In un suo recente scritto Mauro Ronco, facendone poi applicazione al caso specifico del diritto penale, scrive: “Come è ormai risaputo il diritto nel suo complesso è in crisi da tempo”. Affermazione esatta e valida a maggior ragione per il diritto internazionale, dal momento che se il diritto penale è “direttamente afferente con la tutela della persona umana” quello internazionale è sempre più afferente con la tutela dei popoli anche per la sua tendenza a influenzare, in misura crescente, i singoli diritti nazionali. In realtà la situazione di questa branca del diritto è divenuta, dopo circa tre secoli di relativa (molto relativa) tranquillità. tanto complessa (o, forse più esattamente, compromessa) da potere affermare, parafrasando Carlo Marx, che, celato sotto l’acronimo RBIO, uno spettro si aggira per il mondo: il “Rule-bared Intertnational Order” (tradotto in italiano come “Ordine internazionale fondato su regole”). Uno spettro che aspira a sostiture l’International Legal Order (ILO) anzi, più semplicemente, a presentarsi come la versione attuale di quello che noi, senza ulteriori specificazioni oltre quella, inevitabile, fra “pubblico” e “privato”, abbiamo sempre chiamato diritto internazionale. Caso mai occorra ulteriormente precisare e distinguere diciamo “Diritto internazionale classico”, che, semplificando e almeno per quanto riguarda i principi fondamentali, nasce nel 1648 con la pace di Westfalia, che pose fine alla guerra dei trent’anni. Uno dei più terribili conflitti che abbia mai sconvolto il cuore continentale dell’Europa.
Con la pace di Westfalia ebbe inizio un nuovo ordine internazionale, che ha (o aveva) come propri protagonisti solo gli Stati, connotati dal carattere esclusivo della sovranità e collocati tutti su un piano di assoluta parità indipendentemente dalla loro estensione territoriale, dalla consistenza della loro popolazione e delle loro ricchezze, quindi dal loro potere (politico, economico e militare). Di qui la definizione in parte ancora oggi valida, ma unanimemente accettata fino gli anni ‘70-80 del XX secolo, del diritto internazionale nel suo schema base quale insieme delle regole giuridicamente vincolanti concordemente stabilite dagli Stati per disciplinare i reciproci rapporti (l’anglosassone “International Legal Order”). Come si è appena visto, ma va meglio esplicitato e ribadito, il principio fondamentale, la base stessa del sistema, è (o era) la sovranità statale. Il che, tradotto in concreto, significava anzitutto l’indefettibile riconoscimento del diritto di ogni Stato di governare i propri affari interni senza ingerenze esterne: una qualità tanto preziosa che nel corso del tempo si provvide ad elaborare le regole del cosiddetto “Ordine pubblico internazionale” (che non ha nulla a che spartire con il RBIO, ma è il corrispettivo dell’ordine pubblico interno) al preciso fine di costituire un argine alla penetrazione del diritto straniero nell’ordinamento interno.
E’ singolare notare che mentre il diritto internazionale classico (o westfaliano) è costituito da un complesso di regole precise e giuridicamente vincolanti – sia pure, in genere, di origine pattizia, quindi non imperative per chi non vi consente e almeno tendenzialmente variabili nel tempo – il cosiddetto “Ordine Internazionale basato su regole” fa continuo riferimento a grandi principi definiti, quale più quale meno, “universali”, che non vengono però tradotti in un preciso e sempre valido corpo normativo, ma in prescrizioni (più spesso democratici “ukase”) dettate caso per caso. Prescrizioni che rappresentano l’occasionale traduzione nel mondo dei fatti di quei principi, demandata, in via primaria, allo Stato in quel momento politicamente egemone. Egemonia oggi ancora riconosciuta, almeno nel mondo occidentale e nelle sue appendici, agli Stati Uniti d’America, che non sono gli unici autori (nella costruzione del catalogo dei principi hanno avuto un ruolo molti altri, fra cui l’illuminismo e la rivoluzione francese), ma, da un lato, i fruitori e, quindi, i grandi patrocinatori e propagandisti del RBIO (pare che esclusivamente a questo facesse riferimento il presidente Biden nei suoi interventi pubblici), dall’altro, di conseguenza, il bersaglio prediletto di tutti i suoi avversari.
E’ evidente che, proprio perché si tratta di principi universali, quasi sempre più o meno vaghi, non di rado contraddittori, la facoltà di scelta concessa allo Stato egemone è quanto mai ampia, ed è qui che inevitabilmente il discorso giuridico si mescola e si confonde con quello politico. Il che rende possibili plateali contraddizioni, come accaduto (forse il caso più spesso citato dai critici) attraverso l’applicazione ora del principio di autodeterminazione ora di quello di integrità territoriale, entrambi presenti nel famoso catalogo. E’ stato fin troppo facile rilevare che “ in Kosovo, l’Occidente ha promosso l’autodeterminazione come un diritto normativo di secessione che doveva essere prioritario rispetto all’integrità territoriale. In Ossezia del Sud e Crimea, l’Occidente ha insistito sul fatto che la sacralità dell’integrità territoriale, come stabilito nella Carta delle Nazioni Unite, deve essere prioritaria rispetto all’autodeterminazione”. Nello stesso senso, anche se spesso in maniera meno plateale, opera la moltiplicazione di organizzazioni e di enti ai quali si attribuiscono, compiti e funzioni un tempo riservati dal diritto internazionale classico agli Stati. Tali enti ed organizzazioni sono abilitati, sempre all’interno dell’indicato quadro imperiale/egemonico, a interpretare e ad applicare il RBIO in una lunga serie di casi particolari. Come è stato da più parti osservato, si verifica un tal modo una proliferazione di norme, che pretendono di regolare dall’alto ogni aspetto delle relazioni fra Stati, molto spesso, specie per quelli più deboli, senza il loro consenso, fino a interferire, non di rado, anche nei loro ordinamenti interni.
La panoramica del diritto internazionale, per quanto riguarda la sua funzione e la sua efficacia nei confronti dei fenomeni e dei rapporti che dovrebbe regolare, si presenta, quindi. abbastanza complessa da giustificare conclusioni diverse da parte dei critici del RBIO, Quella di chi, senza spingersi oltre, parla con rammarico di una frammentazione giuridica destinata a incidere negativamente, col creare caos e confusione sulla certezza del diritto, e quella di chi considera queste proliferazione e frammentazione funzionali a un esito fin troppo solido e riconoscibile: l’affermarsi e il perpetuarsi del dominio e controllo dello Stato egemone (ovviamente esiste anche – mass-mediaticamente e forse anche culturalmente predominante la versione favorevole, che ritiene il RBIO l’attuale legittima incarnazione dell’ILO).
L’autore di queste righe è perfettamente convinto che il ricorso alla prepotenza ipocrita è antico quanto il mondo (“superior stabat lupus/inferior agnus”), ma ritiene che sia compito del diritto contrastare e non favorire tale tendenza. Per questo non gli resta che accodarsi a chi invoca il ritorno a Westfalia.
Francesco Mario Agnoli