da Stati Uniti, Inghilterra e Russia, ad aprire i propri porti al commercio estero. In tal caso, tuttavia, l’esito non fu di subordinazione in quanto l’evento provocò la fine del potere feudale degli shōgun e, con la cosiddetta Restaurazione Meiji, l’accentramento del potere nell’imperatore con l’inizio di una politica dirigista che, mentre importava dall’estero tecnologia e know how produttivo, favorì l’accumulazione interna del capitale e quindi la formazione di un capitalismo nazionale, mentre non migliorava affatto la sorte dei contadini trasformati in operai.
I tentativi messi in atto dalle organizzazioni transnazionali per appianare dislivelli e ritardi non raggiungono, o raggiungono in modo molto precario, l’obiettivo della reciprocità perché le asimmetrie corrispondono a differenziazioni, tra nazioni, legate a molteplici fattori, religiosi, culturali, storici, ma anche all’evidenza del fatto che come non esiste alcuna eguaglianza meccanica tra gli uomini così non esiste alcuna eguaglianza meccanica tra i popoli. L’Universalismo è legittimo sul piano spirituale e trascendente ma non su quello immanente. All’Uno trascendente corrisponde la molteplicità immanente e tentare di omologare in una artificiale unità orizzontale ciò che è molteplice è un forzare la natura delle cose con inevitabili rovesci e fallimenti. Resta quindi quale unica via realistica, per uno sviluppo autonomo e paritario di ciascuna nazione, quella di un ragionato ed equilibrato auto-centrismo che sappia, però, restare aperto allo scambio con l’estero laddove non fosse possibile produrre in proprio, o per le eccedenze della produzione interna, ma senza cadere in vincoli esterni o transnazionali.
L’idolatria del mercato e il peccato dimenticato
Il liberoscambismo altro non è che il liberismo applicato ai rapporti economici internazionali. Come il liberoscambismo anche il liberismo è caratterizzato da astrattezza e da una insanabile mancanza di aderenza al dato reale e alla storia. Questa mancanza è tornata di recente a far capolino nelle parole di Javier Milei, presidente dell’Argentina, in quel di Davos, in un discorso tenuto nella riunione annuale del Word Economic Forum, allorché egli ha negato la possibilità che il mercato fallisca
«Non ci sono fallimenti del mercato (…) – questo è il passaggio cruciale del suo discorso – poiché il mercato è un meccanismo di cooperazione sociale in cui i diritti di proprietà vengono scambiati volontariamente. Il presunto fallimento del mercato è una contraddizione in sé; l’unica cosa che genera questo intervento [pubblico] sono nuove distorsioni del sistema dei prezzi, che a loro volta ostacolano il calcolo economico, il risparmio e gli investimenti e quindi alla fine finisce per generare più povertà o un sudicio groviglio di regolamenti, (…) che uccidono la crescita economica. Se pensi che ci sia un fallimento del mercato, vai a controllare se non c’è di mezzo lo Stato, e se lo trovi non rifare l’analisi perché è lì lo sbaglio».
Il liberista, Milei lo dimostra, adora il mercato come il suo “dio infallibile” e odia lo Stato come un “satanasso”. Ma la realtà e la storia ci dicono che Autorità politica – in età moderna, lo Stato – e mercato non si danno mai separatamente e che il secondo non può sussistere senza la prima. Milei è stato, insieme a Giorgia Meloni, uno dei pochi leader stranieri invitati al rito di insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Sarebbe bello sapere cosa egli pensa della politica protezionista del nuovo Presidente americano dato che essa è esattamente una delle forme della da lui odiata presenza dello Stato nell’economia. Se tale presenza è ora reintrodotta da un Presidente americano sì sovranista ma di un sovranismo liberista, come quello al quale lo stesso Milei e la nostra Meloni guardano, non sarà forse perché il mercato, il mercato internazionale, senza quella presenza, garanzia per l’industria e l’occupazione nazionale, fallisce endogeneticamente, e non per induzione esogena della mano pubblica, nella promessa di reciproco arricchimento tra le nazioni?
Nel discorso di Milei il grado di astrazione è a tal punto esorbitante che egli propone una immagine idilliaca, armonica, ordinata del mercato quale ambito di pacifica cooperazione sociale nello scambio vantaggiosamente reciproco dei diritti di proprietà. Una visione idilliaca che esclude pedissequamente qualsiasi inferenza verticale e trascendente, tutto risolvendosi in un panorama esclusivamente orizzontale. Se, poi, nella realtà la proprietà è accentrata e non diffusa, per cui non tutti possono disporre del suo diritto e della sua sostanza, o se la ricchezza è maldistribuita proprio a causa della tendenza del capitalismo all’accumulazione senza redistribuzione o, ancora, se si palesa la tendenza a comprimere, in modo costante, i salari a vantaggio dei profitti con la conseguenza, secondo un periodico andamento ciclico, della contrazione della domanda e dell’innesco di dinamiche deflazioniste, tutto questo viene completamente ignorato e negato nella visione artificiale di Milei.
Abbiamo imparato che lo Stato non è infallibile perché fallibili sono gli uomini che gli danno vita e solo un approccio ideologico può ritenere lo Stato una deità. Analogamente, il liberismo, finisce per negare la realtà, insieme al dato fattuale della esperienza storica, perché come tutte le ideologie – anch’esso è una ideologia – dimentica che gli uomini, che nel mercato agiscono, non sono perfetti perché la natura umana è ferita dall’egocentrismo, in termini teologici si chiama “peccato originale”. Per questo neanche il mercato è infallibile. Quella ferita impedisce qualsiasi spontanea armonia sociale, qualsiasi spontanea cooperazione sociale. Sotto il profilo spirituale, l’armonia e la cooperazione sono state una realtà soltanto prima del peccato originale e possono ancora esserlo soltanto laddove interviene dall’Alto la Grazia a trasformare nel cuore l’uomo, risanandone la ferita che si porta dentro. Il mondo, nelle sue interrelazioni con l’essere umano, dipende dallo stato di salute spirituale dell’uomo. Esso sta o cade con la ricezione dall’Alto dello Spirito, che rende armonico il rapporto tra l’uomo e il creato e tra gli uomini, o con il suo rifiuto. La pretesa di costringere la realtà dell’uomo, delle relazioni tra gli uomini, esclusivamente nel chiuso e asfittico recinto del calcolo economico, ritenuto espressione di una razionalità assoluta, infallibile e autoreferenziale, è segno di una mentalità costruttivista che palesa un retroterra occulto di superbia auto-deificatoria.
Ritorno al reale
Alla fine di tutto un dato storico è inoppugnabile. Le classi lavoratrici, almeno in Europa e nell’Occidente, hanno migliorato le proprie sorti sociali e economiche all’interno della struttura politica dello Stato nazionale. L’astratto internazionalismo di Marx – quello per il quale i proletari di tutto il mondo avrebbero dovuto unirsi al di là delle appartenenze nazionali – non ha mai trovato realizzazione, neanche nell’Urss essendo stato il comunismo sovietico, nella linea di Stalin e contro quella di Trockij, piuttosto un nazional-bolscevismo (quella sovietica era per il regime comunista una “patria”). Se l’internazionalismo marxiano è rimasto un mero concetto è perché si è scontrato con la realtà antropologica degli stessi lavoratori che in quanto uomini sono innanzitutto esseri appartenenti ad una comunità natia o di elezione. L’internazionalismo è contrario alla natura umana la quale è caratterizzata, tra le altre cose, dall’essere essenzialmente “radicata” in una patria sia essa organizzata o meno in Stato nazionale. Se l’internazionalismo marxista è fallito, prima di nascere, lo stesso può dirsi anche del cosmopolitismo capitalista e liberale con la differenza, però, che quest’ultimo è fallito, nel momento stesso nel quale ha trovato una realizzazione pratica in quella che chiamiamo globalizzazione, per l’incapacità di mantenere le sue promesse di pacificazione del mondo nella generale prosperità. Va detto, in verità, che nel perseguimento di una dimensione mondiale il capitalismo ha dovuto trasformare la sua natura da patrimoniale a finanziaria. Perché fin tanto che è rimasto patrimoniale, ossia capitalismo reale e produttivo, esso non ha potuto slegarsi dalle appartenenze nazionali per “volatilizzarsi”, deterritorializzarsi, denazionalizzarsi come gli è stato invece possibile nella sua transizione finanziaria post-moderna. Il primo capitalismo, quello produttivo, nella fase storica dell’Occidente caratterizzata dal colonialismo, era strettamente nazionale ovvero era strettamente legato allo Stato, sia per via della natura reale della patrimonializzazione, refrattaria all’immaterialità dell’economia finanziaria, sia perché la conquista delle risorse e dei mercati seguiva la politica nazionalista del tempo più che le astrazioni liberoscambiste. Anzi, come visto, quelle astrazioni servivano a nascondere le politiche imperialiste delle potenze egemoni.
È tuttavia indubitabile che, alla lunga, lo Stato nazionale, onde non deflagrare a causa del conflitto distributivo tra le classi sociali, non è rimasto – non poteva rimanere – inerte sul piano sociale sicché all’interno della sua cornice sono stati gradualmente riconosciuti i diritti del lavoro imponendo, con le buone o con le cattive, al capitale tale riconoscimento. Con la globalizzazione, invece, i ceti medi e popolari hanno visto ridurre le proprie conquiste sociali. La causa principale di questo indietreggiare sta nell’essere venuto meno il tendenziale primato della domanda interna sulla quale si fondavano le economie nazionali. Il ruolo soltanto complementare del commercio internazionale, strettamente controllato attraverso forme di protezionismo variamente graduato, e i rigidi limiti statali ai movimenti di capitale imponevano, nonostante ogni riottosità, agli industriali di dare il giusto peso al livello del reddito dei lavoratori perché esso, in un quadro auto-centrico, era la componente principale della domanda necessaria all’offerta. Allorché, invece, con la liberalizzazione degli scambi e dei movimenti di capitale, è diventata primaria la domanda estera il cosiddetto “compromesso keynesiano”, che ha retto l’economia occidentale per trenta/quaranta anni nel dopoguerra, è venuto meno con sicuri vantaggi per il capitale, tornato così ad accumulare senza però anche redistribuire come in precedenza, e altrettanto sicuro detrimento per i lavoratori i quali non solo hanno visto indietreggiare, per via della concorrenza sfrenata imposta dalla globalizzazione dei mercati, i salari ma hanno perso anche la tendenziale stabilità del posto di lavoro prima goduta.
Con Trump, dunque, sembra riaprirsi una stagione di nuovo auto-centrismo, con un ritorno al protezionismo. In molti prevedono guerre commerciali, in particolare con la Cina, e gravi problemi per l’Europa. Certamente giocheranno un ruolo importante anche fattori geopolitici molto delicati in uno scenario mondiale caratterizzato da tensioni e guerre, più o meno latenti. Uno scenario, che oltretutto, per via della nuova strategia trumpiana verso la Russia, vede la frattura dell’unità occidentale con l’Europa che paga il prezzo della sua stupida subalternità liberale agli Stati Uniti, per la quale ha lasciato cadere, contro il suo interesse, il rapporto, politico, economico e energetico, reciprocamente vantaggioso con Mosca, obbedendo ciecamente al diktat di Washington, che mirava a richiamare il suo vassallo all’ordine, in occasione della guerra russo-ucraina. Ora che l’amministrazione Trump la snobba, mentre tratta degli affari di diretta competenza europea esclusivamente con la Russia, l’Europa si mostra al mondo intero in tutta la sua impotente nudità di verginella sedotta e abbandonata. Ma, tuttavia, per quanto riguarda, il bivio della scelta del modello economico che il mondo ha di fronte, si dovrebbe quantomeno guardare alla storia la quale ci dice che il protezionismo, se ben pensato e calibrato, non è affatto quel male paventato giacché potrebbe riportare l’economia in un quadro nazionale, costringere il capitale ad un nuovo patto sociale, restituire ai lavoratori e ai ceti medi maggior potere contrattuale. Tutto sta a vedere se, anziché abbandonarsi allo strillare delle prefiche globaliste, di quelle eurocratiche in particolare, le classi politiche dirigenti delle diverse nazioni comprenderanno la necessità di tornare al reale – compreso il capitalismo reale – quindi ad una politica che non astragga dalla dimensione comunitaria, ossia dalla nazione organizzata a Stato, e da qui ripartire per costruire un ordine mondiale multipolare tra nazioni reciprocamente autonome e al tempo stesso, almeno per quelle di eguale livello economico, reciprocamente cooperanti su un piano di parità. Ma attraverso accordi bilaterali o plurilaterali e senza organizzazioni transnazionali che comprimano le sovranità nazionali e democratiche.
Luigi Copertino