Il Geopolitico bambino che guarda la nascita dell’uomo nuovo è una celebre opera dell’artista surrealista Salvador Dalì, il dipinto, un olio su tela realizzato in occasione della permanenza di Dalì negli Stati Uniti e in piena Seconda guerra mondiale, raffigura un globo a forma di uovo dal quale a schiudersi è l’uomo nuovo. La nascita non è indolore, si puo’ infatti notare una grande goccia di sangue che fuoriesce dal guscio. Dell’uomo nuovo, collocato nel cuore del dell’America del Nord, vediamo le braccia protese a stringere nella mano destra l’oceano Pacifico e nella sinistra l’Inghilterra, come a richiamare l’ascesa della (super) potenza marittima. Al contempo, in primo piano, dall’esterno due figure, una donna adulta e un bambino, osservano il faticoso processo di nascita, con la mano destra la donna sembra voler indicare la vecchia Europa, visibilmente rimpicciolita – anzi ridimensionata – rispetto all’Africa e al sud America, ormai destinata a lasciar spazio ai nuovi equilibri, perimetri e confini che saranno sanciti da questo uomo nuovo. Ai piedi della figura femminile troviamo il bambino geopolitico, da cui deriva il titolo stesso dell’opera, avvinghiato alle caviglie scruta un futuro tutto da riscrivere. Siamo nel 1943 un nuovo mondo si stava manifestando.
Frontiere e confini nella storia: qualche breve accenno del ricamo dell’uomo sulla pelle della terra
Le frontiere e i confini tra nazioni hanno svolto un ruolo cruciale nella formazione della storia umana. Da elementi fluidi dell’antichità a simboli di divisione durante la Guerra Fredda, la loro evoluzione riflette i cambiamenti nella politica, nella società e nella tecnologia. Oggi, mentre l’ultima fase, in senso temporale, del processo di globalizzazione sfida la loro importanza, le frontiere continuano ad essere un elemento centrale nella definizione delle identità nazionali e delle relazioni internazionali e proprio in virtù di questa centralità, queste continuano a essere un terreno di scontro di opposte visioni del mondo, la cui effettiva rappresentazione entro l’agone politico convenzionale sconta un certo scarto, perlomeno rispetto alle aspettative concrete, dell’elettorato occidentale.
Le frontiere e i confini – border, boundary, frontière, grenze, krajina, ecc. nelle lingue principali del Vecchio Continente – rappresentano i punti di contatto tra entità statuali e solitamente vengono intesi come sinonimi sebbene i geografi abbiano distinto i due termini distinguendoli tra loro sotto l’aspetto meramente tecnico: le prime equivalgono a una divisione che separa due territori che non hanno sempre una delimitazione precisa, i secondi solitamente fanno riferimento a una divisione più marcata, riconosciuta e quindi condivisa. Chincaglierie per geografi e polemiche semantiche tra storici avvizziti? Non spetta certamente a noi sentenziarlo, resta però il fatto che entrambi i concetti, nella loro costante e complessa dialettica, abbiano assunto il ruolo di attori fondamentali nella storia dell’umanità, plasmando le civiltà, influenzando le dinamiche sia politiche che geopolitiche e, in molti casi, scatenando conflitti.
Nell’antichità, le frontiere non erano delimitate da confini chiari come oggi. Le civiltà creavano Imperi estesi, e le frontiere erano spesso determinate da elementi ambientali e geografici, spesso stabiliti da conquiste militari. La demarcazione stessa dei confini era, per ovvie ragioni, non delimitata “politicamente” come lo sarebbe stata in seguito, ma piuttosto soggetta agli elementi idrogeologici o montuosi.
L’Impero Romano, ad esempio, si estendeva su vasti territori, delineando confini che separavano il “noi” dal “loro” e stabilendo l’inizio di una concezione che potremmo definire più moderna di frontiere. Celebre è ormai il concetto di limes, termine latino il cui significato originario è da ricondurre a “sentiero, strada delimitante un confine tra due campi”, e che in epoca romana assunse, in base all’elasticità propulsiva alla propensione espansionistica dell’Impero, connotati relativi all’esigenza logistica e militare dell’esercito romano, per poi divenire, col tempo, solco difensivo. Il limes assunse non solo una divisione artificiale, costituita da fortificazioni, ma anche una netta divisione tra Roma e i suoi avversari. Il significato dello stesso rimandava a un concetto ambivalente: esso era sia materiale che simbolico, la presenza del limes rimandava alla costante potenzialità espansiva dell’impero, evocando così concetti di forza e deterrenza, generando anche un impatto psicologico.
Durante l’età tardo antica (dal V al XV secolo), le frontiere divennero spesso instabili a causa delle cosiddette “invasioni barbariche” e dei conseguenti vuoti di potere dai quali scaturirono contese territoriali e, specialmente per ciò che concerne l’Europa occidentale, i confini di una qualsiasi entità statale si delinearono sotto una nuova ottica, frutto dell’incontro della nuova società feudale con la trionfante cultura cristiana, che delineava più marcatamente il concetto di confine sia su un piano culturale che religioso, riproponendo l’antica idea identitaria che fu degli antichi greci contrapposti agli “altri”, persiani, macedoni o qualsiasi alloctono che fosse l’elemento di contrapposizione.
Un confine poteva – e può ancora oggi – dirsi anche “culturale”, identificato negli usi, nei costumi, nelle tradizioni religiose e nel folclore popolare; un confine ideale ma aperto nell’arricchimento, infatti le identità non erano – e non sarebbero – nemiche fra loro e i concetti di “confine”, oltre a delimitare i poteri statali, erano anche porte di accesso e di scambio sia materiale che culturale, attraverso i commerci ma anche con le circolazioni delle idee. Un esempio fu il mare Adriatico il quale, lungi dall’essere una barriera politica e di divisioni come è stato per tutto il Novecento, era un ponte di unione fra l’Occidente europeo e la sfera orientale grazie alla grande esperienza sociale, politica ed economica che fu rappresentata dalla Repubblica di Venezia, che produsse un’affascinante koinè che dalla laguna veneta si estendeva alle coste del mar di Levante, dell’Egeo e persino alle lontane sponde della Crimea, ponendo in contatto culture e usanze differenti che ebbero così modo di incontrarsi, conoscersi e arricchirsi reciprocamente.
Si tenga presente alla particolarità della storia secolare dell’Europa caratterizzata dalla presenza di poteri che potremmo definire “molteplici” come gli imperi (si vedano, ad esempio: l’Impero Asburgico che quello Ottomano), le repubbliche (anche aristocratiche), i principati e così via fino agli Stati-Nazione.
Fu con il progressivo sviluppo – tra la fine del XVIII secolo e la prima metà del XX – del concetto di Stato Nazione che l’idea di “confine” iniziò a delinearsi più chiaramente ma anche più marcatamente. La nascita dell’idea di nazione in senso politico e statale portò a una maggiore definizione dei confini, attraverso trattati e accordi che cercavano di stabilire le divisioni territoriali; dispute che iniziarono ad aggravarsi quando l’idea di “patria e nazione” sfociò nel fanatismo e nel nazionalismo. Le schermaglie e le guerre per il controllo territoriale divennero ancora più frequenti, con i confini che subivano cambiamenti significativi.
La Rivoluzione Industriale (1760) portò a una competizione tra le nazioni per le risorse, accentuando le tensioni e rendendo le frontiere ancora più rilevanti. L’impulso espansivo delle grandi nazioni porterà vigore alla spinta colonialista, fenomeno che si aggiungerà a quelli appena descritti nella ridefinizione di frontiere su scala globale.
Il XX secolo vide, dopo la Grande Guerra (1914 -1918), l’invenzione degli “stati cuscinetto” (Stato Libero di Fiume, la Libera Città di Danzica, la Libera Città di Memel sul mar Baltico, ma anche il Distretto di Hatay tra Turchia e Siria) e, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale (1939 – 1945), la nascita di frontiere ideologiche durante la Guerra Fredda, con il mondo diviso tra il blocco occidentale e quello orientale, al contempo i possedimenti coloniali di matrice europea si sfaldavano come neve al sole, lasciando spazio a orizzonti di autodeterminazione di quei popoli i cui sogni furono ben preso spazzati via da una nuova forma (decisamente più ipocrita e perniciosa) di neo-colonizzazione (o ricolonizzazione), questa volta tipicamente finanziaria e sovranazionale.
Muri, confini, paralleli e Cortine di Ferro divennero simboli (in)tangibili delle divisioni tra capitalismi e socialismi, con il Muro di Berlino che rappresentava fisicamente la separazione tra due ideologie tra loro, solo apparentemente, inconcilianti, ossia le fasi più acute del liberismo e quelle del socialismo reale. A tal riguardo suonano ancora profetiche le parole di Julius Evola: “In un certo senso, l’americanismo per noi è più pericoloso del comunismo: per il suo essere una specie di cavallo di Troia .”
Nel XXI secolo la globalizzazione ha avanzato una sfida al concetto tradizionale di frontiere. Le comunicazioni istantanee e gli scambi commerciali hanno reso il mondo più interconnesso, mettendo in discussione l’importanza dei confini nazionali. Tuttavia, contemporaneamente, il risveglio di nazionalismi ha rafforzato il controllo sulle frontiere, evidenziando la complessità della questione.
L’epoca ultima della globalizzazione, ridefinita nella dinamica successiva alla pandemia da Covid-19 che mettendo in crisi l’intera catena di approvvigionamento dei consumi, in compagnia di altri importanti fattori, ha acceso la scintilla che ha generato un’ondata inflazionistica da cui ancora ci si deve riprendere, si è ancor di più irrigidita con il conflitto in Ucraina.
In tutto questo assistiamo a uno strapotere degli organismi internazionali, sia politici che finanziario-economici, i quali hanno ormai valicato il confine del potere statuale delle singole nazioni occidentali, guadagnando terreno anche in ambito prettamente politico.
Se si è discusso più volte di “vincoli esterni”, pagelle o rating di agenzie sovranazionali, atteggiamento predatorio delle multinazionali ecc. ma non si presta sufficientemente attenzione al ruolo politico dell’influsso delle lobbies e delle grandi multinazionali che, anche grazie all’avvio negli anni Settanta della fase neoliberista in cui lo Stato ha cominciato gradualmente a retrocedere rispetto al potere della finanza, hanno ormai assunto il ruolo politico concessogli dagli stessi Stati: si faccia caso, ad esempio, al ripiegamento in senso iper-progressista di tutte le principali aziende occidentali. Un atteggiamento che lascia alcuni analisti incerti, soprattutto se si considera il ruolo originario delle imprese economiche, le quali sussistono grazie al perseguimento del risultato economico. Questo assioma è stato ormai superato, ci troviamo infatti nell’epoca in cui le multinazionali hanno assunto pienamente una responsabilità morale del tutto attinente ai principi di quel leviathan chiamato “Politicamente Corretto” e delle sue distorte filiazioni, Cancel Culture in primis; la responsabilità morale delle multinazionale si avvale di quelle imponenti capacità di comunicazione (marketing) derivate dalla sperimentazione politica della propaganda a inizio Novecento e abilmente fuse con i migliori – intesi come più efficaci in termini economici – studi psicologici da cui si originò quell’homo consumens del quale Zygmunt Bauman delinea e amplia i tratti antropologici.
“Build that wall!”
I muri, a distinzione delle frontiere definite “un affare intellettuale e morale” da Regis Debrais, nell’epoca contemporanea hanno assunto un ruolo simbolico e ambivalente: si pensi al Vallum di Adriano o alla Grande Muraglia cinese. Il simbolo è d’altronde qualcosa che per definizione rimanda a qualcos’altro e i muri della contemporaneità, ben lungi dal regolare il flusso di entrata e uscita, a partire da quello di Berlino, passando per quello tra gli Stati Uniti d’America e il Messico, giungendo infine in Polonia e Terra Santa, possono essere simboli di un’epoca e di una civiltà.
Il tracciato simbolico e materiale del confine-frontiera, le cui valicabilità e porosità sono a dir poco contraddittorie nell’interpretazione e nell’uso che se ne vuole fare, corrisponde alla cifra della postmodernità e del suo imperante relativismo.
Si veda il caso in cui le frontiere perdono la loro funzione sostanziale per assumere la valenza spalancata di ponti, all’essere invece la materializzazione triste di un carcere a cielo aperto, ultimo ostacolo di una Terra Promessa.
Capita anche che le linee di demarcazione giuridiche degli Stati corrispondano alle variabili interpretazioni e umori politici provenienti dalle esigenze strategiche d’oltreoceano. Prospettive geopolitiche capaci di alternarsi, per ragioni insite nella stessa nazione a stelle e strisce , da interventisti e isolazionisti, mantenendo sullo sfondo una interpretazione del tutto arbitraria e cinica del diritto internazionale.
Così un giorno ci si sveglia, sotto al poliedrico e contraddittorio pretesto del dirittismo a fasi alterne, a combattere per l’esportazione della democrazia, a lanciare una nuova crociata verso oriente fomentata dalla vaghezza del termine “terrorismo”, e un altro giorno ci si accorge del peso dei dazi (a proposito di confini) applicati da Oltreoceano nei confronti della nostra industria continentale, il cui devastante impatto sulla residuale classe media assesta gli ultimi colpi mortali a quella stratificazione sociale ed economica tipica dell’Europa e del suo equilibrio socioeconomico, in favore, more solito, delle sconfinate concentrazioni economico-finanziarie.
I muri sono fenomeni che ben rappresentano la crisi schizofrenica dell’attuale sistema occidentale, proprio quel sistema ipocrita che si maschera dietro l’ineluttabile incapacità di amministrare regolarmente flussi di essere umani in verità strumentali a interessi sovranazionali ed economici volti ad abbattere in primis il costo del lavoro, fin quando questo sarà un asset spendibile, ossia fin quando non sarà giunto il tempo delle macchine, le quali, secondo i filantropi statunitensi ci permetteranno di “lavorare solo tre giorni a settimana”.
Europa e/o Occidente: breve storia di un malinteso
Immersi, come siamo, nell’ubriacatura della globalizzazione, che altro non è che il tentativo d’occidentalizzazione dell’intero globo avviatosi intorno alla scoperta del Nuovo Mondo, solchiamo con attenzione i concetti di storia universale e spirito della storia, per addentrarci, seppur nello spazio che ci è concesso, in un concetto assai delicato per il suo significato storico-culturale, quello di Occidente in rapporto con quello d’Europa.
Riprendendo le parole del medievista Franco Cardini: “poche nozioni sono, infatti, più infide e scivolose di quella di “Occidente”, tanto più poi nella misura in cui essa tende ad assolutizzarsi e a metastoricizzarsi. In effetti, il concetto di Occidente è relativamente nuovo e sembra di per sé inscindibile da quello di modernità”.
Non è quindi semplice sostenere l’esistenza concreta, definita ed esaustiva di una identità occidentale, le sintesi storiche, di cui la più celebre, sebbene non l’unica, fu avviata da Alessandro Magno, impossibile non considerare la sua alterità orientale sfociata anche nella complementarità e nel processo di identificazione storica, un rapporto complesso, riemerso anche in tempi recenti ma declinato soprattutto come terreno di conflitto o addirittura scontro di civiltà.
Un accenno agli sviluppi dei principali eventi storici può aiutarci nel comprendere che Occidente, in origine, era inteso come collocazione geografica: le prime tracce le ritroviamo infatti nel mondo classico e più precisamente entro lo scontro tra Grecia, già coincidente con Europa, e Persia, in cui la prima era associata al concetto di libertà e la seconda a quello di dispotismo, una contrapposizione le cui tracce sono riconducibili a Ecateo di Mileto e alla sua opera divisa in due libri, l’una dedicata all’Europa intesa come Grecia e relative colonie, e l’altro l’Asia, Geografia.
In questa fase si ha quindi la coincidenza tra Europa e Occidente, di cui la prima, che è il risultato della stratificazione dei suoi popoli e le sue tradizioni, può essere fatta coincidere con tre dimensioni: quella mitica, quella geografica e quella che oggi potremmo definire storico-politica.
Il richiamo del mito è sempre affascinante, soprattutto nell’epoca postmoderna, la quale raccogliendo l’eredità del percorso che va dalla modernità alla contemporaneità ha sempre più necessità di ricostruire i propri idoli rituali intorno a nuovi altari. Abbiamo detto che la parola Europa, il cui etimo sembra essere composto da erus (largo o esteso) e ops (sguardo), compare per la prima volta in lingua greca nell’opera di Esiodo, essa si palesa in una lunga enumerazione di genealogie divine in cui Europa e Asia sono due sorelle i cui nomi compaiono tra le oceanine figlie di Teti e di Oceano. Verrà poi Erodoto che nel V secolo avrebbe diviso il mondo in tre continenti: Europa, Asia e Libia (intesa come Africa).
La nozione geografica, il cui portato relativo non va sottovalutato, che già per i greci si contraddistingueva per una distinzione etnico-antropologica e morale, come presentato dai Persiani di Eschilo, in cui all’Ellade corrispondeva una sorta di volto “solare” destinato a confrontarsi con quello “notturno” della Persia. Ritroviamo l’opposizione tra Europa e Asia anche nell’Iliade, l’epico racconto omerico della guerra di Troia è considerabile come uno dei testi fondativi del Vecchio Continente. Gli stessi popoli sembra si contraddistinguano nettamente per una specifica visione dello spirituale del mondo e dell’esistenza, la quale non esimeva da considerazioni che si collegavano a tesi in cui il clima aveva capacità di influenza sugli stessi.
Questa divisione permarrà poi in quella che sarà la divisione dell’Impero romano del IV secolo a.C.: una pars Orientis e una pars Occidentis, una Romanitas fondata sull’equilibrio mediterraneo-centrico di Occidente e Oriente in cui la tematica tra un Occidente virtuoso e un Oriente tirannico verranno ripresi da Virgilio e Tacito.
Venne poi quel concetto millenario di Europa cristiana sintesi gloriosa del mondo greco-romano e dell’oriente ellenistico, in cui i rapporti con l’oriente alternavano sia scontri sanguinosi che proficui incontri culturali e commerciali. L’avvento del cristianesimo ereditò l’ecumenismo romano applicando il concetto di Christianitas a quello di Romanitas, in cui il ruolo del barbarus passava al paganus.
In quest’epoca i confini assumo un aspetto anche simbolico: sarà proprio il discepolo di Agostino, Paolo Orosio, a sistemare una definizione dei confini dell’Europa del V secolo, rintracciabili nelle Colonne d’Ercole, il Tanai e il Mediterraneo, superando così il limes romano.
Il termine Europa continua a crescere e fra il VI e il IX secolo questo coincide definitivamente con i territori appartenuti alla pars Occidentis a nord dell’Africa che a quelli corrispondenti alle monarchie romano-barbariche.
La celebre vittoria di Poitiers del 732 – 733 è forse la prima occasione in cui la parola “Europa” assume una marcata connotazione identitaria. Poitiers è famosa anche per la sua descrizione storica, apparentemente redatta con un paio di decenni di ritardo dal cronista Isidoro Pacense, il quale celebra la vittoria dei franchi cristiani sugli ispano-musulmani associandola a vittoria degli Europenses, un termine che entrerà però nell’uso comune non prima del Quattrocento grazie a Enea Silvio Piccolomini , già Papa Pio II.
Se per tutto il medioevo la parola “Europa” venne usata per indicare più che altro una dimensione geografica, è con la dissoluzione della Christianitas latina, intorno al turbolento XV secolo, questa prese a connotarsi come dimensione storico-culturale. La mitologia dell’Europa cristiana si rafforza anche grazie alla grande tradizione epica: si pensi alla Chanson del Roland, alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso ma anche l’esito di Lepanto del 1571 e la difesa di Vienna dagli assedi ottomani del 1529 e del 1683.
L’epoca moderna e le sue scoperte porteranno a un’espansione definitiva e decisiva del concetto di Europa/Occidente e all’inaugurazione di quello che possiamo definire “processo di globalizzazione” capace di permanere, come equilibrio economico – culturale e geopolitico, per almeno mezzo millennio.
Saranno poi i trattati di Westfalia (1648) a sancire la fine delle cosiddette “guerre di religione”, a sancire la fine dell’identificazione dell’Europa con l’identità cristiana – che tuttavia resterà culturale e spirituale ma non più politica – e ad inaugurare il periodo contraddistinto dall’egemonia delle nazioni. La secolarizzazione, il fenomeno storico che sancisce la separazione tra le istituzioni religiose e quelle temporali, nata proprio in seno al Vecchio Continente, era ormai avviata.
Ma è tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo che i concetti di Occidente e quelli d’Europa cominciano a prendere due direzioni diverse, anzi opposte, le cui prese di posizione pubbliche e politiche vennero direttamente dalle personalità più in vista della nascente superpotenza americana, quest’ultima idealizzata alla stregua della patria della libertà e innervata dai precetti calvinisti e puritani, in cui è connaturato un destino salvifico, il cosiddetto “eccezionalismo americano”, la “Città sulla Collina” e la “Nuova Israele”, in opposizione al vecchiume assolutista europeo.
Una delle dichiarazioni che più ci possono tornare utili per capire l’importanza di questa cesura storica proviene da Thomas Jefferson, uno dei principali protagonisti della Rivoluzione Americana, uomo dotato di una vasta cultura classica ed europea: “Neppure se Iddio invece di un solo Figlio ne avesse generati mille, questo sarebbe bastato a salvare gli europei. E se anche tutti i sovrani d’Europa si impegnassero a liberare le menti dei loro sudditi dall’ignoranza e dai pregiudizi, non basterebbero mille anni a sollevarli a livello del popolo degli Stati Uniti. ” E in un’altra lettera si rimarca la provvidenziale divisione oceanica che separa il vecchio dal nuovo: “separato dal proprio ceppo originario e protetto dalla contaminazione, da parte di quest’ultimo o di altri popoli del vecchio mondo, dalla presenza di un così vasto oceano.”
Jefferson tornerà ancora sul punto e lo farà anche in occasioni ufficiali come in occasione del discorso inaugurale della sua prima presidenza, ma le parole probabilmente più incisive vengono proferite in un’altra lettera, questa volta indirizzata all’ambasciatore William Short: “ […] Non è lontano il giorno di quando chiederemo formalmente che sia tracciato un meridiano in mezzo all’oceano che separi due emisferi, sul lato del quale non dovranno mai essere udite le armi europee, né quelle americane dall’altro; quando, mentre infurierà la rabbia delle eterne guerre europee, nelle nostre regioni il leone e l’agnello riposeranno in pace.” Poco dopo, nel 1823, queste posizioni vengono rimarcate ufficialmente dalla celebre dottrina Monroe, a firma dello stesso presidente James Monroe.
Le prime velleità wilsoniane, seguite dalle celebri profezie spengleriane e il secondo dopoguerra vedranno stringere inesorabilmente i legami con gli Stati Uniti d’America, i quali assisteranno al dischiudersi, di fronte ai propri occhi, il corso della storia universale; il destino si manifestava nel peso dell’eredità dell’intero Occidente.
Una risemantizzazione geopolitica e spirituale, sebbene la triade di concetti di Europa, Occidente e Modernità rimangano in qualche modo strettamente interconnessi in un rapporto assai complesso.
L’Europa, come già fatto in precedenza, riproporrà una definizione identitaria di sé in antitesi rispetto al suo contrario: il Vecchio Continente rappresentava l’ultima propaggine del mondo libero che si ergeva rispetto al blocco socialista, entrando di fatto entro l’orbita statunitense, oramai pienamente fagocitata al neonato Occidente a definitiva trazione statunitense a cui si sarebbero aggiunti il Giappone e la Corea del Sud.
Riprendendo le parole di Claudio Finzi: “Chi oggi nel Vecchio Continente usa indifferentemente Europa e Occidente come fossero sinonimi o come il secondo comprendesse la prima, commette un grave errore storico e politico. Oppure accetta la visione statunitense del mondo, sperando che ormai l’Europa sia finalmente entrata a far parte del ‘sano e democratico’ Occidente. ”
L’Europa del dopoguerra, affrontato il periodo di ricostruzione post-bellico, la rieducazione di un intero popolo, quello tedesco, attraverso il cosiddetto “lavaggio del carattere” , assumerà quindi i connotati di un’anziana signora agiata giunta alla fine del suo tempo. Quello che, attraverso una metafora, potremmo paragonare ai gioielli più prestigiosi della corona dell’impero a stelle e strisce, si è cullato per decenni entro l’illusione di quella che verrà poi definita come “Fine della Storia”, ignorando bellamente gli sconquassi nell’ex Jugoslavia e, all’alba del 2022, il ritorno di Marte nel cuore dell’Europa.
Per decenni, all’ombra del trattato di difesa atlantico stipulato nel 1949, ( NATO), i popoli europei si sono crogiolati in un procedere di illusoria e imbelle rinuncia rispetto a quella Volontà di Potenza che, nel bene e nel male, aveva contraddistinto l’impulso del Vecchio Continente, il quale si faceva man mano ancor più secolarizzato, in piena fase post-nichilista e edonista mentre osservava il suo economicista rassegnarsi travolto da orde di immigrati, la cui causa è da rintracciare esclusivamente nello sfruttamento del continente africano – alla cui tanto cianciata decolonizzazione, come detto, è stata immediatamente sostituita una nuova forma di ricolonizzazione – da parte di quegli enti sovranazionali la cui impercettibilità rispetto all’opinione pubblica è pari alla sua capacità di incidere sugli equilibri internazionali e sulle leve del potere di ogni nazione che vede ormai una decisiva fetta della propria classe politica di rappresentanza alla stregua di un perenne comitato d’affari.
Lo stesso progetto di Unione Europea , così come architettato e pensato, così farraginoso e sideralmente distante dalle istanze dei popoli europei, altro non è che una vera e propria anti-Europa, come sostiene lucidamente il direttore di Limes, Lucio Caracciolo .
Oggigiorno è quindi oggettivo constatare un’assenza di quella che potremmo definire “identità europea”, questa non c’è nel presente.
La sfida per il futuro rimane però aperta sia perché è il ritorno della storia a pretenderlo e perché, ricordando, o forse sperando, nella profezia di Nietzsche: “l’Europa si farà sull’orlo della tomba”.
Frontiere e confini: dall’alto al basso. La ricaduta verticale.
Ma le frontiere e i confini non sono da considerarsi esclusivamente come linee di semplice demarcazione geografica – territoriale, questi ambiscono ad essere intessuti di ciò che nella storia permane, perdura e si tramanda attraverso il lavoro certosino della Tradizione, intesa come fedele opera di trasmissione valoriale nel tempo, il cui avvicendarsi assume proiezioni che ambiscono contemporaneamente a travalicare il perimetro scandito dal mero susseguirsi, restando fedeli al margine dell’identità, intesa come massimo perno di radicamento di ciò che persiste.
Frontiere e confini sono quindi il risultato dell’opera della storia e del suo corso, come abbiamo brevemente e non del tutto esaustivamente accennato. Lo spirito dei popoli, al netto del connaturato movimento, è radicato in un rapporto con una terra, quella stessa terra a cui farà ritorno e dalla quale continuerà ciclicamente a germogliare nuova linfa.
Entro le delimitazioni geografiche si sono quindi costituite, nel corso del tempo, le identità dei popoli, i loro usi e i loro costumi, così come le loro lingue; al loro interno si sono sviluppati, in un rapporto reciproco, le identità dei singoli.
Nei confronti di ciò che si erge e che ambisce, per ragioni esistenziali, a mantenere gli insegnamenti della tradizione e il perdurare dell’identità, è sorto un lento ma duraturo processo volto a smontare e destrutturare, livellare e omologare.
La rivoluzione ultra-borghese del Sessantotto – sovvertimento tra i più riusciti e duraturi della storia contemporanea – è solo una tappa di un lungo percorso che affonda le sue sradicanti radici nel culto del progresso, secolarizzazione e nichilismo.
Di fronte ai nostri occhi si dischiudono beffardi, i versi utopici di John Lennon che nella celebre Imagine cantava: “Imagine there’s no countries/It isn’t hard to do/Nothing to kill or die for/And no religion too/Imagine all the people/Living life in peace… ”.
Manifesti dell’impossibilità deprecabile per chi voleva conservare, bandiere di rivoluzioni antiborghesi per chi sognava la sovversione per poi ritrovarsi accoccolati entro l’esclusivo perimetro di turbo-edonismo post-borghese.
Dalla società alla comunità, in una sola parola: famiglia
Partiamo subito col distinguere i concetti di società e comunità: questi sono termini che spesso vengono utilizzati in modo intercambiabile, ma in realtà presentano differenze significative. Infatti, se “società” si riferisce solitamente a un insieme di individui interconnessi da norme, valori e istituzioni, con l’accezione “comunità” si vuol far menzione a un legame nettamente più stretto e profondo tra i membri che la costituiscono. Nel contesto della comunità primordiale, si può osservare come la famiglia tradizionale giochi un ruolo cruciale.
Le prossime righe tratteggeranno le differenze che sussistono tra società e comunità, concentrandosi sull’importanza della famiglia come prima e autentica comunità primordiale.
La società è un concetto ampio che abbraccia l’organizzazione complessa di individui che vivono insieme e condividono risorse, valori e istituzioni questa si basa su strutture formali e informali che regolano il comportamento individuale e collettivo. D’altra parte, la comunità si riferisce solitamente a un gruppo più contenuto di individui che condividono legami più intimi, spesso basati su relazioni personali, storia condivisa o interessi comuni. La comunità è caratterizzata da un senso più profondo di appartenenza e reciprocità rispetto alla società. La comunità è anche il luogo in cui assistiamo alla nitida, condivisa e fondante correlazione tra diritti e doveri e all’incrocio di due parole simboliche tanto dimenticate quanto obliterate: generosità e onore intesi come valori prepolitici e immutabili.
All’interno del vasto concetto di comunità, la famiglia tradizionale emerge come un’entità particolarmente significativa. Questa forma di comunità primordiale è radicata nella storia umana, rappresentando un’unità fondamentale sin dai tempi antichi. La famiglia tradizionale, generalmente composta da genitori e figli, crea un tessuto sociale intrinseco, fornendo una base per la crescita individuale e collettiva.
La famiglia tradizionale, in quanto comunità primordiale, offre un ambiente in cui i legami familiari agiscono come una rete di supporto fondamentale. I membri della famiglia si sostengono reciprocamente attraverso le sfide della vita, offrendo comfort emotivo, assistenza pratica e un senso di appartenenza. Questo tipo di comunità originale crea un ambiente sicuro in cui gli individui possono edificare la propria identità, sviluppare relazioni significative nell’ottica del senso gerarchico naturale dell’autorità e della predisposizione, altrettanto, naturale al dono: è infatti entro il nucleo della famiglia che si sviluppano anche buona parte di quelle dinamiche sociali che saranno poi riprodotte in scala maggiore sia nella comunità che nella società.
La famiglia tradizionale svolge anche un ruolo cruciale nella trasmissione di valori attraverso le generazioni. Le tradizioni, le norme e i valori condivisi all’interno della famiglia contribuiscono a plasmare la cultura più ampia della società. La comunità originaria della famiglia agisce come un custode di conoscenze e identità, mantenendo e trasmettendo un patrimonio culturale che contribuisce alla coesione sociale.
Sin dai primi giorni della storia umana era quindi l’unità famigliare a svolgere un ruolo di supporto emotivo e materiale, durante il Medioevo e il Rinascimento l’istituto famigliare ampliò il suo ruolo entro la società europea istituzionalizzandosi sempre più. Al tempo stesso, la famiglia contadina fungeva anche da unità produttiva in cui, all’ombra dei cicli della natura, si intersecavano lavoro e vita famigliare. L’avvento dell’Illuminismo ampliò non solo il concetto strumentale della Ragione ma fece sì che libertà individuale e uguaglianza cominciassero a essere nuovi punti cardinali da perseguire. Inutile dire che anche la stessa famiglia fu coinvolta da questo cambiamento, il quale portò veri e propri sconvolgimenti durante la Rivoluzione Industriale contraddistinta da massicce migrazioni dalle campagne alle città. Il fenomeno sociale dell’inurbamento contribuì, tra le altre cose, anche alla separazione e a un primo, traumatico, sfilacciamento dei membri famigliari in cerca di lavoro e fortuna. Il XX secolo vide, infine, un’ulteriore evoluzione dell’istituto famigliare: se durante i grandi conflitti questo funse da supporto vitale come sostegno durante i durissimi periodi di crisi, il dopoguerra, in occidente, si contraddistinse per un aumento della prosperità economica e una transizione quasi esclusiva verso le famiglie nucleari.
In estrema sintesi, possiamo sostenere che la società e la comunità rappresentano concetti distinti, con la comunità che sottolinea legami più intimi e significativi e la famiglia tradizionale, come forma di comunità primordiale, gioca un ruolo chiave nell’offrire supporto, sviluppare identità individuale e trasmettere valori attraverso le generazioni. Se comprendere e preservare l’importanza della famiglia tradizionale contribuisce alla creazione di società più coese e resilienti, in cui le comunità primigenie svolgono un ruolo fondamentale nella formazione del tessuto sociale, si può facilmente capire come queste siano divenute l’oggetto primario di critica serrata e destrutturazione spietata di un modello di contestazione teso a liberare l’individuo da ogni supposto pretesto di oppressione: dalla famiglia, ai vecchi costumi e alle vetuste tradizioni, l’attacco all’impianto millenario costituitosi per millenni entro il Vecchio Continente (e nel nuovo occidente) fu oggetto di smontamento progressivo in ossequio al principio di libertà negativo (essere liberi da qualcosa: emancipazione, deterritorializzazione, secolarizzazione), con il clamoroso risultato di giungere, in pochi decenni, a un individuo che può solo liberarsi dalla sua stessa esistenza e, si badi bene, non stiamo usando un’iperbole: numerosi e vividi solleciti di alleggerimento del peso dell’esistenza che gravano sulle casse dello Stato provengono direttamente proprio da quei paradisi in terra del progressismo mondiale, primo tra tutti il Canada di Justin Trudeau o gli esempi socialdemocratici scandinavi.
Laddove la famiglia è depotenziata e scardinata, all’eliminazione simbolica del padre e alla risemantizzazione del portato di autorità quello che si è ottenuto è il sogno di ogni sistema totalitario, ossia una società dove tutti sono figli. Al cospetto del potere postmoderno, sempre più pervasivo, rimane la nudità solitaria dell’ultimo uomo (nuovo).
Quindi, dati alla mano, cosa rimane della famiglia, oggi? Tanto brutale, quanto asettica, l’ultima fotografia del Censis ci aiuta a ritrovare le coordinate necessarie: analizzando un’Italia stretta tra la morsa dell’invecchiamento della popolazione e il crollo delle nascite, in tema di famiglia riporta che “nel vicinissimo 2040 solo una coppia su quattro avrà figli. Per quella data i nuclei unipersonali aumenteranno fino a 9,7 milioni (il 37% del totale). Di queste, quelle costituite da anziani diventeranno quasi il 60% (5,6 milioni) e saranno sempre più soli. Un contesto in cui cresce la rassegnazione: otto italiani su dieci sono convinti che il Paese sia “irrimediabilmente in declino”. Ed è tra i freddi numeri di questa ricerca che balza all’occhio l’indicibile conquista di un processo lungo e certosino: “un plebiscitario 94% rivaluta la felicità che deriva dalle piccole cose di ogni giorno come il tempo libero, gli hobby, le passioni personali.”
La grande conquista di un eterno presente che si vuole immutabile nel suo paradigma è quella di aver reso desiderabile la miseria concessa per sopravvivere.
Fine e/o inizio di un fine
La fluidità del presente totalitario gioca a irretire le individualità, creando nuovi bisogni obsolescenti, lucrose e sanguinose divisioni e soprattutto seducenti ridefinizioni delle priorità.
Illudere che tutto sia possibile equivale a vendere sconfinate porzioni di nulla, labirinti tristi senza via d’uscita. L’attacco alle frontiere, la ridefinizione arbitraria dei confini, l’abbattimento di ogni certezza naturale, l’attacco alle genuine gerarchie, l’insofferenza rispetto al senso del limite altro non sono che maschere cieche tese a distrarre dalle ambizioni dei nuovi titani il cui terrore è retrocesso allo stesso dell’uomo antico ma con una piccola e sostanziale differenza: quest’ultimo cercava la consolazione di un Dio, il primo crede di esserlo.
Il comune denominatore di ogni ente, che sia statuale o individuale, continua ad essere la forza col quale si riesce ad imprimere e difendere nel corso della storia la propria identità e questa, rifacendosi alla propria matrice innatista, non può esimersi dal nutrire e proteggere le proprie radici per poi, solo successivamente, interloquire con le relative alterità in una dinamica che possa contemplare contemporaneamente il realismo della lungimiranza e ripudiare le catene della sudditanza, proprio in ragion del fatto che i confini hanno un senso non solo quando delimitano ma piuttosto quando tutelano, perché la differenza che intercorre tra il limes e il finis è il vero ultimo argine esistenziale.
Valerio Savioli