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LA SIRIA IN MANO AI TERRORISTI. Di Gianni Alemanno

Il 7 dicembre il regime siriano è collassato: Damasco è caduta in mano di gruppi ribelli che provenivano da sud, dal governatorato di Daraa e Suwayda; il presidente Al Assad è fuggito e il primo ministro al-Jalali si è messo a disposizione degli insorti per garantire la continuità del governo. Nel resto della Siria dilagano le milizie di Hayat Tharir al-Sham, dell’Esercito Nazionale Siriano e delle SDF curde, sostenute da Turchia, Stati Uniti e Israele. Tutto si è consumato in appena una decina di giorni. Ma andiamo con ordine.
All’alba del 27 novembre è iniziata l’Operazione “Dissuadere l’Aggressione”, così è stata chiamata la guerra in Siria 2.0. La guerra odierna è strettamente collegata agli altri teatri dello scontro fra l’Unipolarismo USA, e i suoi satelliti o le potenze che vi si accodano per interesse, e le nazioni che si rifiutano d’assoggettarsi. È una guerra che dall’Ucraina s’è dilatata al Medio Oriente, all’Africa e ha per orizzonte ultimo l’Indo-Pacifico, correndo lungo le faglie del cozzo fra l’ordine presente unipolare e chi quell’ordine vuole scrollarsi di dosso.
Chi c’è dietro la nuova guerra siriana? Tre sono i soggetti internazionali che hanno influenzato direttamente gli eventi.
Innanzitutto la Turchia: è l’attore principale, retroterra e base dell’operazione Dissuadere l’Aggressione. Erdogan era stato messo all’angolo da Al Aqsa Flood; quella guerra aveva polarizzato la scena fra Iran e Israele, spiazzando Ankara e ponendola fuori dai giochi; la nuova guerra è stata una mossa per uscirne. Sono tre le imperative esigenze turche: la prima è completare l’occupazione di una fascia di territorio profonda una trentina di chilometri lungo tutti i confini con la Sira. Costituire una sorta di area cuscinetto in cui riversare i milioni di profughi siriani residenti in Turchia – da quattro a cinque – che costituiscono un impellente problema di politica interna, molto sentito dalla popolazione, ed è questa la seconda motivazione. La terza è la questione delle questioni: l’eliminazione delle SDF egemonizzate dai curdi, ovvero della branca siriana del PKK, che occupava la Siria oltre l’Eufrate, gestendo i territori per conto degli USA e nell’interesse proprio.
Per centrare questi obiettivi serviva la normalizzazione dei rapporti con Damasco, che Erdogan aveva cercato da circa un anno. Ma il presidente siriano Al Assad aveva posto una precondizione all’inizio delle trattative: l’impegno formale al ritiro delle truppe turche dai territori siriani che già occupavano.
In realtà, l’offensiva pare fosse pronta da diverse settimane: Erdogan ha cercato il via libera di Putin all’eliminazione delle milizie curde e la collaborazione di Al Assad;
ma la Russia ha dichiarato la presenza turca in Siria occupazione militare e Al Assad, in margine del vertice di Astana, è stato irremovibile nella sua precondizione. A quel punto Erdogan ha dato il via libera al progetto, col pieno appoggio americano e l’aiuto dell’Aviazione Israeliana, che ha effettuato numerosi raid per colpire basi, depositi e personale dell’Asse della Resistenza e delle Forze Armate Siriane.
Poi c’è Israele: l’attacco è partito infatti all’indomani della tregua in Libano. Per Tel Aviv, provata dal lungo conflitto che dura dal 7 ottobre dell’anno scorso, era imperativo distrarre l’Asse della Resistenza e isolare Hezbollah dalle vie logistiche che lo rifornivano attraverso la Siria.
Infine ci sono gli Stati Uniti: essi devono indebolire l’Iran e limitare l’influenza russa in Medio Oriente. Ciò gli serve anche come carta negoziale da giocare con Mosca per le prossime trattative sul conflitto ucraino. E non è un caso, infatti, che Intelligence e Forze Speciali ucraine siano impegnate da tempo in Siria contro gli interessi russi e iraniani, quale manodopera per il lavoro sporco per conto degli USA.
La scelta del momento: è stato indubbiamente il più propizio. L’esercito siriano di suo era strutturalmente molto debole. Al momento dell’attacco poteva contare solo su tre unità degne di nota: la 25^ Divisione Forze Speciali, in realtà solo fanteria meccanizzata; la 4^ Divisione corazzata comandata da Maher Assad, fratello del Presidente; la Guardia Repubblicana, continuamente spezzettata per fare fronte agli impegni più gravosi in tutto il paese. I motivi di questa debolezza erano diversi: il principale era che i suoi effettivi venivano essenzialmente reclutati fra la componente alawita della società siriana, quella cui appartiene la famiglia Assad, che rappresenta solo il 10/12% della popolazione. Il logorio di quasi 14 anni di guerra, corruzione diffusa e sclerosi di un sistema largamente nepotistico hanno fatto il resto.
L’Asse della Resistenza aveva da tempo ritirato le proprie milizie e Hezbollah e Iran si erano concentrati sul teatro libanese. I russi, dal canto loro, avevano ridotto il proprio contingente all’osso, spostando le risorse sul teatro ucraino. Inoltre, nota essenziale, la Russia non ha alcun interesse d’andare a scontro frontale con la Turchia e, nei fatti, neanche con Israele, a cui, malgrado le tensioni causate dal conflitto ucraino, ha sempre lasciato aperti i cieli siriani: troppi sono i legami fra le due nazioni, meglio, fra i due gruppi dirigenti. E troppi sono divenuti anche i legami con Ankara: il transito delle navi russe dal Mar Nero, le triangolazioni di gas russo e di prodotti che aggirano le sanzioni dell’Occidente, la politica nel Caucaso, nell’Asia Centrale, in Africa e molto altro ancora. Troppo perché si giunga a guerra aperta fra i due paesi.
Gli attori dell’offensiva: il primo è Hayat Tharir al-Sham, ex Jabat al-Nusra, ovvero l’ala siriana di al-Qaeda. E per inciso: lascia senza parole l’ipocrisia con cui l’Occidente descriva un’organizzazione universalmente definita terroristica come “opposizione” al Governo siriano, ennesimo esempio di doppio standard occidentale. Hayat Tharir al-Sham si era radicato in una parte del governatorato di Idlib, nel nord-ovest della Siria, divenendo di gran lunga il più forte dei gruppi terroristici. Il suo leader, al-Julani (pseudonimo di Ahmed al-Sharaa), contando sulla forza del gruppo, ha ritenuto a lungo di poter giocare in proprio, continuando a sfruttare i territori controllati e i traffici criminali che vi passavano, tuttavia era in crescente difficoltà interna. Ha colto l’occasione di farsi strumento della Turchia per uscire dall’angolo.
I militanti di Hayat Tharir al-Sham – diverse decine di migliaia – sono stati addestrati, armati con ogni tipo di materiale (anche molti droni e munizioni circuitanti) e inquadrati per molti mesi, pare addirittura da un anno. Ed è semplicemente impossibile che tutto ciò possa essere avvenuto senza la determinante partecipazione turca. Essi costituiscono la forza principale d’attacco.
Esercito Nazionale Siriano: è il secondo protagonista. È una sigla ombrello che riunisce circa una quarantina di milizie al soldo della Turchia; diverse di esse sono già state utilizzate dai turchi contro le milizie curde. Si tratta di gruppi eterogenei, diversi di loro appartenevano all’ISIS o al-Qaeda. Sono spesso in lotta fra loro e per questa caratteristica non hanno un leader, né un comando unico; i vari gruppi rispondono, chi più, chi meno, a chi paga e invia i materiali, ovvero primariamente Ankara e i suoi Servizi. La somma di questi miliziani è notevole, anch’essa ascende a decine di migliaia.
Quando il regime ha mostrato la sua fragilità dinanzi all’attacco che proveniva da nord, da est hanno attaccato le forze controllate dalle SDF curde, sostenute dall’Aviazione e dalle Special Forces americane (alcuni operatori USA, feriti, sono stati evacuati in Giordania). Nel frattempo, da sud, dai governatorati di Daraa, Suwayda e dall’area della base di al-Tanf controllata dagli Stati Uniti, sono intervenuti altri gruppi di ribelli che hanno puntato anch’essi sulla vicina Capitale.
Lo svolgimento degli eventi: la situazione si è evoluta con grande rapidità: Aleppo, la seconda città della Siria, è stata conquistata dopo pochi giorni, Saraqib è stata presa subito dopo e sono state tagliate le autostrade A4 e A5, fondamentali per la connessione del paese. Hama è caduta dopo aspre battaglie, che sono state le uniche resistenze serie del regime. Le colonne dei miliziani si sono dirette a sud verso Homs, la terza città del paese, che hanno preso praticamente senza combattere.
Da sud, dai governatorati meridionali di Daraa e Suwayda al confine con la Giordania, e da Al-Tanf, anch’essa sul confine giordano, altri gruppi di ribelli hanno respinto le forze lealiste e sono entrati a Damasco.
Mentre le colonne di Hayat Tharir al-Sham si sono dirette principalmente verso sud, la Turchia sta spingendo le milizie dell’Esercito Nazionale Siriano lungo il confine e le SDF, le forze curde, stanno ripiegando. La città chiave di Manbji è già caduta nelle mani dei miliziani. Nei fatti Ankara sta espandendo il proprio controllo sulle aree di confine con la Siria.
Le forze russe hanno abbandonato le proprie posizioni per ritirarsi verso le basi di Tartus e Hmeimin, sul mare. La flotta russa presente (tre fregate, un sottomarino e due navi appoggio) ha levato gli ormeggi allontanandosi dalla base, giustificando ufficialmente la partenza con esercitazioni in mare. Mosca aveva notificato a Damasco che avrebbe continuato a dare sostegno, ma limitato, perché le proprie priorità erano altre.
Hezbollah ha ritirato i suoi elementi dalla Siria il giorno 7 e sta spostando truppe verso il confine, in direzione di Qalamoun, per coprire i valichi fra Siria e Libano. L’Iran ha evacuato i consiglieri della Forza Quds e l’Iraq si è limitato ad attestarsi massicciamente sui propri confini; a parte un limitato contingente del Badr, le Hashd al-Shaabi irachene hanno preferito non precipitarsi in un teatro ormai compromesso.
Dal canto suo Israele è entrato in forze nella zona cuscinetto del Golan e si è posizionato nella regione siriana di Quneitra. Del resto, il regime israeliano è sempre stato vicino ai qaedisti, li ha aiutati al tempo del conflitto precedente ed esponenti di HTS hanno dichiarato apertamente che Israele non ha nulla da temere da loro e che in futuro è loro intenzione aprire un’ambasciata a Gerusalemme.
In una dichiarazione su X, Donald Trump ha dichiarato che gli USA non dovrebbero farsi coinvolgere nel conflitto. Con ciò avvalorando l’idea che questa sia l’ennesima iniziativa – o quantomeno partecipazione a un’iniziativa – da parte dell’Amministrazione uscente per avvelenare i pozzi, lasciando la nuova Amministrazione dinanzi a crisi difficilmente gestibili.
Sabato, a Doha, a margine di una conferenza tenutasi in Qatar, i ministri degli esteri russo, iraniano e turco hanno discusso della situazione. Ma Erdogan sa di avere ormai in mano le carte migliori: il regime siriano si è dissolto e Mosca e Teheran si stanno rapidamente riposizionando per non perdere del tutto l’influenza sul paese. Lavrov ha dichiarato che occorre una soluzione politica, ovvero scindere HTS dagli altri oppositori. Un modo per lasciare spazio alla Turchia e trovare un accomodamento.
Ora si aprono molti interrogativi, primo fra tutti: come troveranno una sintesi le forze che hanno rovesciato il governo? Non hanno uno stabile coordinamento e si sono combattute spesso. Certo, le potenze che tirano i fili dietro di loro possono trovare un accomodamento, ma è dubbio che quei mercenari accettino di fare un passo indietro. Su tutti c’è il problema dei qaedisti: presentare come opposizione dei terroristi è un paradosso anche per l’Occidente, e c’è chi già si muove per emarginarli. Ma sono loro il gruppo più forte e non l’accetteranno.
La sensazione è che il regime siriano sia collassato assai più e prima di quanto previsto da Turchia, USA e Israele, costringendoli ora a fare i conti con i vincitori sul campo. Iran e Russia sono in attesa degli sviluppi, ma è significativa la dichiarazione rilasciata domenica dall’ex primo ministro siriano al-Jalali: la presenza russa in Siria sarà di competenza del governo che verrà. Appare in ogni casi evidente quanto sia difficile che turchi, americani e israeliani controllino quelle bande. A quanto pare, ci sono i presupposti di una nuova guerra, l’ennesima accesa dall’Occidente; di un nuovo buco nero sulle sponde orientali del Mediterraneo.

Gianni Alemanno

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